In uno dei suoi aforismi, Emil Cioran affermava «Guai al libro che si può leggere senza interrogarsi per tutto il tempo sull’autore». Un pensiero illuminante che chiarisce perché, dopo la lettura di alcuni libri e non di altri, si corra ad approfondire, ad indagare ancora intorno all’autore, alle sue letture, alle sue esperienze, alle sue scelte. La letteratura, come tutte le cose di questo mondo, non ha lo stesso significato per tutti: per alcuni, essa corrisponde alla vita ed è a questi “alcuni” che naturalmente mi appassiono. Fausta Cialente è una di loro.
Seppur la maggior parte delle storie letterarie ne liquidino il ritratto in poche righe, più ne rileggo le pagine più sono convinta che si tratti di una grave mancanza. Da Natalia a Le Quattro ragazze Wieselberger, da Cortile a Cleopatra a Ballata levantina, Fausta Cialente ha la naturale capacità di tratteggiare tutti i volti dell’umano e di farli emergere in ritratti lucidi e ricchi di sfumature; lo fa con una scrittura nitida e coraggiosa, che col linguaggio non intende giocare né occultare, tra le righe, nessun segreto rimando. Profondamente connessa con il suo tempo, l’opera della Cialente non intrattiene, piuttosto trattiene il lettore e chiarifica, senza indugi, le responsabilità della Storia sulle vite della gente.
«Un’opera letteraria non dovrebbe mai essere un’evasione soltanto: una specie di caldo cuscino messo sotto ai piedi infreddoliti in una cattiva stagione», affermava la scrittrice nel 1976, per motivare le sue scelte tematiche: lo sguardo della Cialente è perennemente convogliato sulle sorti della gente, dominate da stragi e conflitti e spezzate dall’incombere di ben più grandi disposizioni; non desidera, la Cialente, tirare una linea di demarcazione tra il proprio tempo e la letteratura e, per questo motivo, i suoi personaggi si muovono sempre sullo sfondo degli eventi storici, che fanno da tappeto alle tante fisionomie dell’esistenza. Quella di Fausta Cialente è una penna elegante, pioniera di argomenti sempre attuali, cari alla sociologia moderna e ancora irrisolti, una voce colta, sensibile e capace di raffigurare l’animo umano con singolare complicità. Eppure, eccetto qualche raro caso, la critica di ieri e di oggi, non ha ancora ritenuto opportuno far riemergere da tanta polverosa dimenticanza, la sua figura di scrittrice e intellettuale. Le ragioni di un così vistoso silenzio sulla sua opera, possono soltanto essere ipotizzate ripercorrendo la sua vita.
Nata nel 1898 a Cagliari per caso (nessuno dei suoi parenti era sardo, il padre era aquilano e la madre triestina), Fausta Cialente trascorse la giovinezza tra un trasferimento e l’altro, a causa della carriera paterna: da Jesi a Teramo, da Ancona a Firenze, fino a Genova, Senigallia, Milano, restando affezionata forse, soltanto a Trieste, dove passò lunghi periodi in estate. Crebbe così, senza radici, coltivando ben presto un amore per la lettura, iniziato con Salgari e proseguito con James, Conrad, Mann, Svevo e altri. Fu a causa di un carattere molto riservato che Fausta non strinse mai rapporti con i colleghi letterati e i critici del tempo: dai racconti di chi la conobbe, Fausta se ne stava piuttosto appartata non per snobismo né per stravaganza e visse volutamente circondata da affetti non scaturiti dal suo mestiere. Esclusi casi di frequentazioni, limitate a precisi momenti della sua vita, (quella con Ungaretti in Egitto, ad esempio) restò sempre, per scelta, ai margini di una certa mondanità. Nella prefazione alla ristampa di Ballata Levantina, riedito nel 2003 da Baldini & Castoldi e intitolata “Il suo meraviglioso comunismo”, Franco Cordelli regala un bel ritratto della scrittrice, incontrata per l’ultima volta a Roma pochi anni prima della morte. Qui Cordelli afferma che «quando la critica lamenta l’assenza, continua ad essere cieca», ovvero che, se essa denuncia ancora senza riportare a galla l’oggetto letterario “sommerso”, forse il lamento è fine a se stesso. Nel 1921, la Cialente sposò il compositore ebreo Enrico Terni, e si trasferì Egitto, tornando in Italia nel ‘47, dopo la separazione dal marito; ventisei anni lontana dall’Italia, uniti alla mancanza di un raggio d’azione fisso e costante, (una città natale o un luogo in cui si è a lungo vissuti) furono forse altri elementi a favore dell’oblio. Dall’altra parte del Mediterraneo intanto, la Cialente scrisse le opere che la consacrarono scrittrice, libri che in Italia ebbero successo, dando anche scandalo come nel caso del suo romanzo d’esordio, Natalia. Come avrebbe potuto una nazione infestata dal fascismo, accogliere nel 1927 un romanzo che narrava le vicende amorose tra la protagonista e la sua compagna Silvia? Poteva l’Italietta borghese e benpensante, accogliere una storia d’amore omosessuale, per giunta scritta da una donna? A nulla valse il Premio dei Dieci, conferitogli da Massimo Bontempelli: il libro fu ristampato in lingua originale soltanto nel 1982, finalmente libero dalla censura. Furono accolti con discreta attenzione i successivi Marianna (racconto lungo già pubblicato su «La fiera letteraria» nel 1930) e Cortile a Cleopatra, romanzo di ispirazione levantina pubblicato nel 1936, dedicato alle vicende degli abitanti di un vecchio palazzo nel sobborgo di Cleopatra, ad Alessandria e di cui Emilio Cecchi disse, in occasione della ristampa nel ’53: «Noi invidiamo coloro che lo leggeranno ora per la prima volta».
