Lunedì 12 giugno, alle 18.30, al Colibrì di via Laghetto (Milano), verrà presentato il progetto RAR e sarà inaugurata la mostra omonima. Saranno presenti l’autrice Federica Patera, l’autore delle mappe letterarie Andrea Perego e Giacomo Raccis.
*«Il compito fondamentale dell’amore e del linguaggio
è quello di conferire alla medesima frase inflessioni sempre nuove».
(Barthes di Roland Barthes, citato in Gli Argonauti di Maggie Nelson)
In un passaggio della prefazione alla raccolta La ragazza dai capelli strani, di David Foster Wallace, nell’edizione 2008 di minimum fax, Martina Testa fa riferimento al racconto Brave persone, inserito per l’occasione in appendice. In particolare, sul finire, cita una sua intervista all’autore, nella quale gli domanda che direzione stia prendendo la sua scrittura alla luce di questo nuovo testo, che sembra segnare uno stacco stilistico rispetto al «virtuosismo»[1] dei lavori precedenti.
«È un passo avanti? Un passo indietro? Un passo in una nuova direzione?», chiedeva Martina Testa.
Questi interrogativi non hanno mai ricevuto risposta. Nella prefazione, vengono magistralmente e delicatamente affidati a un magnetico «purtroppo», facendo eco alla vicenda personale dell’autore che nel settembre del medesimo anno si è suicidato.
Restringendo l’obbiettivo sulla domanda e sulla risposta – o sull’assenza di essa – si individua e circoscrive uno spazio che è la condizione originaria di RAR: la sospensione, volontaria e insieme incontrollabile, di un equilibrio, e il suo successivo ripristino.
A p. 209 di Infinite Jest, romanzo del 1996, c’è uno di quegli elenchi in cui DFW è micidiale, impavido, onesto, incessante. Sei pagine di «ecco», nel mezzo delle quali si trova «non dite mai a nessuno a che punto siete», frase ribadita poco più in là da «non dite a nessuno dove siete».
Queste ultime due affermazioni potrebbero, letterariamente parlando, sostituire la mancata riposta di DFW e allo stesso tempo anticiparla, trasformando la sospensione in un’apertura colmabile, che elimina la distanza anacronistica dalla domanda; una sorta di wormhole letterario che si richiude con la stessa grazia e fattura della balza di una gonna, e che fa leva su quanto, ad esempio, Douglas Coupland mette nero su bianco in uno dei capitoletti finali di La vita dopo dio: «solo perché questi tre episodi sono passati e non futuri, be’, non vuol dire che non possano servire da finale» (p. 188). In una lettura in cui si ribalta la cronologia a favore di una visione della letteratura dove tutto si tiene, decade la nozione di prima-e-dopo in quanto successione, dando un esempio di come le opere possono dialogare tra loro, al di là non solo del tempo, ma del genere, dell’autore, dello stile, della trama, come un monologo che si fa conversazione. Le connessioni stanno «dopo», il senso sta «dopo», e cambia.
Prendendo a prestito la voce di Charles D’Ambrosio, e di Lutero per lui, in un’altra prefazione, quella a Perdersi (minimum fax, 2016), si potrebbe avere un’ulteriore risposta alla domanda di Martina Testa: «Non sapere dove si sta andando è la vera conoscenza» (p. 13); e la conversazione[2] sul dove si amplierebbe in un ventaglio di deviazioni e rovesciamenti e battute.
Tornando a La vita dopo Dio, Douglas Coupland racchiude in questi attimi sconosciuti che rompono la ripetizione la vita-vita, se così si può dire, intesa come continua successione di un presente e come continua percezione di un presente soltanto, in una maniera che ha qualcosa a che fare con la giovinezza perpetua, quando le conseguenze sono lontane dall’essere un parametro, o un’immagine. Tutto veste i panni di una novità e le conseguenze si abbatteranno senza essere state calcolate nell’impeto o nell’incoscienza, o in uno dei contraltari a queste due spinte. Coupland parla di «personale mito della creazione» (p. 222) che ha a che fare con l’assurdo, il paradosso: il rovesciamento, l’assenza del tempo.
