Vista la lunghezza e la corposità di questa riflessione su Leggenda privata di Michele Mari abbiamo pensato di rendere disponibile anche una versione scaricabile in PDF.
I
Leggenda privata si apre con una foto di famiglia in bianco e nero, scattata in una località di montagna, o forse di lago: un bambino che non sorride, in primo piano, si aggrappa con le dita della mano sinistra a una cordicella del bucato, la mano destra sul corrimano in legno del passeggiatoio della piccola casa; la sua testa è incorniciata da una camicia bianca che dà un effetto abbagliante (anche per via del contrasto bianco-nero esasperato in copertina rispetto alla riproduzione in testo della stessa foto). Appartiene alla madre, ugualmente seria, addirittura buia, le mani sui fianchi, che incombe dietro al bambino, in un assetto piramidale sottolineato dalle linee spioventi formate degli arti, con le mani della madre a circondare, in illusione ottica, la testa del bambino, dalla cornice di legno del passeggiatoio in cui i due sono inscritti come in un rettangolo e, forzando appena, dalla cupezza delicata dei volti. In una foto che ha tutti i crismi della casualità, al pari di mille foto di milioni di album di famiglia con ben poco di studiato, le figure di Michele e Iela Mari sembrano già avere le fattezze di un presagio e fungere da porta non solo al libro, un’autobiografia (volutamente) abortita per mancata volontà di sviluppo in una narrazione anche solo vagamente lineare, ma all’intera opera di Michele Mari, in un certo senso.
Istintivamente e in modo del tutto arbitrario, a chi scrive viene in mente un’altra piramide familiare del romanzo contemporaneo: quella che Philip Roth mette sulla copertina di Patrimonio, un resoconto autobiografico sull’agonia e la morte di suo padre Hermann a ottantasei anni, dopo una lunga lotta con un tumore al cervello. Nell’istantanea del passato il giovane Hermann, ancora nel pieno della sua potenza fisica, incombe protettivo, senza essere perturbante, dietro i due figli. In un momento dei più difficili (il padre morirà di lì a poco) Philip guarda la foto risalente a quasi cinquant’anni prima:
Sulla credenza di fronte al sofà c’era l’ingrandimento dell’istantanea scattata cinquantadue anni prima con una macchina fotografica a cassetta sulla costa del New Jersey che anche noi, mio fratello e io, avevamo incorniciato e messo bene in vista nelle nostre case. Siamo in posa, in costume da bagno, un Roth dietro l’altro, sul prato antistante la pensione di Bradley Beach dove la nostra famiglia affittava una camera da letto con uso cucina ogni estate per un mese. È l’agosto 1937. Abbiamo quattro, nove e trentasei anni. Ci drizziamo verso il cielo formando una V, di cui i miei sandaletti sono la base appuntita e le spalle larghe di mio padre – tra le quali è perfettamente centrata la faccia furba da folletto di Sandy – le due imponenti terminazioni della lettera. Sì, quella che spicca sulla foto è la V di Vittoria: di Vittoria, di Vacanza, di retta e distesa Verticalità! Eccola, la linea maschile, intatta e felice, in ascesa dalla nascita alla maturità[1]!
