Molti di quelli che avevano sui vent’anni nel 2000 e che appartenevano a quel tipo di studente di Lettere la cui carne era contesa fra la neoavanguardia, il feroce desiderio strutturalista, la rigidità del ventenne, l’ottusità interpretativa, la curiosità epistemologica, le feste alcoliche, le sostanze, la profonda ingenuità pre-crisi si sono imbattuti in una delle qualunque librerie che usavano frequentare o nella quale, soltanto, capitavano di passaggio (sebbene il senso comune vorrebbe lo studente di Lettere abituale lettore e conoscitore di una libreria, ma sono soltanto residui neo-romantici, postmoderni: lo studente pendolare si abitua in fretta alla necessità fuggitiva di acchiappare l’ultimo treno della sera, i suoi orizzonti sono gli struggenti panorami di acquitrini e campagne colonizzate dagli Ingromarket o dagli scali ferroviari inquadrati nei finestrini degli Intercity), molti di costoro insomma avranno avuto per le mani, nel 2000 o giù di lì, il libro d’esordio di Dave Eggers, edizione Mondadori: L’opera struggente di un formidabile genio.
Lo struggimento del giovane Dave, alle prese con il doppio e quasi contemporaneo decesso dei genitori, il suo trasferimento in California con i fratelli e la piccola comunità di maschi fratelli-figli che instaurava con Toph, il più piccolo, il fiore più fragile ma anche il più entusiasmante della famiglia, parte di quella esultante malinconia era il riflesso di un’epoca, un raggio fotonico che decollava dal prisma di un’America che, da sola, regolava – o credeva di regolare, loro, gli sceriffi planetari, come impunemente credettero di fare nel 2003 invadendo l’Iraq e innescando il secondo atto dello script geopolitico attuale – le ottiche delle visioni globali.
Molto dell’Opera struggente, insomma, era fatto di cartapesta, di fondali hollywoodiani, riciclati come certi bestioni fantatecnologici che trasmigrano dagli alti budget dei blockbuster fino alle produzioni più povere. Gli studios sono pieni di scenografie pluri-abitative, dove si realizzano i sogni della Summer of Love e la comunità si può riunire attorno a un sogno collettivo, un’allucinazione in 35 mm.
Eppure la forza del romanzo di Eggers derivava dal poter sopravvivere, grazie alla propria sincerità, a quella sfrontata autofiction (il sapersi chiamare «Dave» e vincere le ragioni dell’autobiografia dichiarando la propria opera semplicemente “letteraria”) che ancora non era una maschera opaca. Insomma, per i lettori occidentali, ma alla periferia dell’Impero, era tutta un’illusione la possibilità di creare una rivista come «Might», dal nulla, con la visceralità della propria età, ma illusione fino a un certo punto. Molte delle riviste on-line e dei luoghi di attrazione culturale che oggi sono affermati e che hanno sostituito le tradizionali sedi di lettura, scrittura pubblica e critica nascono da quel momento, da quelle esperienze che in Eggers erano, appunto, “might”, ma che ovunque succhiavano le Supervitamine di una gioventù che ebbe davvero da giocarsi, per poco, qualche carta. Così si leggeva sulla fascetta del romanzo un commento di David Foster Wallace che raccomandava la lettura perché il libro non «lasciava scampo».
Nel 2000 Foster Wallace era pressoché sconosciuto in Italia, salvo alcuni indomiti sostenitori, ma negli Stati Uniti era già un autore che riempiva librerie e centri convegni per le sue presentazioni, che riceveva importanti borse di studio per vivere tranquillo mentre scriveva, che insegnava scrittura creativa nei college, che attraversava carne e cervello della contemporaneità, pubblicando racconti, reportage, saggi, discorsi. E poi c’era un altro autore, il cui successo è di qualche anno successivo al Duemila, cioè Jonathan Franzen, amico e rivale di DFW. Franzen, che voleva riscrivere Balzac, aggiornando la Commedia Umana con gli psicofarmaci, aprendo gli armadietti dei medicinali delle famiglie middle-class (mi rendo conto adesso, scrivendo, quanto queste categorie siano oggi sorpassate, quanto abbia poco senso parlare di una middle-class come quella di Franzen, perché il tornado antropologico ha fatto piazza pulita di quelle classi e categorie di persone che fino a quindici anni fa erano valide).
Nel giro di qualche anno, fra quei due fratelli maggiori, per statura e per età, Eggers ha finito per essere il più discontinuo. Nel 2008 Dave Wallace si è ucciso. Il più bravo di tutti si è tolto di mezzo: il più fragile, capace, acuto, triste e puro si è impiccato in casa, in California. Franzen ha continuato a scrivere, dalle Correzioni (2001) a oggi ha pubblicato almeno altri due libri – Libertà e Purity – che ne hanno confermato, davanti al grande pubblico dei lettori la bravura e il successo.
