È possibile riuscire a parlare dei paesi dell’ex Jugoslavia senza cadere in cliché e inesattezze? I Balcani, a vent’anni dalla fine delle guerre che li hanno disgregati, sono un mondo in fermento, in cui cambiamento e tradizione, innovazione e vecchie ferite, convivono ogni giorno e formano un tessuto connettivo complesso, che non può essere indagato ignorando i sommovimenti socio-politici che ne stanno alla base. Il modo forse più sincero per approcciarsi all’argomento è quello trovato da Eric Gobetti, storico freelance che nel 2011 ha pubblicato con Miraggi Nema Problema! Jugoslavie, 10 anni di viaggi, la raccolta dei diari scritti durante i suoi soggiorni nei Balcani. I testi, editati in vista della pubblicazione, non sono stati modificati nel loro contenuto e danno una visione in presa diretta dei cambiamenti che hanno attraversato la Serbia, la Bosnia e il Montenegro tra il 2001 e il 2010 (nonché dei cambiamenti dello sguardo dell’autore, che comincia il suo percorso da studente e lo conclude da storico). Sempre con Miraggi, Gobetti ha pubblicato nel 2017 Sarajevo Rewind, una cronaca che nasce da un altro viaggio: quello compiuto l’anno del centenario dell’assassinio di Sarajevo, seguendo i percorsi di Francesco Ferdinando e Gavrilo Princip attraverso l’Europa. Sarejevo Rewind racconta il casus belli più famoso di tutti e lo fa partendo dai suoi protagonisti, indagando a fondo i sommovimenti politici e le contraddizioni dell’impero austroungarico. Ho incontrato Eric al Salone del Libro di Torino per farmi raccontare da lui i Balcani di oggi e i Balcani di inizio Novecento.
Siamo nel 2017 ma la situazione nei Balcani è ancora estremamente complessa, una complessità che affascina ma può essere difficile: come racconti in Nema Problema!, le stesse persone che ti accolgono a braccia aperte hanno idee politiche che in alcuni casi non puoi accettare o che sono difficilmente comprensibili anche dopo anni di studi della geopolitica della zona. Da storico sul campo come hai vissuto questa ambiguità?
L’ho vissuta in maniera molto contradditoria e faticosa. Ho cercato di discutere, litigare, argomentare, sentendomi quasi coinvolto emotivamente. Anche perché partivo con i miei pregiudizi e quindi non accettavo un certo tipo di posizioni perché non erano conciliabili con quello che avevo in mente io. Ma Nema Problema! racconta dieci anni di viaggi, quindi di fatto c’è stato anche un mio cambiamento nel modo di raccontare e percepire quello che mi capitava. C’è una differenza tra i primi anni e gli ultimi, in cui ho un atteggiamento molto più neutrale e ho acquisito uno sguardo da storico e un atteggiamento di ascolto e di studio sul campo, per cercare di capire e accettare posizioni così contrarie tra loro, spesso anche all’interno dello stesso ragionamento di una persona. La realtà della ex Jugoslavia è una realtà molto difficile e complessa e negli anni ho imparato ad accettare questa complessità e a non volerla semplificare.
Belgrado oggi è molto diversa da quella che descrivi tu in Nema problema!: sicuramente più ricca. Per fare un esempio, Dorćol, quartiere degli intellettuali, è pieno di locali modaioli davanti a cui sfilano grossi macchinoni, ma in ogni caso passando davanti agli edifici ministeriali bombardati, ancora presidiati dalla polizia, o davanti al monumento per i bambini vittime dei bombardamenti della NATO, si respira un legame con il passato ancora molto forte. Come convivono oggi queste due anime della città?
