L’Africa è un continente pieno di contraddizioni. Spesso immaginato, sognato, intravisto attraverso immagini che si appoggiano costantemente su dei luoghi comuni, rimane tutt’oggi pieno di misteri.

È attraverso lo sguardo del regista franco-senegalese Alain Gomis che qualche settimana fa, nel buio di un cinema di Montpellier, ho scoperto le strade di Kinshasa. Non si tratta di una città qualunque, ma della capitale delle Repubblica Democratica del Congo, un paese scosso tutt’oggi da conflitti interni che ne hanno minato profondamente le strutture sociali.

La storia che ci viene raccontata è alquanto semplice: Félicité, madre e cantante di professione, tenta disperatamente di racimolare la somma di denaro che le consentirà di far operare il figlio, vittima di un banale incidente stradale.

Lo spettatore si trova di fronte ad una donna di carattere, a tratti cocciuta, che affronta la vita di petto. Il suo mondo, fatto di musica e indipendenza, si sgretola in poche ore. Félicité corre, va in moto, si dimena tra le mani di uno strozzino e non smette di lottare per amore.

Le sue peregrinazioni ci permettono di scoprire una megalopoli dai mille contrasti. La bidonville lascia spazio, anche solo per pochi attimi, ai grattaceli del centro città; le strade sterrate si trasformano in viali asfaltati; la spazzatura incendiata è sostituita da viali alberati.

Gomis osserva senza giudicare. Il suo sguardo è simile a quello dell’iraniano Jafar Panahi e la sua cinepresa segue senza sosta la sua eroina. Ad un tratto, sconfina oltre i limiti del reale per mostrarci un mondo onirico fatto di silenzi, di pace, di terra e acqua. Durante il resto del film, il silenzio, in compenso, è cosa rara. Sin dai primi attimi, il vocio della folla ronza in sala senza sosta, lasciando spazio a più riprese alla musica.

felicité2Vorrei soffermarmi sulle tracce che compongono la ricca colonna sonora di quest’opera. Uscendo ancora una volta fuori dagli schemi, l’autore non ci propone unicamente dei brani popolari legati al folklore locale, ma dei brani tratti dalla musica colta. Citiamo My Heart’s in the Highlands composta da Arvo Pärt e interpretata magistralmente dall’Orchestra Nazionale di Kinshasha in un hangar dismesso in periferia. L’arte, in questo caso, fiorisce nei luoghi che sembrerebbero meno propensi ad accoglierla.

La decadenza di questo territorio contrasta con le passioni di un popolo che non smette di amare, ballare, cantare e credere, in barba alla povertà che dilaga nelle strade come nelle case. La dignità di queste donne e questi uomini non è mai scalfita. Malgrado la corruzione colpisca tutte le istituzioni, la popolazione civile può ancora contare sul sostegno dei propri simili.

Premiato con l’Orso d’argento durante la 67a edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino, Félicité ci permette di osservare obbiettivamente un mondo che alla fine non è poi così lontano da alcuni nostri centri urbani europei. Infrastrutture inadeguate, precariato e corruzione, in effetti, sono delle problematiche subite da molti nostri cittadini.

A nostro avviso, uno dei pregi maggiori di questo film è quello di mostrare che la bellezza può germogliare anche nei posti più impensabili, in zone dove non ci sarebbe spazio per la magnificenza e dove invece si moltiplicano gli atti di profonda umanità. Lungi da fornire soluzioni irreali, Alain Gomis conclude questa sua ultima realizzazione dandoci un sano messaggio di speranza: ci mostra che gli scambi umani fondati sul sostegno reciproco sono alla base di società capaci di superare anche le crisi più profonde.

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