Dave Eggers è stato, certo, il più attivo: operatore culturale, direttore di una rivista hipster e fighetta, sceneggiatore, giornalista sul modello dei new journalists Truman Capote e Tom Wolfe, ha una scuola per bimbi svantaggiati, segue programmi di istruzione per ragazzi nei quartieri poveri: è una specie di paladino di quell’essenza liberal, clintoniana, finanche onorevole che poi è un modo come un altro per dire che è sempre lo stesso Dave di L’opera struggente di un formidabile genio. È sempre lui, è soltanto cresciuto e ha selezionato molto bene le sue idee. Ha scritto molto, si diceva, libri di fiction, libri di non-fiction, biografie narrative, copioni per i registi Sam Mendes e Spike Jonze.
Forse questa introduzione è un po’ lunga, ma racconta decisamente la parte migliore del Dave Eggers che oggi esce con Eroi della frontiera (traduzione di Giovanna Granato): cioè l’Eggers del passato.
Eroi della frontiera è narrativa pura. Una vicenda classicamente raccontata, peraltro, con una voce esterna ma ben focalizzata, con flashback espositivi su dettagli fondamentali del passato della protagonista, tessere di un mosaico che alla fine appare completo, senza zone d’ombre, di modo che abbiamo a disposizione il background e l’accesso ai pensieri e intenzioni di Josie, la nostra eroina.
Si direbbe, dunque, che dal 2000 a oggi Eggers sia divenuto un romanziere ultra-tradizionale, molto più di Franzen, che sotto una patina – e una coperta diciamo – balzachiana nasconde insidie e abbrivi percettivi per cui non tutto quello che leggiamo è così attendibile come potrebbe sembrare.
Cosa resta dello spirito dei pionieri, del nomadismo consustanziale al DNA dell’americano medio? È vero che il senso della conquista, del pionierismo, è stato soppiantato da un’eterna fuga sui temi del vuoto, dell’insoddisfazione, della combustione generazionale, ma non per Dave Eggers: per lui l’esplorazione dei primi coloni è ancora valida, ancora la sua partitura cerca una “casa”. La cercano Dave e Toph, Valentino Achak Deng di Erano solo ragazzi in cammino (2006) e la cercano ora Josie e i suoi figli. Niente è lasciato in pasto alle ambiguità, ai territori d’ombra, alle peregrinazioni eccentriche dei beatnik. Al contrario ogni viaggio di questo scrittore bostoniano è una partenza – o una fuga, come in questo caso – per trovare una casa alternativa. L’esperienza di «McSweeney’s» (casa editrice e rivista), di «The Believer», di «826 Valencia St» sono tutte esperienze di case. Il progetto è sempre, teleologicamente, progressista. C’è sempre un Dave dal cuore pericolosamente in bilico fra luce e tenebra che cerca un posto migliore, dove far crescere i figli d’America (o dove mostrare, con inquietanti distopie, la via rovinosa che potrebbe prendere il paese/mondo se non rinsavirà, come ne Il cerchio – incubo social, allarme anti-algoritmo, thriller debordiano).
L’America, anzi, l’Alaska è la porzione geografica dove si svolgono le vicende di Eroi della frontiera. Josie, odontoiatra vicina alla quarantina, con due figli a carico – l’intelligente Paul e la vulcanica Ana – il matrimonio fallito con Carl, una querela sulle spalle da parte di una signora morente di cancro e desiderosa di vendicarsi, il senso di colpa per aver involontariamente convinto a partire per l’Afghanistan il puro di cuore Jeremy, un ragazzo bello e gentile, democraticamente forte eppure patriota, Josie, inquieta e delusa, insoddisfatta, intimorita, frustrata e arrabbiata prende i figli e li porta in Alaska. Missione: per il momento soltanto fuggire, non avere fissa dimora, non essere sicuri neanche che lo scassatissimo camper sul quale viaggiano, lo Chateau, “un camper decrepito” si metta in moto al mattino. Ma naturalmente dietro al randagismo del primo passo verso la porta si cela sempre il progetto di trovare un altro posto decente dove vivere. Forse un posto alternativo, in barba al motto del neoliberismo: «There’s no alternative».
Tra flashback, illuminazioni, incontri e imprevisti il copione comedy drama di Eggers si snoda in maniera tutto sommato prevedibile. L’Alaska, lo stato venduto agli Stati Uniti dalla Russia nel 1867, lo stato ritardatario, è minacciato da tremendi incendi. Forse lo spettro di Sarah Palin, la candidata da tregenda alla vicepresidenza con McCain, quando Obama spazzò via la concorrenza nel 2008, alimenta le fiamme su una terra nient’affatto innocente. La terra estrema boreale – the Last Frontier, come recita il motto dello stato – non è mai stata così grottescamente ostile come nei confronti di questa madre-coraggio: ogni maschio cerca l’accoppiamento; nonostante gli slanci Josie non ha esperienza di viaggi e della manutenzione di un automezzo, lei, incattivita negli zoo urbani dell’Ohio; la sorellastra è una delusione; il costo della vita nell’appendice artica degli Stati Uniti è altissimo e gli incendi, come si diceva, inseguono lo Chateau e i suoi passeggeri. Per molto tempo nella storia sembrerà di essere lontani dalla “casa”. E sebbene non ci siano approdi definitivi, epifanie rivelatorie, ma solo momenti brevi di felicità, prima che tutto ricominci, è meglio di nulla: essere abbagliati dai fulmini è comunque ricevere un raggio di luce.