Le due foto d’infanzia, più che distanti, sembrano l’una il rovescio dell’altra. La piramide di Roth, col vertice in basso, irraggia la vitalità dell’infanzia e del padre invincibile: è una proiezione sulla parete della memoria, ottenuta paradossalmente senza ombre in quanto stampata nella luce abbacinante dell’infanzia. La piramide di Mari pare, con Manganelli, discenditiva. E tutto, nonostante l’ambientazione serena della montagna, vi appare oscuro. Oltre a questa simmetria a posteriori, non di meno evidente a chi voglia provare un confronto, si può ricavare un’altra differenza meno immediata da percepire, più utile per iniziare a scendere dentro Leggenda privata. Nella foto di Patrimonio, tutto è immediatamente limpido: la «V di Vittoria» occupa lo spazio visivo e nega qualsiasi domanda. I tre maschi della famiglia Roth, nella forza degli inizi, non lasciano spazio a interpretazioni, aprono il libro ricordando che, per quanto dolore ci verrà propinato nelle pagine, qualcosa di bello è pur esistito, se ne hanno le prove. Anzi, è proprio l’energia intatta dell’Hermann del 1937, per contrasto, a costituire una sfida per il narratore Roth che, all’altezza degli anni ’80, col padre in agonia, si ostina a riunire due esistenze in apparenza così distanti nella dignità tridimensionale e seria di un personaggio unico. Nelle parole di Roth:
Unire in una sola immagine la robusta solidità dell’uomo nella foto con lo sfinimento dell’uomo sul divano era e non era un’impossibilità. Cercare con tutta la mia forza mentale di unire i due padri e farne una cosa sola era un’operazione sconcertante, infernale addirittura[2].
Ma, nel caso della foto di Mari, possiamo chiederci: anche se volesse ricomporlo, come pure ci si aspetterebbe in un testo a tema autobiografico, dov’è il padre? Nella risposta a questa domanda sta la differenza sotterranea e più sostanziale fra le due foto. Il padre, qui, è colui che scatta la foto e, soprattutto, che sta fuori dall’inquadratura, gettando la sua ombra al di dentro di essa, come Mari precisa nella frase che introduce l’immagine:
Se la madre non lo difendeva, si formava talvolta nella mente del figlio il delirante conato di difenderla lui, come si evince dalla seguente fotografia scattata dal padre: autentico scudo umano, il figlio si frappone con uno sguardo che dice: «Dovrai passare sul mio cadavere».[3]
L’elemento che sta fuori dall’inquadratura ha importanza pari (o superiore) a ciò che vi sta dentro. O anche, allargando il nostro campo visivo ai testi: negli spezzoni disordinati e ritornanti della storia di Leggenda privata, c’è sempre qualcosa fuori dal nostro sguardo che infesta i personaggi, ne determina le azioni, li conduce alla rovina annunciata. La vita è un ricamo su un buio iperreale in cui le parole non hanno cittadinanza. Patrimonio è concepito, da sottotitolo, come una “storia vera” in cui nulla deve essere dimenticato o rimosso, e perciò è piuttosto lineare, attaccato all’idea che la realtà sia quello che si vede, che si è vissuto, con soltanto una concessione finale a un sogno di Philip. Il passato si può ricostruire sulla pagina. Nonostante nel passaggio fra anni ’80 e ’90 Roth stia componendo i suoi capolavori della stagione più illusionistica e metafinzionale della sua opera (dalla Controvita, 1986, a Inganno, 1990, per finire con l’autofinzione Operazione Shylock, 1993), qui distorcere il dato reale non sarebbe una terapia per metabolizzare il passato e preservare le persone reali, ma un tradimento ingiustificato del debito con i padri. Mentre Philip aiuta il vecchio Hermann a lavarsi nella vasca, prende coscienza della miseria del suo corpo, e insieme del compito assegnatogli: «”Devo ricordare con precisione […] ricordare ogni cosa con precisione, in modo che quando se ne sarà andato io possa ricreare il padre che ha creato me”. Non devi dimenticare nulla»[4]. Sin da Euridice aveva un cane (1993) Mari scrive di sé con l’intento opposto, per confondere le tracce e non per ricostruire con precisione i dettagli dell’esperienza, perché in fondo tutte le cose davvero importanti sono avvenute in una sfera remota, confinata a un paradiso-inferno da venerare terrorizzati per tutto il tempo della cosiddetta vita “vera”: Non devi ricordare nulla potrebbe essere il monito del demone più minaccioso, ma mai nominato, dietro Leggenda privata – e le simmetrie involontarie fra Roth e Mari finiscono di fatto qui.