Com’è strano che ciascuno di noi, ogni giorno, viva alcuni brevi momenti che possiedono un poco più di risonanza di tutti gli altri. […]E se noi decidessimo di raccogliere tutti questi piccoli istanti in un quaderno, annotandoli per mesi, di sicuro vedremmo in questa collezione una specie di filo conduttore. Verrebbero alla superficie determinate voci, voci che da tempo cercano di raggiungerci. E capiremmo che abbiamo vissuto una vita parallela, una vita di cui non immaginavamo neppure lo svolgimento dentro di noi. E forse quest’altra vita è molto più importante di quella che consideriamo «reale», quella quotidiana, ingombrante, fatta di mobili e rumori e metalli. E forse sono davvero questi attimi minuscoli e silenziosi a scrivere la storia della nostra vita (La vita dopo Dio, p. 182).
Questa citazione lunga richiama, in un qualche «quaderno parallelo», un’altra citazione, contenuta in Acqua viva di Clarice Lispector (Adelphi, 2016), tramite l’appiglio dell’espressione «filo conduttore»: «Voglio l’esperienza di una mancanza di costruzione. Eppure questo mio testo è tutto attraversato da cima a fondo da un fragile filo conduttore… quale? Quello dell’immersione nella materia della parola? Quello della passione? Filo lussurioso, alito che scalda il fluire delle sillabe. La vita mi sfugge per un soffio anche se mi arriva la certezza che la vita è un’altra e che ha uno stile occulto» (p. 27).
Douglas Coupland e Clarice Lispector sono due autori opposti, per genere, provenienza, età, lingua, voce, tradizione, ma in comune, nelle opere menzionate, hanno qualcosa di intimo, uno sguardo intimista, la scrittura di un saggio personale, sebbene appunto declinato in maniera diametralmente opposta. Di più, nella citazione tratta da DC potrebbe essere inserita[3] la citazione di CL a partire proprio da «filo conduttore»; una parola che fa da chiave di volta, da parola chiave, che apre una via nel mezzo del primo estratto e crea uno squarcio.
Il sospetto si origina in ciascun racconto della realtà così come in ciascuna sua percezione; lo spazio per l’invisibile è una costante. Sospetto e invisibile che portano con sé come mezzo l’empatia per assorbire ciò che è sconosciuto, e che potrebbe rimanere inimmaginato.
RAR lavora su questi «quaderni paralleli», parafrasando Coupland; costruzioni di un’alternativa – una delle tante – arbitraria ma fondata, peculiare ma condivisibile, sensata ma modificabile, a partire da frasi di opere che si emancipano dal proprio contesto originario in similitudine con ciò che avviene quando si scopre una risonanza, un’analogia tra mondi che arrivano dall’essere, talvolta, reciprocamente sconosciuti*.
«Dove sono, in che territorio, in che epoca?»; «Mi sa che il mio vero Qui sarà sempre un Altrove» (D’Ambrosio, p. 43); «Provo a mischiare parole affinché il tempo si faccia» (Lispector, 17); «Il mondo non ha un ordine visibile» (Lispector, 17). Sono frasi che girano in tondo, sono colorate dalla medesima sfumatura, personale e partecipata, ed evidenziano una dinamica nascosta all’interno della vita.
Ogni volta che entravo e attraversavo quella striscia, alzavo la mano destra dietro la testa e schioccavo le dita – tre volte, clic-clic-clic. […] Lo ripetevo ogni volta che salivo da Peyman; e, ogni volta che lo facevo, il paio di secondi che impiegavo si univano a quelli che avevo impiegato la volta precedente, e quella prima ancora, e ogni volta che l’avrei rifatto in futuro; e quindi mi ritrovavo trasportato, per quella manciata di secondi (per tutti quei secondi), in una specie di eternità in cui solo quell’azione e il suo svolgersi, quel clic-clic-clic ormai eterno delle dita della mia mano destra, esistevano o potevano esistere (Satin Island, p. 53).
Ancora:
Tutto il talento di Peyman […] era riuscire a gestire le incertezze, a unire in qualche modo i puntini isolati fino a formare il disegno di una costellazione che la gente riusciva finalmente a riconoscere, a farsene sedurre (Satin Island, p. 54-5).
