Jimmy Corrigan e sua madre si telefonano troppo spesso. Jimmy porta una maglia a maniche lunghe bianca, un gilet nero e pinocchietti verdemarrone, le calze bianche fino al ginocchio. Jimmy deve incontrare il padre che non vede da quando era bambino. C’era una canzone comica di Brassens, Fernande, che parla di pensieri erotici e di erezioni e che comincia così: «une manie de vieux garçon/ moi j’ai pris l’habitude/d’agrémenter ma solitude», una mania da vecchio ragazzo/ ho preso l’abitudine/ di abbellire la mia solitudine. Jimmy è un ragazzo vecchio, 36 anni, che impiega la propria solitudine facendo scherzi telefonici alla madre che sta in una casa di riposo; a quanto pare nessun pensiero erotico, piuttosto pensieri confortevoli dove immagina padri terribili e crudeli. Un caso umano come ce ne sono molti, un “swm”, single white man, «emotivamente handicappato» e apparentemente incapace di sincere erezioni.
Tornato in Italia per Coconino Press, dopo 7 anni di assenza, il «libro per immagini» che abbiamo tra le mani, Jimmy Corrigan – il ragazzo più in gamba sulla terra, è vincitore dell’American Book Award e del Guardian First Book Award; si difende l’autore Chris Ware nel retro di copertina: «il consumatore noterà come tali onori siano di solito concessi ad autori che si rifiutano di imparare a disegnare». Nel 1993 Ware aveva cominciato a raccogliere in strisce a fumetti su un giornale di Chicago «alcuni dei suoi più imbarazzanti problemi di autostima». La striscia è diventata uno scherzo più serio e Jimmy, che forse sognava di essere il supereroe di un cartone animato, è stato costretto a diventare il protagonista di questa storia triste, disegnata con uno spesso tratto nero. Poco assomiglia a un cartone animato: per trecento ottanta tavole e 3072 disegni, quasi nulla si muove.
Le prime cinque tavole sono da leggere aprendo il libro dall’alto verso il basso e, su pagina nera, raccontano l’incontro epico del piccolo Jimmy con un sostituto del padre, un Superman televisivo, e l’incontro sessuale di questo Superman con la madre di Jimmy. È il prologo di una storia che da lì in poi ritorna su sfondo bianco e si raddrizza, cioè si legge da sinistra verso destra, o forse si storta del tutto. La verità è che la storia di questo libro era già cominciata: Ware gioca con la ‘graphic novel’, portando alle sue estreme conseguenze l’essere ‘grafico’, pitturando e scrivendo già la copertina – che ricorda vagamente le pubblicità del Campari di Depero. Seguono quattro pagine fitte, scritte in carattere farmaceutico, un foglio illustrativo dove si danno le istruzioni per leggere il libro e un intricato albero genealogico, leggibile solo a posteriori ma che già spiega tutta la storia. La storia di Jimmy va osservata, perciò, anche per come è inscatolata.
Il libro è grande più o meno come la «piccola scatola nera – racconta l’autore – o urna, di fronte alla quale mi sono fermato per poco tempo questo autunno, sotto una foto a colori dell’uomo che l’etichetta diceva di contenere»: il padre. La storia di Jimmy è la riproduzione caleidoscopica su carta di un «contesto semiautobiografico – e Jimmy lo sfortunato e malamente sviluppato “alter-ego”» dell’autore. Ma la sfacciataggine con cui l’autore si attribuisce questa presunta colpa nei Corrigenda finali, una sorta di postfazione che fa da titoli di coda al libro – cui cinematograficamente segue, come per ogni film di eroi che si rispetti, l’ultima scena a fumetti – non imprigiona Jimmy nella quasiautobiografia. L’irrisolta domanda dell’autore sul padre diventa una storia universale dell’infamia paterna.
La narrazione si biforca tra l’atteso incontro di Jimmy con suo padre Jimmy William e, risalendo l’albero genealogico, l’infanzia di un altro Jimmy Corrigan, un bambino che aspetta l’esposizione universale, Chicago 1893, difendendosi come può dal proprio padre, il vetraio William. Cronologicamente abbiamo dunque: William Corrigan, Jimmy Corrigan, Jimmy William Corrigan e Jimmy Corrigan, il nostro supereroe. Come in qualsiasi genealogia americana che si rispetti i nomi si ereditano, come le colpe.
Questi padri sembrano tutti difendersi dalla propria inettitudine, dall’incapacità di rispondere alla questione di che cosa è un padre, o per lo meno di cosa deve un padre. Il padre dispotico del piccolo Jimmy prova a rispondere con rare e patetiche forme di tenerezza, quando non vi rimedia con le cinghiate.