Dietro al divorzio di Enzo e Iela Mari, all’alcolismo senile della madre, alla formazione decisiva di Michele come inadatto alla lotta per la vita e a tanti altri orrori piccoli e grandi qui rievocati, si annida una ragione oscura che il narratore si rifiuta in partenza di affrontare: «Nacqui. Ci sono dei grumo-nodi irrisolti, nella mia vita, che voglio lasciare irrisolti: ne avrò ben diritto, perdio! Invece, poiché ho dimostrato di sapere infiorare qualsiasi bassezza, sono convocato alla soluzione» (LP, p. 11). Di conseguenza, Mari non scrive un’autobiografia. Caso mai, si fa sporadicamente abitare da impressioni sfocate, in forte chiaroscuro, riconducendo involontariamente a esperimenti novecenteschi che tolgono l’autobiografia dai suoi cardini (l’esempio più lampante è l’ultimo Barthes): il rifiuto dello sguardo retrospettivo implica l’assenza di un narratore finalmente adulto che abbia quel minimo equilibrio per azzardare una valutazione del passato; la mancanza dell’ordine cronologico, a favore di una presentazione di aneddoti dall’infanzia alla giovinezza (unico trait d’union sta appunto nei veri protagonisti: Enzo e Iela), stabilisce che c’è un tempo lineare della vita del tutto ininfluente e uno ciclico, strozzato su se stesso, in cui tutto è stato deciso senza possibilità di modifiche; infine, la memoria ha un ruolo minimo, perché non si scrive per ricordare né tanto meno commemorare, ma per espiare la colpa di essere esistito[5], di fronte ai propri fantasmi privati (superiori in quanto, appunto, extra-reali), in un meccanismo che si autoalimenta e che spesso diventa, per esplicita volontà, asfittico. La dichiarazione d’intenti è inequivocabile. Dopo l’ennesimo incipit abortito «Nacqui d’inverno» Mari scopre le carte:
Oh Accademici, nacqui d’inverno: non vi sembra che mi stia sforzando seriamente? C’è il romanzo, c’è la mia vita. Non c’è Milano, d’accordo, non c’è Roma, non c’è Varazze, non c’è Città della Pieve: non ci sono i miei compagni di classe, i miei professori; non ci sono le donne effettive, non ci sono i miei figli […] In compenso, avete la casa in cui si è reificata la mia infanzia, l’adolescenza, il sesso mancato e dunque il sesso più vero, la lettura e la scrittura, la misantropia e la nevrosi, l’arresto del tempo, il ripiegamento: la solitudine. Ed i fantasmi. (LP, p. 32)
Nel senso dell’involontarietà e della costrizione a parlare, che impediscono qualunque volontà di struttura, va interpretata la “commissione demoniaca” di Leggenda privata da parte di due immaginarie Accademie concorrenti, dei Ciechi e della Cantina – scrivere è secernere, ciechi, da un’altra dimensione, ecco la radice di quella che si potrebbe dire una poetica. In particolare, alla luce di uno iato incolmabile fra la “sanguinosa infanzia” e la condizione postuma di chi vive e scrive, subendo la nostalgia di quella dimensione perduta, va anche visto il confronto con il padre di adesso. Non si può unire in una sola immagine il padre-totem[6], doppio spettrale di Michele (come intendono dimostrare le tre foto gemellari di LP, p. 138), con il padre invecchiato, finalmente indifeso, né è ammesso preparare, come in Roth, a una riconciliazione con il padre e a un superamento della sua autorità grazie alla presa di coscienza del suo essere mortale. Ritrarre il genitore come umano, destituendolo della carica spettrale, vorrebbe dire, a rovescio, disconoscerlo e confessare la pretestuosità