Questi due stralci di Satin Island di Tom McCarthy (Bompiani, 2016), accordati con Perdersi, La vita dopo Dio e Acqua viva, ben rappresentano l’approccio di RAR, che dichiara, tra le righe, che la percezione e la lettura prevedono un punto di vista variabile e un osservatore variabile, e di ricombinare il testo assecondando uno slancio personale, tagliando parti, avvicinandone due o più distanti pagine, evadendo i confini del titolo. E non importa se per descrivere e raccontare questo slancio si assumono forme diverse: «le connessioni che costituiscono l’essenza del pensare differiscono in modo peculiare dalle associazioni di rappresentazioni. […] Quando pensiamo non connettiamo, propriamente parlando, rappresentazioni, bensì cose, proprietà, concetti, relazioni» (L’alfabeto del pensiero, Gottlob Frege, p. 9).
Ecco perché, allargando il campo, generalizzando, la prima opera, nella fattispecie di letteratura, in cui si è affrontata una questione x, un tema, un dubbio – l’opera originale – non ha una rilevanza assoluta e rileva invece la prima volta, non importa sotto che titolo, si è riconosciuto un dubbio, un tema, una questione, che riusciva dalle maglie della trama, come in un riflesso condizionato, riflesso di un riflesso.
Leggendo L’arcobaleno della gravità si incontra con frequenza il concetto di riflesso condizionato, elaborato nel mondo reale ben prima della pubblicazione del romanzo monumento di Thomas Pynchon. Eppure, rispetto alle applicazioni letterarie di tale scoperta, la prima volta che ne ho identificato l’applicazione letteraria è stato leggendo L’arcobaleno della gravità. Ogni tessuto letterario ha, al suo interno, nodi attorno ai quali si attorcigliano e si saldano i fili della narrazione, «fili conduttori». Alcune volte questi nodi sono schiantati in faccia al lettore per la loro universalità acquisita – quando a padroneggiarli e indicarli sono parole che basta intravedere per risvegliare l’interesse e per calamitare gli occhi sulla frase che le contiene, parole come morte, dio, sogno –; altre volte, richiedono del tempo, uno svolgimento, richiedono che i nodi vengano ripetuti, ribaditi, richiedono una trama per diventare chiavi: sono parole ordinarie. È in questo meccanismo che sta la versione letteraria del riflesso condizionato. Il lettore in quanto tale viene istruito a riconoscerle tra le pagine di un libro.
La Lispector, ancora nel suo Acqua viva, scrive della sua volontà di liberarsi di una trama, di scrivere senza una storia (p. 81) e senza nessi di un eterno presente fatto di istanti. Riferendosi a sé afferma: «Non posso riassumermi perché non si possono sommare una sedia e due mele. E io non mi sommo» (p. 74).
Nella congiunzione dell’inafferrabilità della Lispector e della funzionalità di una trama complessa – molto complessa – come quella dell’Arcobaleno della gravità c’è uno spazio da attraversare; nessuna permanenza, ma una leggibilità che muta con il lettore.
Per citare un’ultima volta Acqua viva, «chi guarda uno specchio, chi arriva a vederlo finisce per vedere sé, chi comprende che la sua profondità consiste nell’essere vuoto, chi cammina all’interno del suo spazio trasparente senza lasciar traccia della propria immagine… questo qualcuno allora ha percepito il mistero della cosa» (p. 78).
In RAR il testo, l’opera letteraria ha il valore di uno specchio: resta inalterato da chiunque lo utilizzi eppure mantiene la stessa limpidezza per accogliere forme differenti.
[1] Dalla prefazione di Martina Testa, p. 10.
[2] Un’interessante definizione di conversazione nell’ottica di RAR potrebbe essere questa: «Una conversazione potrebbe essere semplicemente questo: il tracciato di un divenire» (Gilles Deleuze/ClaireParnet in Gli Argonauti, di Maggie Nelson).
[3] Non si tratta soltanto di trovare variazioni, ma di riconoscere un’aurea, una coincidenza di fondo: un sentire condiviso che non è descrizione di un carattere o di un personaggio, ma si aggira in una sfera sacra; è un concetto ribadito in una liturgia del sentire.