In Egitto la scrittrice visse la sua maturità intellettuale: ad Alessandria e a Il Cairo, oltre ad una folta comunità italiana, risiedevano molti imprenditori europei, giunti anni prima per la costruzione del canale di Suez, così gli occidentali rimasti lì vivevano in una stimolante atmosfera multiculturale. Purtroppo però, si trattava di città divise: da una parte c’erano europei, balcanici, greci, armeni, turchi che si incontravano nei teatri e nei salotti, in un clima colto e fastoso, e dall’altra la popolazione indigena, sfinita dalla povertà e dai disagi. Fausta Cialente, pur da una posizione privilegiata, non riuscì mai a fingere di non vedere le responsabilità della borghesia occidentale e levantina sulle condizioni dei nativi e si fece testimone delle colpe del colonialismo, denunciandone i limiti e gli errori. È probabile che, a quei tempi, una posizione così lucida sulle responsabilità delle società occidentali in Africa e Medioriente, avesse fatto storcere il naso a molti.
Ero fra i pochi, pochissimi, anzi, che consideravano il levantinismo un vecchio fibroma incrostato su tutto il Medio Oriente e destinato a scomparire; (“è scritto sui muri” noi dicevamo); un fenomeno che, contrariamente a quanto si sosteneva, non aveva portato nulla di buono al paese e ai suoi abitanti, mentre europei e levantini godevano di condizioni, in parte da essi create, per cui la vita quotidiana era incredibilmente “dolce” e facile, e se ne vantavano quasi fosse tutto merito loro e un loro diritto, senza guardarsi intorno, quindi senza nemmeno darsi la pena di veder che di quei privilegi la “massa” non godeva assolutamente nulla. Io vedevo invece quanto atroce era la miseria d’un popolo così mite e pacifico, infame la mano del larvato colonialismo che ancora premeva su di esso e vergognosa la complicità o l’acquiescenza della borghesia occidentale.
(Introduzione a Interno con figure, 1976)
Nei 26 anni di permanenza in Egitto, la scrittrice attinse alla biblioteca del marito, conobbe importanti intellettuali, lesse scrittori altrimenti sconosciuti e fondò il circolo culturale “Atelier”; per dieci anni, dal ‘36 in poi, abbandonò la letteratura (ma non smise mai di scrivere) dedicandosi all’impegno civile: fu promotrice dell’antifascismo con il «Giornale d’Oriente», diresse e condusse un programma su Radio Cairo in risposta alla radio ufficiale del partito fascista italiano, entrando in contatto con Togliatti e altri fuoriusciti e fondò la rivista «Fronte Unito», poi mutata in «Il mattino della domenica», un settimanale di informazione per prigionieri di guerra italiani distribuito in Egitto e in Tripolitania, tutte attività che mostra.
Negli anni successivi al suo ritorno in Italia nel ’47, tradusse Le piccole donne e Le piccole donne crescono di Louise May Alcott, Quartetto di Alessandria di Lawrence Durrel e Giro di vite di Henry James e riprese la sua attività giornalistica, occupandosi prevalentemente della situazione femminile in Italia, denunciando con coraggio numerosi casi di ingiustizie e disparità. Scrisse reportages di grande importanza sociale: da quello sulle mondine a quello sulle artigiane della costa marchigiana, relegate alla tessitura di reti da pesca con paghe miserevoli fino a quello sulle contadine toscane costrette a lavorare anche al nono mese di gravidanza. Fausta fu una delle prime intellettuali che, a guerra finita, scrisse del grande contributo femminile nella lotta per la liberazione dal nazifascismo, argomento che ancora oggi, soffre di molte lacune da colmare. Le sue protagoniste femminili (nei romanzi come negli articoli) rivelarono, ognuna a suo modo, le difficoltà che le donne affrontarono per ottenere un ruolo dignitoso nella società del tempo.