dell’immaginazione spaventosa (ma in fin dei conti rassicurante ed evasiva, in fuga dalla serietà scostante dei genitori intellettuali)[7] con cui il personaggio Michele ha risignificato il suo mondo di bambino e lo scrittore Mari ha nutrito la sua scrittura. Legando il passato e il presente in una continuità, Mari sarebbe costretto a rapportarsi col totem non più da bambino ammirato e terrorizzato, ma da adulto[8], a fare i conti con una realtà il cui orrore non ha nemmeno l’attenuante del fascino, ma la normalità banale della decadenza psicofisica:
Adesso che egli è indebolito dalla vecchiaia e dalla malattia io letteralmente non lo riconosco più: proprio nell’insorgere di un’inedita pietas sentendo anzi di abiurarlo e di offenderlo. E allora, come se ne esce? Mi pare chiaro che non se ne esce, certo non per la strada del mito e della bellezza, che è l’unica che mi interessi. (LP, p. 12)
Se tutto è già accaduto e quel che deve accadere non ci riguarda, la scrittura non può che rielaborare il mito, sempre a un passo dalla verità, intorno a eventi irrappresentabili. Leggenda privata ribadisce che la scrittura di Mari, più che racconto (o romanzo, parola appunto pronunciata solo nella cadenza stravolta dei mostri: «isshgioman’zo con chui ti chonshgedi», LP, p. 3), è riconoscibile come glossa, commento, prefazione, calco: ancillare rispetto a un testo primario, al pari di ogni esercizio critico. Lo scollamento fra il mito e la sua esegesi si riscontra nella superfetazione fantastica che Mari appone alla realtà. In Tutto il ferro della Torre Eiffel (2002) e Rosso Floyd (2010) le vicende reali degli intellettuali parigini e della band britannica sono riplasmate secondo un’allucinazione arbitraria. In parallelo, l’autobiografia diventa autofiction quando il protagonista dell’autore-bambino viene calato in una storia horror dalle volute e pesanti inverosimiglianze, come in Verderame (2007). In Leggenda privata il trucco viene spiegato, per la prima volta, e per questo Mari riesce a restituire sprazzi del passato, arrivando persino a eliminare alcune delle reticenze che rendevano Tu, sanguinosa infanzia troppo lacunoso per avere un aspetto autobiografico.
Il fatto è che scrivo al ribasso. Non invento, non enfatizzo: grado della mitopoiesi molto vicino allo zero. Semmai ometto, attenuo, eufemizzo. Ma questi mostri vogliono il carnevale, l’euforia della forma: per cogliermi lì, ignudo sotto un travestimento così sfarzoso da non poter diventare una seconda pelle. L’idea è che l’ingombro del travestimento sia tale da trasformarsi in una prigione […] (LP, p. 99)
Per la prima volta, il divario fra la verità empirica e quella ctonia del bambino terrorizzato si assottiglia, le cuciture si vedono: Leggenda privata o, anche, legenda privata, fornita da Mari (ma quanto, e dove, starà mentendo?) per decifrare, nelle opere precedenti, gli enigmi finzionali dietro cui si nascondono i riferimenti autobiografici. Le fantasie d’orrore si rivelano ormai un’invenzione tardiva. Mari lo rivendica di fronte ai mostri che lo tiranneggiano: «Ho dovuto fare tutto da solo per tutta la vita, vi ho dovuto supporre, fingendo che i miei monologhi fossero dialoghi: e adesso che vi ho consegnato alla forma e vi ho reso storia, adesso vi fate vivi e volete incominciare a giocare» (LP, p. 33). Il dualismo posticcio trova il suo coronamento con la visione, durante le vacanze estive dai nonni, di una ragazza che colpisce