Nella nuova rubrica di poesia #maestri/pionieri, La Balena Bianca presenta una serie di riflessioni parallele su poeti “maestri” e giovani (o meno giovani) innovatori. Abbiamo chiesto ad alcuni critici di proporre un autore che considerano un punto di riferimento, fornendo adeguate motivazioni, e di indicare insieme un “pioniere” contemporaneo, la cui ricerca, ai loro occhi, rappresenti un’autentica novità. Damiano Sinfonico apre la rubrica, scrivendo a un suo “maestro”: Valerio Magrelli.
Caro Valerio,
mi è stato proposto di scrivere intorno a un poeta che considero un maestro e ricorro alla forma epistolare per esprimermi con più spontaneità. Non ti nasconderò che avrei voluto parlare di un poeta antico, nonostante da lui mi separino – come dice Borges – le notti, i mari, i rivolgimenti secolari, i climi, gli imperi e il sangue. Mentre a te mi lega – per dirla sempre con Borges – il misterioso amore delle parole, questo abito di suoni e di simboli.
Ti dirò innanzitutto che ti ho scelto per quello che è l’aspetto più appariscente della tua scrittura: nelle tue poesie non c’è mai una parola fuori posto. Si potrebbe dire che purtroppo le tue poesie sono perfette, dico purtroppo perché quando lo si dice di un contemporaneo c’è sempre chi storce il naso. Quello che hai scritto quarant’anni fa ci è troppo contemporaneo e quindi difficile da capire, e temo che solo fra centinaia di anni le gioventù – di chissà quale lingua – daranno per imprescindibili i tuoi versi con una fiducia che oggi ci manca. Insomma, nascere troppo tardi dà i suoi svantaggi.
Una volta hai scritto che un poeta si chiederà per tutta la vita se è davvero un poeta. Quante volte ci dimentichiamo che la poesia diventa poesia solo quando l’autore è sotto terra, non tanto perché il suo corpo è ingombrante, quanto per vedere se i suoi versi hanno resistito al tempo, cosa che l’autore non saprà mai. Ecco, credo che la poesia sia uno di quei manufatti che ci mettono in relazione con la nostra temporalità, che una poesia abbia senso solo se in un futuro lontano ci sarà ancora qualcuno a ricaricarla, per aggrapparsi a quell’elica sonora e lanciarsi in volo. È anche vera la citazione di Brodskij che hai ricordato in un passaggio, sulla poesia come meta antropologica, lo stesso Brodskij che in una conferenza a dei neolaureati (le tradizioni americane! almeno invitavano Brodskij, non i cantanti…) li esortava a curare la lingua come avrebbero curato il loro conto in banca. Curare la lingua, tu sì che l’hai fatto con la precisione di un anatomopatologo (d’altronde il tuo travestimento da dermatologo in Caro diario di Moretti non mi è sfuggito).
Poi non posso passare sotto silenzio la tua vena ludica, il gioco con le parole e le forme metriche. Mi viene in mente l’acrostico che hai dedicato a Mike Bongiorno e a Edoardo Sanguineti, che probabilmente staranno fluttuando l’uno in un cielo catodico e l’altro in un cielo linguistico (non dirò chi dei due vaghi nell’uno o l’altro cielo, come Bolaño, che di Cechov e Carver ha affermato che uno dei due ha scritto i migliori racconti del secolo – e in effetti, uno dei due è anche il mio preferito). Non parliamo delle tue invettive contro l’incompetenza, tanto da elevarla a blasone culturale della nostra epoca, e i simpatici ghirigori che sfociano in sfuriate contro la tecnologia e impulsi clastomani. E nello stesso tempo le tue riserve di tenerezza, come per quel Pollicino che nella tua opera compare tre volte (se non di più), tracciando smarrimenti pieni di dolore.
Il dolore, una parola che i tuoi critici non usano spesso, preferendole il riso, il gioco, l’ironia, l’intelligenza, e credendosi essi stessi più accorti. Eppure la tua opera non sarebbe quella che è se non ci fosse anche quest’ombra, seppur arretrata e alonata, vista come attraverso il vetro zigrinato di una doccia. Nei tuoi versi e nelle tue prose si aggirano spauracchi, paure profonde, minacce al tranquillo trantran dell’esistenza, che per il fatto di esserci contemporanei non si colgono con immediatezza.
Ma che cos’è un maestro? Qui viene il difficile di questa lettera. Io credo che un maestro sia qualcuno che ti contagia senza trasmetterti uno stile, qualcuno che non ti fa vedere il mondo attraverso i suoi versi ma i versi degli altri attraverso il suo mondo. Non saprei dire in che misura i tuoi libri abbiano operato in questa maniera, però se sono qui a scrivere questa lettera ci sarà un motivo, anche più di uno. Spero che non ti dispiaccia se ti ho trattato con la serietà che si riserva – per dirla con Mario Benedetti – alla vita, alla morte e alle partite di calcio.
Dal tuo lettore devotissimo
Damiano Sinfonico