Ho potuto assistere a questi cambiamenti, nel corso di quindici anni. Sono stato a Belgrado la prima volta nel 2000, esattamente un anno dopo i bombardamenti della NATO, quindi ho visto una città appena uscita dalla guerra e ancora governata da Milošević. Ma torno ancora a Belgrado tutti gli anni, come guida di viaggi culturali nei Balcani, e oggi vedo una città completamente diversa, una capitale europea simile a tante altre. Ma forse anche nel 2000 non era così estranea all’Europa come poteva apparire a me quando ci sono arrivato: era comunque una grande capitale, che aveva subito un trauma, certo, ma non era stata rasa al suolo: non era Sarajevo o Mostar, che erano effettivamente realtà drammatiche, città completamente spazzate via dalla guerra. A Belgrado nel 2000 c’erano ovviamente i palazzi bombardati, percepivi una situazione di grande difficoltà, anche a causa della ghettizzazione della Serbia in ambito europeo di quegli anni, ma aveva comunque delle caratteristiche di capitale che potevano essere assimilate a Parigi o a Vienna. Oggi la gentrificazione ha definitivamente creato una città simile a qualunque altra città d’Europa, soprattutto per quanto riguarda il centro storico, però al tempo stesso rimangono intatte delle peculiarità che appartengono solo a Belgrado e ai Balcani, che sono per ora ineliminabili e, secondo me, sono la sua parte più affascinante. Per esempio anche in pieno centro si può trovare la vecchia kafana [trattoria tipica N.d.A.]. E questo è l’aspetto che più mi piace.
Descrivi Belgrado già nel 2001 come una città molto viva, piena di concerti e vita notturna. Mi sembra che, ad oggi, la città abbia mantenuto intatta questa attitudine al divertimento.
Sì, l’elemento del divertimento è molto forte, esisteva quindici anni fa ed esiste ancora oggi, anche se probabilmente ha cambiato un po’ fisionomia e si è arricchito. Ed è curioso, perché ci sono altre città simili sotto questo aspetto, però di solito si tratta di città universitarie, o città più piccole. Belgrado invece ha due milioni di abitanti, e comunque ci sono persone di tutte le età che escono tutte le sere. L’idea di uscire, divertirsi, bere non è una cosa generazionale, ma è proprio tipica dei Balcani e di Belgrado ancora di più. Poi, trattandosi di una grande capitale, Belgrado unisce il divertimento balcanico, al divertimento del locale artistico culturale, del jazz, della musica un po’ particolare. Quindi si può trovare il locale turbo-folk ma anche il localino jazz, è una città che offre davvero tantissime opportunità e in questo senso credo sia davvero una location di avanguardia per il divertimento giovanile in Europa.
Parlando della costa del Montenegro, invece, mi è sembrato che qui convivano due situazioni sociali molto distinte. Nella baia di Kotor c’è un turismo che richiama molto quello italiano, con turisti e villeggianti, stabilimenti balneari organizzati, locali e ristoranti. Invece nel sud, al confine con l’Albania, la situazione è molto più caotica, spontanea, sembra di essere in un Paese sensibilmente più povero. Questa duplice realtà si respira anche nella capitale e, più in generale, in tutto il Montenegro?
Un tempo si diceva che la Bosnia era in cuore della Jugoslavia, la repubblica che rappresentava tutto il Paese. Oggi, dopo la guerra e tutto quello che è successo, la Bosnia ha una sua eccentricità rispetto al mondo ex Jugoslavo e non è più un esempio significativo di cos’è quel mondo lì. Invece il Montenegro, secondo me, è proprio il modello che oggi, in pochi chilometri, può descrivere nel suo piccolo tutta la ex Jugoslavia. La costa ha almeno tre spazi storico-culturali e sociali differenti. A nord, la zona delle bocche di Cattaro è tradizionalmente cattolica e legata storicamente a Venezia, ha un turismo benestante, soprattutto proveniente dalla Serbia, ed è una zona ricca e ben tenuta con un’attenzione anche verso l’ambiente. Poi c’è la parte centrale, quella di Budva, che ha un turismo di massa, in parte interno in parte internazionale, soprattutto russo: è una tipologia di turismo che ha prodotto anche una certa devastazione nell’ambiente circostante, ma fa comunque girare molto l’economia. E poi c’è la parte più a sud, che ha caratteristiche nazionali in prevalenza albanesi ed è molto arretrata, molto più povera, ed è frequentata principalmente da turisti kosovari, che sono legati tradizionalmente a quelle spiagge. Andando poi verso l’interno si trovano di nuovo differenti passaggi nazionali, economici, culturali. C’è la fascia delle città, che sono più ricche (soprattutto la capitale Podgorica): è dove gira l’economia. Poi c’è la fascia del vero entroterra, dove si respirano i Balcani più tradizionali, economicamente abbandonati: qui, verso il confine con il Kosovo, vivono le minoranze albanesi, mentre verso la Bosnia vivono le minoranze musulmane slave. È interessante che tutte queste anime convivano in un Paese così piccolo: gli abitanti del Montenegro sono solo seicentomila. Il sistema politico è stato retto per venticinque anni da un leader assoluto, Milo Đukanović, che ha trovato il modo di governare un Paese con così tante differenze alleandosi con tutti i partiti delle minoranze. In questo modo il suo partito, che rappresenta invece i montenegrini, ha potuto governare in maniera assoluta, con rispetto delle minoranze ma avendo come nemico interno quelle che si riconoscono nella nazionalità serba. La differenza tra l’essere serbi e l’essere montenegrini è inesistente, il punto sta nel riconoscersi nell’una o nell’altra nazionalità, e c’è un buon 45% di montenegrini che si riconosce in quella serba e non accetta la politica di Đukanović. Questa minoranza serba è stata espulsa dal governo dello stato e vive nel nord più arretrato e balcanico: è tagliata fuori dall’economia e dalla ricchezza, ma esiste. E in qualche modo questo esemplifica quello che è oggi la ex Jugoslavia: la costa croata è molto simile alla costa montenegrina, ci sono città ricche come Belgrado e Zagabria, e poi c’è un entroterra molto arretrato sia in Serbia, sia in Bosnia, sia in Croazia.