il piccolo Michele sancendo la spaccatura mente-corpo alla base dell’eros feticistico dell’autore: «Quanto officiai, davanti a quell’ara? Quante oblazioni? Natura naturata, non potevo offenderla: era un corpo. Le avessi attribuito uno spirito, il mio desiderio l’avrebbe abbassata e sporcata: così invece, lei schietta popolana, non c’era oltraggio» (LP, p. 26). Qui c’è già la divisione poi replicata nei due fratelli del libro d’esordio Di bestia in bestia, il «libro della vita» secondo Mari stesso, in cui si fronteggiano senza potersi incrociare un puro intelletto roso dal suo stesso demone voyeuristico e dal rimpianto di non poter toccare ciò che ha di fronte, e una bestia dell’Es aggressiva e autodistruttiva, che mette in pratica, senza alcuna consapevolezza, tutto ciò che il puro intelletto ha represso. La differenza, in Leggenda privata, è che una ricomposizione nel compimento dell’atto è dapprima negata dal voyeurismo che costituisce la più ricca e sterile fonte di piacere («E dunque il paradosso per cui, nello sfrenarsi della potenza-oltranza mentale, ci si ferma comunque là dove ci si era fermati nell’atto […] Di grado in grado nel misenabismo, così, il titolare della finzione, a eccitarsi, tematizza la propria eccitazione: eccitandosi all’idea di eccitarsi», LP, p. 57). In un secondo e ultimo momento, la ricomposizione diventa per la prima volta una possibilità concreta. Nelle ultime pagine, un Mari sulle soglie della vecchiaia torna nella località di vacanza dei nonni, entra nella casa dei vicini (la Casa della Torretta), la trova abitata. Al suo interno c’è la ragazza, di cui finalmente si osa pronunciare il nome, da sempre saputo e rimosso. Non è quasi invecchiata, gli sorride e confessa, nonostante la fugacità della sua apparizione, di aver sempre pensato a lui. Ma anche stavolta, nonostante le apparenze non si viene a patti con la realtà, non c’è un percorso di formazione. Chiudendo il testo, lei lo salva dal compito di scrivere l’autobiografia, così:
«E adesso?»
«Adesso cosa?»
«La mia autobiografia».
Sorrise; poi, senza guardare, accarezzò con le unghie i fogli sul tavolo.
«Ci parlo io con Loro, tu hai fatto abbastanza».
«Credi?»
«Direi proprio di sì».
E scintillò. (LP, p. 171)
Sebbene un finale di speranza sia praticamente un unicum nella produzione di Mari, decisamente più versato nell’immaginare il passato che il futuro, il sublime angelico non è altro che un rovescio dell’orrore mostruoso, entro la stessa medaglia dell’astrazione fantastica: la fantasia di un altrove impossibile in cui i feticci, a toccarli, saranno all’altezza dei desideri che li hanno generati, e mamma e papà torneranno assieme, stavolta per amarsi. L’intervento della ragazza-angelo chiude la possibilità dell’autobiografia e permette a Mari di trovare scampo alla resa dei conti di un discorso veridico su se stesso. Regredire insieme ai suoi fantasmi di bellezza, nello scintillio conclusivo, è il destino del protagonista, una speranza a rovescio: non è chiaro, perciò, se Leggenda privata costituisca il punto e a capo di un’opera trentennale, per andare verso altri orizzonti, o se invece, a dispetto delle esche di realtà disseminate (le foto, i nomi, le date, il linguaggio a volte più comunicativo e accessibile) rappresenti l’ennesima resa a una fantasticheria cieca, grande e serrata come un mondo perduto di cui Michele è demiurgo e vittima predestinata, in un perfetto disegno paranoico.