Nel 1961, la Cialente tornò a pubblicare e lo fece con un romanzo d’ispirazione nuovamente orientale, Ballata levantina, nel quale ha narrato la storia di una famiglia italiana, giunta in Egitto negli anni ’80 del XIX secolo, alle prese con i dolori e le gioie private, sullo sfondo dei cambiamenti sociali e delle guerre mondiali. In uno sguardo a tutto tondo e con la sua «prosa fatta all’uncinetto» per dirla come Giuliani, la Cialente diede voce alle trame della borghesia in decadenza e alle vicende della gente comune, sfruttata ed emarginata. I personaggi della Cialente si interessano di politica e ne discutono, fanno nomi e cognomi dei responsabili, alcuni si riuniscono per non restare isolati dalla realtà: il suo è un popolo vigile che possiede una coscienza sociale e cerca spiegazioni spesso introvabili. E di nuovo mi viene da pensare che fosse troppo scomoda una scrittrice – donna, atea e proveniente da una famiglia non osservante –, che attraverso i suoi personaggi avesse posto così tante domande alla società, le avesse chiesto il perché di tanta ipocrisia, arrivando a disapprovare persino l’istituzionalizzazione delle religioni e l’ingerenza delle stesse nella vita e nelle decisioni degli individui!
Ballata levantina le valse il secondo posto in ex aequo con Giovanni Arpino al Premio Strega, nell’anno in cui vinse Raffaele La Capria, e ad esso seguirono la raccolta di racconti vecchi e nuovi Interno con figure, Il vento sulla sabbia e Un inverno freddissimo. Nel 1976 si aggiudicò il Premio Strega con Le quattro ragazze Wieselberger, romanzo pubblicato nello stesso anno e ispirato alla vicenda della sua famiglia, in particolare a quella materna, proveniente da Trieste. L’idea di ambientare un romanzo nel capoluogo giuliano era stata già espressa dalla Cialente: la «Trieste crogiuolo di razze» di sabiana memoria, era davvero per la scrittrice l’unico luogo delle radici, così il libro narra, sullo sfondo delle vicende politiche triestine da una parte e italiane dall’altra (il racconto inizia pochi anni prima della Prima guerra mondiale, con Trieste non ancora annessa all’Italia) le vicende private della famiglia materna, vissuta sino ad allora nel benessere e senza grandi preoccupazioni. Anche in questo suo ultimo romanzo, continuò ad emergere il parere della gente: sono le persone, nel proprio quotidiano, non gli strateghi né i generali, a parlare delle politiche del tempo e delle conseguenze di conflitti sulle vite di tutti.
Ma che cosa credono, che sarà una passeggiata con la banda e le bandiere in testa? Cosa credono, eh? Se ne accorgeranno!” oppure “La guerra alla quale assistevo mi aveva stomacata, ma suscitava in me un odio che sentivo inguaribile: l’odio contro ogni forma di nazionalismo o razzismo (‘‘sti maledeti s’ciavi, ‘sti maledeti austriacanti, ‘sti maledeti ebrei’).
Voci reali di chi è continuamente sopraffatto dalle decisioni del potere, di chi si strugge per capire, di chi grida e si domanda perché. Torna anche in questo romanzo, il continuo parallelo tra sorti umane più o meno fortunate:
Nelle scuole di quei tempi e di quelle regioni tirava un’aria di grande miseria, ma della miseria, delle sue origini e del suo perché noi ne sapevamo ben poco.[…] Era la miseria, circondata da un grande mistero, non se ne parlava facilmente e a seconda delle circostanze sembrava averne colpa la fatalità o la cattiva volontà di chi ne era afflitto.
Parole scolpite, apparentemente impersonali e gettate sulla pagina come un pugno di petali, in realtà sono macigni dinanzi ai quali lo sguardo (e la coscienza) non possono non sobbalzare. Dopo il successo del ’76, la Cialente divenne nient’altro che un’effimera presenza che pochissimi ricordavano e, nel 1994, morì in Inghilterra dove aveva di nuovo raggiunto la figlia. Seppur la fortuna critica non fu dalla sua parte, quella di Fausta Cialente è stata, per più di cinquant’anni, un’attività narrativa che non ha mai avuto l’arroganza di distanziarsi dalla società in cui viveva: dal fascismo alle leggi razziali, dalla resistenza al dopoguerra, dalla nascita della società dei consumi all’imperversare del lavoro sottopagato, la Cialente ha scelto la penna per testimoniarne gli effetti sugli uomini e le donne che della Storia sono parte essenziale, seppur spesso invisibile e muta. Alla parola, volutamente alleggerita di tutte le sue responsabilità, la scrittrice conferì il ruolo della testimonianza: per la Cialente la scrittura non era poi così diversa dalle azioni ed essa, proprio come un’azione compiuta, doveva dar luogo ad un esito. Alla sua scrittura coraggiosa e universale auguro, un giorno, numerosi lettori altrettanto coraggiosi.