Se mi tornassi questa sera accanto, il nuovo romanzo di Carmen Pellegrino, prende il titolo dal primo verso di una poesia di Alfonso Gatto, quale? Beh, probabilmente una delle più famose: A mio padre, di cui viene riportata la prima strofa all’inizio della prima parte di questo romanzo. Perché è così importante? Beh perché forse, potenza della poesia, contiene buona parte di questa storia, di questa come di molte altre ma di questa in particolar modo.
Cade la terra, lavoro precedente di Carmen Pellegrino mi era piaciuto moltissimo e mi aveva letteralmente lasciato senza parole. Questo libro, al contrario, mi ha fatto venire un voglia matta di parlare con Giosuè, con Nora, con Lulù, con Andreone. A volte per urlargli «non farlooo», altre volte per dirgli «bravo così si fa», e altre ancora per parlare delle cose della vita davanti a un caffè. A fine lettura mi è rimasto un amaro in bocca e un delicato senso di malessere nell’anima, delicato non nel senso di bello o di attraente ma nel senso di “da trattare con cura”, un po’ come una fiala di nitroglicerina o come un bambino piccolo.
Lulù affronta una situazione famigliare estrema per la nostra società, allevata da madre tormentata da problemi psichici e psichiatrici e da un padre che convoglia rabbia dolore e tristezza in un iperattivismo ideologico; un padre che non sa stare dentro le emozioni ma sa stare solo nel fare. La figura di Lulù risulta essere un frutto terribile di questa situazione. È terribile dall’inizio alla fine di questa prima parte del libro, schiacciata dal bisogno di adattamento, dalle mancate carezze dei genitori, dal bisogno di crescere in fretta: condannata a una vita senza speranza e senza amore.
Da questa infanzia non esce una ragazza ribelle, bensì una ragazza legatissima alla famiglia, che accetta praticamente di annientarsi nella famiglia, sottomettendosi alla volontà del padre e sottoponendosi a rinunzie emotive e vitali. Studia sì in città, ma accetta di non vedere più il ragazzo per cui aveva preso una cotta per votarsi completamente al progetto del padre di un “ignoto ideale”, una società utopica da costruirsi sulle rive del fiume del paese. Un progetto bislacco che si andrà a scontrare contro le ingiurie della modernità (antenne e pale eoliche) al momento di porlo in atto. Ma che del resto si sarebbe scontrato contro qualcos’altro in ogni caso.
La vita di Lulù arriva a una rottura per sovraccarico proprio in questo momento: quando dopo l’infanzia, la giovinezza, l’Università vissuta come occasione persa di distacco, torna in pianta stabile al paese e si trova a fronteggiare l’affondamento del progetto dell’Ignoto ideale (per cui aveva rinunciato all’amore e aveva studiato Agraria) e il peggioramento delle condizioni di salute della madre cui si trova a fare da badante.
Arriviamo così alla fine di questa prima parte costituita da lettere che Giosuè invia alla figlia, affidandole a bottiglie nel fiume, in cui dimostra una lucida comprensione e una consapevolezza tardive (forse un po’ irrealistiche nel complesso, ma magari è solo una scusa) alternate a pezzi di ricostruzione “storica” del loro rapporto e della vita di Lulù al paese.
Diventata, quindi, insopportabile la realtà Lulù se ne va di casa accompagnata dall’utilitaria di sua madre e dalle parole cariche di tenerezza del padre «Avevano ragione gli uomini semplici di una volta… Crescere figli è come crescere porci… Quanto a te, fa’ come credi, ma se te ne andrai farò come se tu non fossi mai nata». Ma la vera chiusura di questa prima parte è rappresentata dall’ultima lettera di Giosuè in cui si riscopre inaspettatamente capace di amare, capace di accudire la moglie come non ha mai fatto con la figlia, come nessuno ha mai fatto con la figlia.
Se la prima parte di questo libro è illuminata dalla poesia di Alfonso Gatto la seconda nasce con la speranza della poesia Domani di Antonia Pozzi. A continuare il racconto è il narratore onnisciente in terza persona che ci aveva raccontato i pezzi di storia di famiglia nella prima parte del libro, ma che in questa parte diventa l’unica voce.
Dopo lungo girovagare Lulù attracca su una casa galleggiante e su Andreone che sembra essere inizialmente come un tronco abbandonato sulla sponda di un fiume. E proprio con lui Lulù scava nel profondo: «Andreone rimescolava i suoi dispiaceri e, anche se poi si finiva in grandi risate, diveniva meravigliosamente intima con se stessa. Quell’uomo sentiva ciò che stava vivendo e lo faceva nel modo più semplice, immedesimandosi nei suoi stati d’animo, riconoscendo in lei la vita. In questo miracolo leggero, le parve di aver trovato un posto in cui stare.» Trova un simile, un appoggio, trova soprattutto una casa.
Non vorrei svelare a questo punto la fine, basterà dire che è un finale che lascia aperture alla speranza e al ritorno: un finale in cui l’attesa si trasforma in azione, in cui sta finendo il tempo di nascondersi e sta riiniziando la vita.
Il secondo romanzo della Pellegrino ci conferma una scrittrice capace di coniugare contenuti e ricerca linguistica, forma e sostanza. Ma soprattutto ci conferma una voce che sa parlare di sentimenti e sa smuovere emozioni, dolcezze e fastidi. Magari lo lancerete dalla finestra, magari lo amerete, magari lo abbandonerete perché troppo doloroso, preoccupatevi solo se rimarrete completamente insensibili leggendo questo romanzo.