II
Questa che leggete, si capisce, è una recensione quanto Leggenda privata è un’autobiografia. Si tace la maggioranza delle bellezze di un libro ricco per la sua mole esigua; non si passano in rassegna i microavvenimenti, gli oggetti d’amore, le apparizioni di parenti, amici, figure del ‘900 (da Buzzati a Montale) che scandiscono una narrazione frammentaria; e non si vuole approfondire il carattere più anomalo del testo, quello di riuscire al tempo stesso a divertire e a far vergognare un lettore colpevole quasi quanto l’autore-personaggio, risultando un piccolo miracolo. Oggi in Italia, se uno scrittore è bravo, nella stragrande maggioranza dei casi lo è perché riesce a far ridere: un’impresa in cui quasi tutti gli autori recenti si provano e – non si fanno nomi per non allungare irragionevolmente questo pezzo – falliscono. M’interessa piuttosto porre l’accento sull’uso che Mari fa di un passato irrecuperabile, e soprattutto sull’attaccamento solipsistico ai suoi senhal merceologici. Al modo in cui già Tu, sanguinosa infanzia si presentava come atto d’amore perduto per i libri Urania, i puzzle, le canzoni degli alpini e le marche di prodotti fuori commercio, Leggenda privata rende omaggio a un universo di merci e linguaggi che, feticisticamente, rappresentano la totalità perduta di un’infanzia perfetta e irreale. Se c’è una parola chiave, è “nostalgia”: l’intera opera di Mari si può leggere quale omaggio nostalgico in cui l’inadeguatezza del presente, condizione silente del disagio della scrittura, prepara il terreno per il feticismo dell’autore-personaggio. Oltre alla “leggenda”, anche il “privato” del titolo ha in quest’ottica una certa ambivalenza. Il privato non è solo ciò che è personale, ma anche ciò che è manchevole. L’affetto di cui Michele, nel testo, è privato da due genitori freddi, giudicanti, in guerra l’uno contro l’altro, e che pure non viene rivendicato da un piccolo protagonista che si sente perennemente in debito invece che (come sarebbe logico) in credito, ingenera il feticistico attaccamento alle cose: cioè, la nostalgia per gli oggetti passati esprime il desiderio di riappropriarsi di un’età in cui questa mancanza era ancora in potenza (“non oggi, ma forse domani sarò un bambino amato, e fra me e le persone ci sarà un rapporto felice e astratto, come fra me e le cose”). A riguardo, Mari stesso ha chiarito nel passaggio di un’intervista:
Fin dall’infanzia gli oggetti, come i personaggi dei libri e dei fumetti, come gli animali e le piante e i mostri, sono sempre stati i miei interlocutori privilegiati, i miei compagni e i miei amici; forse perché, a differenza degli umani, non smentiscono le illusioni del nostro pensiero magico, e, lungi dal sollecitarci alla crescita e (orrore) alla “maturazione”, ci trattengono in un mondo fisso e immutabile[9].
Viene un sospetto: sarà forse per questa nostalgia, suo malgrado intrinsecamente pop nel mescolare cultura di massa e cultura alta, che Mari, sebbene non sia mai stato uno scrittore di successo presso il grande pubblico, incontra un’approvazione così trasversale in una fascia di lettori colti, universitari e non, e i colleghi? Se è rarissimo trovare una critica, o anche solo un parere non complice, su Mari, come invece se ne trovano facilmente per i pochi scrittori bravi quanto e più di lui, e se, parallelamente, il rapporto dei lettori con Mari replica quello che Mari stesso intrattiene con i suoi autori d’elezione, relegandoli, lo si vede con chiarezza nei saggi dei Demoni e la pasta sfoglia (2004, 2010, 2017), in una sfera di ammirazione infantile dove non vige né il contraddittorio né un attraversamento conflittuale delle retoriche degli autori (e che ricorda un po’ il rapporto di Michele con gli oggetti), si può ipotizzare che la causa stia in questo rimpianto teso ai fenomeni del passato e anche del presente? Dopotutto, viviamo in tempi estremamente nostalgici, in cui la transitorietà di brand e prodotti è talmente veloce da consentire una continua commemorazione privata, sia nei media più fortunati (il remake del cinema, il vintage musicale, il camp nel design e nell’abbigliamento) sia, in forma privata, nei social. Ha sintetizzato Morreale, in uno studio sull’effetto nostalgia nel cinema italiano:
Ognuno di noi serba memoria, con relativo carico d’affetto, di parenti, amici, luoghi (e di se stesso). Solo, a partire da alcune generazioni, questo tipo di esperienza è inestricabile e subordinato a un altro tipo, quello del consumatore di merci che ritornano simili ad altre merci precedenti. Non solo quest’ultimo tipo di nostalgia convive col primo, e quantitativamente lo sovrasta, ma si può anche ipotizzare che le forme in cui ogni tipo di nostalgia viene esperita, i pattern dell’esperienza siano tarati e concepiti nei e per i media, per identità di spettatori e di consumatori[10].