Ho notato che in Nema problema! parli molto poco di Sarajevo, è stata una scelta o una casualità?
Nema problema! è la mia raccolta di diari di viaggio, e nei primi anni in ex Jugoslavia sono stato più a lungo a Belgrado, poi mi sono spostato in altre località, dove sono stato più o meno a lungo, ma prevalentemente sempre per studio. Facevo il dottorato e avevo delle ricerche da fare, che mi hanno portato soprattutto in Croazia e a Mostar. Insomma, in Nema problema! non ho parlato di Sarajevo perché c’ero stato solo una volta e non la conoscevo. Adesso invece la conosco e infatti in Sarajevo rewind ne ho parlato molto più a lungo.
A proposito di Sarajevo, in Sarajevo rewind, sempre pubblicato con Miraggi, segui le tracce di Francesco Ferdinando e Gavrilo Princip. Perché raccontare l’assassinio dell’arciduca oggi?
Io e il mio collega Simone Malavolti abbiamo deciso nel 2013 (quindi un anno prima del centesimo anniversario dell’attentato) di ricordare l’attentato di Sarajevo ripercorrendo i viaggi che hanno storicamente compiuto l’attentatore e la vittima. Gavrilo Princip è arrivato a Sarajevo partendo da Belgrado e Francesco Ferdinando partendo da Vienna, quindi ci siamo divisi il percorso: io ho seguito quello di Francesco Ferdinando, Simone quello di Gavrilo Princip, e ci siamo incontrati a Sarajevo in occasione delle celebrazioni del centenario. Originariamente l’idea era quella di produrre un documentario in cui avremmo raccontato come veniva percepito l’attentato, come venivano ricordati i due protagonisti, nei giorni a ridosso delle celebrazioni. Ovviamente era una scusa per raccontare come quel mondo vive oggi la storia passata, e in particolare come vede Gavrilo Princip e gli altri attentatori: se sono intesi come liberatori, per esempio. Insomma ci interessava l’uso politico che viene fatto oggi di un evento che di fatto è stato utilizzato politicamente fin dal primo giorno, come scusa per dare l’avvio alla prima guerra mondiale. Gli storici sanno che non sono stati quei colpi di pistola a scatenare la guerra, che probabilmente sarebbe scoppiata lo stesso, perché quella era l’intenzione delle grandi potenze.
A questo proposito, considerando l’effettiva possibilità che Francesco Ferdinando salisse al trono, l’assassinio di Sarajevo ha davvero influito in modo massiccio sul destino dell’Impero Asburgico?
Io credo che la guerra abbia sicuramente accelerato il crollo dell’impero austroungarico. È molto in dubbio se senza una guerra mondiale l’impero austroungarico avrebbe potuto continuare a sopravvivere ancora per qualche decennio oppure no. Si tratta di una questione molto difficile da valutare per gli storici. Io nel libro mi diverto a dare un’ipotesi di fanta-storia, per cui ipotizzo un mondo in cui l’attentato non viene portato a termine, Francesco Ferdinando diventa imperatore, fa delle riforme, e l’Europa si trasforma in modo completamente diverso da come in realtà è avvenuto nel corso del Novecento. È chiaro che è un’ipotesi fatta per divertimento, per gli storici è molto difficile valutare cosa sarebbe realmente successo “se”. È molto probabile, considerati i dati reali dell’epoca, che l’impero austroungarico non avrebbe potuto comunque vivere ancora a lungo, nonostante le eventuali riforme ideate da Francesco Ferdinando.
