In fondo ad alcuni gradini, sotto il livello della strada, la porta si apre su un locale male illuminato. Una leggera coltre di fumo permette di vedere chiaramente solo il barista, custode di spiriti, e la band che suona una canzone ruvida come i mattoni che delimitano il bar. Gli avventori sono come fantasmi, quelli solitari che accasciati su uno sgabello parlano con il barista o con il loro bicchiere, mentre gli sguardi danzano e si incrociano di sfuggita penetrando a fatica l’aria affaticata. La tensione, sensuale in tutte le sue sfumature, è palpabile.
Se una scena del genere esistesse veramente, la band nell’angolo non potrebbe essere altro che i Morphine. Questo trio, formato a Boston nel 1989, si presenta con una formazione molto particolare: batteria, sassofono e basso. Esatto, niente chitarra. Per di più il basso, suonato dal cantante Mark Sandman, ha solo due corde e viene suonato con lo slide. Con una formazione così insolita e ridotta all’osso non è da chiunque riuscire a comporre pezzi fondamentalmente rock. Ma i Morphine non sono chiunque e, a dirla tutta, il termine “rock” è piuttosto limitante per descrivere la loro musica. Il basso snocciola riff secchi e scivolosi creando l’ossatura narrativa insieme alla batteria dall’impronta jazz, il sax di Dana Colley arriva poi a tenere insieme tutto, sexy e languido, diabolico e nervoso.
Il debutto, Good, arriva nel 1992 come un alieno su questo pianeta. Il trio stupisce con i resoconti noir delle loro esplorazioni di quei territori paludosi che si trovano tra i confini di rock, blues e jazz. La voce baritonale da crooner di Sandman è suadente e smooth come il fumo di una sigaretta, ma le storie che racconta la rendono ineffabilmente pericolosa. Richiama la severa dolcezza dell’omonimo Signore dei Sogni di Neil Gaiman, anche se le illustrazioni più adeguate sono nel bianco-nero della Sin City di Frank Miller.
I Morphine sono creature della notte e vedono quello che le persone in genere vogliono tenere nascosto dietro una luce spenta o nel fondo di una bottiglia. Vedono delusioni e false illusioni, cuori infranti e amori torbidi.
“I can’t lose forever but I’m doomed to try” lamenta un Sandman rassegnato in “Have a Lucky Day” nel crescendo di un parallelo tra l’amore e il gioco d’azzardo in un casinò. Chi c’è dietro queste scelte discutibili e questi destini implacabili? È il solito sospetto, il diavolo, una voce interiore che dà consigli sul da farsi e a cui non si può dire di no. “You see I met a devil named Buena Buena” e dopo aver incontrato questo diavolo niente è più lo stesso, come recita la canzone che, anche per questo, è a mio parere la più rappresentativa.
Nel 1993 esce Cure for Pain, il secondo disco e il loro capolavoro. Si chiariscono le idee e si rimettono in carreggiata definendo meglio il loro sound. Durante la loro carriera i Morphine hanno ad ogni album confezionato pezzi sempre più compatti e con arrangiamenti più elaborati, nel corso degli anni sono comparse percussioni, sporadiche chitarre e strumenti inesistenti come il tritar, ma qui hanno raggiunto l’apice del loro suono più caratteristico.
La scaletta, pur mantenendo una consistenza post-crepuscolare, è assolutamente bipolare. Come negli gli ultimi strascichi di una festa di compleanno di Jim Jarmusch, c’è una canzone per ognuno dei ritardatari che aleggiano sotto al palco: chi balla in estatica ebbrezza, chi abbandonato sulla sedia fissa il bicchiere mezzo vuoto.
Ci vorrà qualche anno prima di vedere la pubblicazione dell’ottimo Yes. Un album più vivace e luminoso, che lascia intuire un cambio marcia già dall’attacco di Honey White, un poderoso rock’n’roll dove il nuovo batterista Jerome Deupree fa capire di che pasta è fatto. Esce dalla formazione Billy Conway che ritornerà più avanti alle percussioni quando la formazione si allargherà in pianta stabile. Prosegue l’evoluzione, graduale ma inesorabile, dello stile Morphine che sforna sempre più pezzi orecchiabili senza mai scadere nello scontato. Non si risparmiano nemmeno qualche virtuosismo, come su Radar e Super Sex dove Collet suona due sax. Contemporaneamente.
I Morphine, confermata la loro qualità di alchimisti della canzone. sfondano le porte di ogni radio e magazine indie in America, arrivando alle orecchie anche dei più curiosi ascoltatori europei, ma non riescono mai ad ottenere un successo sostanziale. Il che forse è solo un bene. Nemmeno con Like Swimming, forte del supporto dell’etichetta DreamWorks Records, riescono a farsi sentire più in là della loro cerchia di fan. L’album è piuttosto debole, i passi falsi che si possono già notare nell’album precedente qui diventano la norma. Un disco anche bello in sé, ma che segnala una grande stanchezza compositiva. Saranno forse esaurite le possibilità espressive di un trio così minimale, con una così pesante responsabilità appesa a solo due corde di basso?
Dopo dieci anni di carriera i Morphine si sciolgono. La loro esistenza si interrompe per l’esattezza il 3 Luglio del 1999 a Palestrina dove Mark Sandman, durante l’esibizione ad un festival, viene stroncato da un infarto sul palco. La più tragica e dannatamente romantica morte di un musicista.
Dopo pochi mesi esce The Night, l’album postumo, il sigillo definitivo che consacra la figura di Sandman. La registrazione si era conclusa pochi giorni prima della fatidica data italiana, e il risultato è un disco ricco, scuro, e arrangiato con eleganza. Le percussioni, l’organo e la chitarra danno nuove sfumature alle oniriche tonalità del sound Morphine e ne sostengono le surreali strutture. Un accidentale testamento di una band unica, da consigliare bisbigliando come un segreto prezioso.