Il gelato Mottarello, l’orsino di stoffa, gli zoccoli col cinturino indossati dalla ragazza-angelo, i puzzle che raffigurano i genitori, gli oggetti di Enzo e i quaderni infantili di Michele: oggetti estetici di Leggenda privata che rifluiscono nell’indifferenziata Wunderkammer dell’autore e risuonano nella nostra omologa nostalgia di consumatori. Per citare Morreale, ancora: «Feticismo degli oggetti e coscienza (ironica, impotente o masochistica) della degradazione dell’esperienza. In generale, sono tutte le merci a venir citate e ri-utilizzate come oggetti estetici: il passato entra a far parte della costituzione intima dell’individuo con una specie di parodia dei caratteri della kantiana finalità senza scopo»[11]. Difficile negare che un’osservazione simile inquadri un aspetto importante della scrittura di Mari: non il più inattuale e fuori dalle mode dominanti, a dispetto delle intenzioni patenti dell’autore per una definizione di sé, bensì quello che più fedelmente compiace un autentico sentimento di massa. Con una precisazione, però, che distingue probabilmente la nostalgia di Mari da quella dei suoi lettori.
Per definirla, un aiuto terminologico ci viene dalla catalogazione di Francesco Orlando negli Oggetti desueti: gli oggetti di Mari somigliano parecchio a immagini di corporeità non-funzionale, nel cui effetto immaginario è prevalente la percezione d’un decorso di tempo sentito individualmente, e presentata con compiacenza: il livello memore-affettivo[12], più che quello venerando-regressivo[13]. Vale a dire che la nostalgia dell’autore non rievoca una serie di merci-chiave per essere riconosciuto e accettato da una comunità, non funge da collante per la coesione di un gruppo generazionale che venga stimolato ad hoc all’acquisto di nuovi prodotti dall’aria vintage. Gli oggetti desueti servono invece a comporre le parole di un gergo privato di cui il lettore può intuire il fascino evocativo (da qui, la difficoltà della critica), ma che non può decifrare appieno. Mari non attribuisce agli oggetti desueti un valore esemplare, non avverte in essi un decorso di tempo sentito collettivamente (nel memore-affettivo conta «riconoscere in oggetti un decorso di tempo sentito individualmente, e presentarli con patetica compiacenza»)[14]. La sua venerazione parareligiosa per le merci, benché calibrata da un occhio analitico e professorale che simula di sviscerarne in modo scientifico i motivi di bellezza, è idiosincratica e antisociale. Infatti, creare una lingua conosciuta soltanto dal suo inventore permette di rinchiudersi, in fuga dal mondo, in un altro dove vige una legge paranoica e rassicurante di cui si è gli unici destinatari. Tutti i personaggi di Leggenda privata, anche quelli di esistenza comprovata, vengono da quel luogo sicuro, perduto da prima dell’inizio. A cominciare dal bambino che, in copertina, resta per sempre intrappolato in mezzo a due dei suoi demoni.
* Ringrazio Claudia Cristalli per i preziosi consigli in corso di stesura
[1] Philip Roth, Patrimonio. Una storia vera, traduzione di Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino 2009 [1991], pp. 181-2.
[2] Ivi, p. 182.