Molto spesso la figura di Gavrilo Princip viene associata a quella di Gaetano Bresci, principalmente per il loro ruolo di “uccisori di re”. Al di là della figura del giovane idealista, ci sono effettivamente dei punti in comune tra le due situazioni o è una forzatura storica?
Secondo me ci sono alcuni elementi in comune. Quello del giovane idealista non è un argomento secondario, perché effettivamente rappresenta lo spirito dell’epoca; un’epoca in cui c’erano delle idealità molto forti, che noi ormai abbiamo dimenticato: quando nell’89 è caduto il muro di Berlino sono crollate con esso tutte le ideologie del Novecento. Ora facciamo un po’ fatica a immaginare una persona disposta a sacrificare la propria vita per un ideale di qualunque genere. Invece quella di Gavrilo Princip e Gaetano Bresci era un’epoca di ideali così forti – nonostante spesso fossero in contrasto tra loro – da spingere i giovani a sacrificare l’intera esistenza. Una cosa che sicuramente rende molto differenti i due personaggi è proprio il tipo di ideale che li animava: Gaetano Bresci era un anarchico, mentre Gavrilo Princip e i suoi compagni attentatori di Sarajevo erano dei nazionalisti jugoslavi, come dichiara Gavrilo Princip stesso. Sentita oggi sembra quasi una contraddizione, ma invece all’epoca la Jugoslavia, cioè l’unità dei popoli jugoslavi, veniva percepita come un ideale nazionalista: si intendeva il popolo jugoslavo come un unico popolo ideale diviso soltanto dalla religione. Quindi l’ideologia che spingeva Gavrilo Pricip era ovviamente diversa da quella di Gaetano Bresci. L’elemento che sicuramente li accomuna è, come ho detto, quello delle idealità molto forti e anche, se vogliamo, lo spirito dell’epoca in cui l’omicidio politico, il regicidio, era comune ed era uno degli strumenti principali della politica rivoluzionaria. Non solo Umberto I, ma diversi altri regnanti e uomini politici vennero uccisi in quegli anni, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.
Nella Bosnia di oggi si respira ancora la tensione etnica e sociale che dall’assassinio di Sarajevo ha attraversato il Novecento, o la situazione politica e sociale si è evoluta e si tratta di dinamiche politiche troppo distanti?
La Bosnia di oggi in qualche modo è assimilabile alla Bosnia di cent’anni fa: è una realtà in bilico tra modernità e arretratezza, sia in senso economico sia in senso sociale e culturale. Con una grande differenza, però: nel 1914 la Bosnia era amministrata dagli austroungarici da circa quarant’anni, era una realtà in evoluzione, veniva da un passato più tradizionalista, più arcaico, che era quello del dominio ottomano, e andava verso un progresso che sembrava segnato ineluttabilmente. Come racconto in Sarajevo rewind questo miglioramento economico, sociale, e culturale, passava dalle ferrovie, dalle strade ferrate, che erano il simbolo del progresso per antonomasia tra fine Ottocento e inizio Novecento. Oggi invece, trovandosi in una situazione intermedia tra arretratezza e modernità, la Bosnia è in qualche modo tornata indietro rispetto a un’epoca – quella jugoslava – in cui era il centro di un grande Paese inserito nella politica internazionale in quando leader dei Paesi non allineati, molto ampio, economicamente funzionante. Insomma la Bosnia era il cuore della Jugoslavia di Tito, e lo era anche da un punto di vista artistico e culturale: i più grandi gruppi musicali, i più grandi artisti, i più grandi attori, venivano tutti da lì. Adesso invece la Bosnia si trova in una situazione di profonda arretratezza. Anche rispetto agli altri paesi ex jugolsavi che la circondano, la Bosnia è la realtà più arretrata: si trova chiusa in un sistema politico che di fatto preclude a qualunque prospettiva per il futuro.