La questione del padre è una domanda che riconosciamo altrove nella letteratura americana. In un racconto di Raymond Carver, The Father, i personaggi raccolti attorno a un bambino in culla si chiedono ritualmente a chi assomigli il neonato. Qualcuno dice che assomiglia a papà, qualcun altro chiede «But who does Daddy look like?». È la domanda a cui è inchiodato lo svedese di Pastorale americana di Philip Roth, dopo che la figlia ha fatto saltare l’ufficio postale, rompendo la pastorale familiare. È l’altra faccia del mito paterno del ‘figliolo, sono fiero di te’, topos di molta cinematografia americana, un mito di riconoscimento fondativo, a ritroso fino ai Padri Pellegrini. Non è un caso che l’incontro di Jimmy col padre si consumi il weekend del Thanksgiving day. «Alle feste papà preparava sempre la colazione e faceva le lettere con i bacon… era il mio mito» dice la sorellastra di Jimmy, mentre mostra a Jimmy le foto di famiglia. A chi assomiglia allora Jimmy William Corrigan, il padre? Nemmeno lui sa rispondere quando Jimmy è per terra, ferito.
Il padre subisce tutto il fardello di un’altra incapacità, quella di dire: il linguaggio fatica a recuperare o a porre rimedio all’assenza. Basta un legame di sangue per garantire lo spazio linguistico della confidenza?
Così anche lui, goffamente come il suo antenato, cerca di ovviare con gesti di affetto che il figlio sembra non comprendere: compone per Jimmy quello stesso saluto mattutino col bacon che fa per la figlia, ma è una banalità quotidiana che noi con Jimmy, esclusi ormai da quella quotidianità, osserviamo straniti.
Incapaci di dire sono anche i figli, tremendamente spaventati dal confronto col padre. Jimmy sogna un padre terribile, peggiore del suo oppressivo bisnonno, un padre a cui spaccare la faccia. Ma quando scopre il volto vero e insicuro del suo si trova impreparato. Riscrive i propri vaneggi, immaginando confessioni a occhi aperti, in cui anche la matita e la carta per scrivere una lettera sono iperboli enormi.
Come l’incapacità di conversare, gli eredi trascinano su di sé il senso di colpa, che segue di padre in figlio come le frecce degli alberi genealogici con cui Ware illustra microscopicamente il moltiplicarsi e l’intrecciarsi dei legami di sangue e dei quadretti familiari spezzati o interrotti, quasi a dire che la storia di Jimmy era già tutta scritta lì, predestinata come nella teologia puritana.
Un secolo prima, il piccolo Jimmy si addossava un peccato originale che lo fa responsabile di tutti gli eventi dalla sua nascita: la solitudine del padre, la sua durezza e dunque il suo abbandono. Da lì, gli errori si moltiplicano nella discendenza. Anche il padre di Jimmy lo confessa scherzando: «Credevi di essere stato tu l’unico errore che abbia mai fatto?». Ware costruisce la cornice di un’unica lunga storia di colpe da cui in fondo non ci si può emancipare, nonostante gli immaginari tentativi di ricostruire un rapporto padre-figlio, di rimediare all’insufficienza, di smarcarsi dal proprio peccato. Jimmy Corrigan è la stessa storia in due momenti diversi del mondo: il consumarsi di un abbandono e lo sforzo di sopravvivervi. In questo sforzo anche Jimmy si immagina padre, ma subito pone fine con un mattone al sogno e al figlio fantasticato, che si chiama Billy, William, per non tradire la discendenza dei nomi.
Solo l’incontro con la sorellastra sembra rompere il meccanismo di paralisi a cui è costretto Jimmy, la cui unica donna è una madre telefonicamente onnipresente. È in quest’incontro che forse possono sciogliersi i nodi della colpa, le storie delle tre generazioni Corrigan, ciascuno con le sue donne, pagate, abbandonate, defunte, inesistenti. Perché nella storia di Jimmy – diretta conseguenza della colpa del padre – fin lì le donne erano inesistenti. E Jimmy, sessualmente represso, è nella letteratura americana odierna in buona compagnia: è un Great American Loser, come scrive Elaine Blair.
Il loser, lo sfigato si muove nei colori slavati, opachi, sopra i piani vuoti del Michigan, paesaggi urbani americani troppo americani (Hopper) che a volte si prendono l’intera grandezza di una tavola. Il dettaglio della colpa si riduce nel disegno di un ovulo, in un minuscolo cerchio dentro un albero genealogico. La storia sfigata di Jimmy è preda anche delle beffe della forma del libro stesso, delle sue bizzarrie un po’ Dada: lettering da réclame che urlano JIMMY CORRIGAN IL RAGAZZO PIÙ IN GAMBA SULLA TERRA! (per convincerci di questa verità), riassunti grafici che fanno da bigino alla storia raccontata fin lì e persino uno zootropio – quel cilindro da far ruotare per vedere disegni in movimento – ritagliabile e da montare. Infine sul retrocopertina, in ventitré vignette-francobollo, Ware racconta la storia altrettanto sfigata del volume stesso, anch’esso abbandonato, per l’indecisione dei librai sulla sua collocazione: letteratura o graphic novel? Ware smonta e assembla la storia inscatolata, una sperimentazione grafica che porterà alle sue estreme conseguenze con Building Stories, facendone una scatola vera e propria che contiene 14 elementi grafici e narrativi.
Jimmy Corrigan, il ragazzo più in gamba sulla Terra è una scatola di cose e solitudini, di fotogrammi, di disegni: uno strumento «Ottimo per Mostrare Roba, Evitando i Paroloni», come è detto nella “premessa” del libro. Uno zootropio dove la storia sembra animarsi, ma alla fine gira sempre in tondo.