[3] Michele Mari, Leggenda privata, Einaudi, Torino 2017, p. 15. D’ora in avanti le citazioni da questo libro sono indicate a testo, con sigla LP e numero di pagina.
[4] Philip Roth, Patrimonio, cit., p. 139.
[5] Così, a commento dell’ultima foto del libro (un viaggio in treno a Zagabria, al ritorno dal quale i genitori si separano), Mari può commentare: «Dal male nasceva tuttavia un bene, la separazione, che se non risolveva i problemi consentiva però di navigare un po’ più guardinghi fra Scilla e Cariddi: e soprattutto era ossigeno, rispetto al soffocante amplesso fra geni che non si sarebbero dovuti combinare mai in dna», LP, p. 168.
[6] «Che mio padre sia stato un genio è cosa troppo conclamata perché io la debba qui argomentare; che il suo carattere si collochi all’intersezione di Mosè con John Huston, pure; che il mio rapporto secolui sia stato un cimento stremante, ancora, è abbastanza vulgato (leggete fra le righe del pregresso, se vi va); che la mia ammirazione sia stata tale da impedire sul nascere ogni sano antagonismo non è sfuggito ai pochi, allibiti testimoni […] che, propter hoc, ogni tentativo di sottrarmi alla sua autorità sia equivalso a un automassacro […]», LP, pp. 11-2.
[7] «Da angolazioni differenti, anzi per motivi opposti, mi hanno parlato della loro infanzia (quel poco che han detto) solo in termini di durezza: rispetto a loro mi sento un privilegiato, non solo perché da bambino ho giocato tanto, io, ma perché quel gioco me lo sono portato dietro ed è tuttora con me: la mia ricchezza. (Anche i libri sono un gioco, cui rivendico con orgoglio la natura di frin-frin)», LP, p. 166.
[8] Un’ulteriore simmetria con Patrimonio, in cui il rapporto padre-figlio quale rapporto autorità schiacciante-bambino esiste soltanto nel margine di un sogno: «Il sogno mi diceva che, se non nei miei libri o nella mia vita, almeno nei miei sogni sarei vissuto in eterno come il suo figlio piccolo, con la coscienza di un figlio piccolo, proprio come lui sarebbe rimasto vivo non soltanto come mio padre ma come il padre, per giudicarmi qualunque cosa io faccia», Philip Roth, Patrimonio, cit., p. 187.
[9] Antonella Falco, Asterusher è la mia casa. Intervista a Michele Mari, uscito sul blog Nazione indiana il 23 settembre 2015, qui: https://www.nazioneindiana.com/2015/09/23/asterusher-e-la-mia-casa-intervista-a-michele-mari/.
[10] Emiliano Morreale, L’invenzione della nostalgia. Il vintage nel cinema italiano e dintorni, Donzelli, Roma 2009, p. 4.
[11] Ivi, p. 9.
[12] V. lo schema di Francesco Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, nuova edizione riveduta e ampliata a cura di Luciano Pellegrini, prefazione di Piero Boitani, Einaudi, Torino 2015 [1993], pp. 153-155. Per un approfondimento, si rimanda a Ivi, pp. 75-436.
[13] Nel venerando-regressivo, difatti: «la decadenza e l’abbandono non sono sentiti come esito graduale d’un tempo scorrente senza soste, bensì come conseguenza traumatica di certi eventi: ai quali si fa allusione piuttosto che darne notizie narrative patenti e unitarie, e che pure hanno carattere precisabile quand’anche imprecisato, storico sebbene d’una storia nebulosa oltre che remota», Ivi, p. 111. Tuttavia, anche se ci sono tratti utili anche qui, la categoria non sembra del tutto pertinente: il distacco dal passato non nasce in Mari da un evento traumatico, tanto meno da un avvenimento storico, dato che la storia pubblica e politica è assente nella sua opera.
[14] Ivi, p. 322.