Se chiudo gli occhi le riflessioni di Eggers, certe intuizioni sulla vita contemporanea (Marco Rossari, su «IL-Magazine» ha parlato di un autore «ossessionato dall’oggi» – e a ragione) tornano alla memoria. Siamo tutti coinvolti nei musical immaginari nei quali Josie pensa di poter trasporre la propria vita, da Deluso: il musical! a L’eroe dello Zuccotti (il riferimento è all’ex-marito Carl, infatuato in maniera infantile per il movimento Occupy, ma incapace di passare il tempo coi figli). Siamo tutti vittime del grigiore e della frustrazione, di un paese traditore dove muore giovane chi è caro agli dei, ma abbandona fatalmente tutti gli altri:
Allora dov’erano gli eroi? Josie sapeva soltanto che veniva da un posto di vigliacchi. Anzi, uno coraggioso c’era, e lei aveva contribuito a farlo ammazzare.
Se Evelyn offre alla protagonista l’occasione per scappare è Jeremy, con il senso di colpa che spalanca il vuoto nella vita di Josie: è lui l’eroe al singolare che l’America lascia morire ed è per questo che Josie si metterà in cerca di altri eroi, plurale, quelli che convivono con la frontiera, con il limite spaziale e dislocato del paese.
Epperò quella luce clintoniana, magari con un riflesso obamiano, oggi è del tutto scomparsa. Sta qui, forse, il peccato maggiore di Eroi della frontiera, il motivo per cui durante la lettura il fraseggio sembri parodistico, con la sua insistenza su immagine fruste, su periodi banalizzati dall’eccessivo utilizzo. Brani senza forza, senza stile, senza espressività:
Vedersi riflessi negli occhi degli altri non è una bella cosa. È sempre uno shock, sempre una delusione vedere il loro shock e la loro delusione. Sembri così vecchia.
Oppure si legga l’incipit:
C’è la felicità appagata, la felicità che nasce da un lavoro ben fatto alla luce del sole, da anni di sforzi proficui, quella che dopo lascia stanchi e contenti, circondati da familiari e amici, pieni di soddisfazione e pronti al meritato riposo: sonno o morte che sia.
Cos’è successo all’autore dell’Opera struggente, a colui che aveva costruito quell’illuminotecnica primaverile per un romanzo dolente e anche furbetto, non lo nego, ma irrimediabilmente bello e ben fatto? Un romanzo diseguale, ma animato da un certo furore – il furore della gioventù, la sua e la mia (la mia in minore, ça va sans dir) – che è stato senz’altro irripetuto.
Ma poi c’è stato un Eggers diverso, coraggioso a suo modo, capace di indagare con gli strumenti del giornalismo narrativo la sorte di poveri cristi islamici nell’inferno acquatico del post-Katrina, o di scrivere un’autobiografia conto terzi parlando del Sudan, del deserto, della morte, della fuga dalla morte. In questo Eroi della frontiera, senza ricorrere a generalizzazioni, non c’è alcuno fra i Dave Eggers che ho incontrato in passato. Per questo, fatalmente, l’introduzione di questo pezzo è più lunga della recensione del romanzo: perché di questo romanzo non c’è molto da dire. Ha parti interessanti: l’ultima, per esempio. La scena del temporale, la scena della scrittura del brano musicale. Sono oasi in un paesaggio senza luce, offuscato dalla foschia degli incendi. Una scrittura piatta, senza guizzi, senza visioni. Non si riesce a leggere senza pensare che l’autore stia volontariamente facendo a pezzi il proprio stile una frase del genere: «c’è un significato nel movimento». Così com’è definitivamente semplicistica la lamentela che Josie rivolge a Carl:
Figlio della ricchezza, votato alla causa dei poveri, anche se tecnicamente non aveva mai messo piede allo Zuccotti né aveva mai mosso un dito per sostenere quelli di Occupy. Non sarà che, non avendo un reddito, tecnicamente faceva parte del 99%?
Probabilmente è una specie di gioco dadaista. Probabilmente Dave ci sta prendendo in giro e noi, seriosi, cadiamo nella trappola. Non so, forse Dave Eggers tornerà con una nuova bella prova. Forse scriverà per il teatro oppure un’altra sceneggiatura. Forse stavolta scriverà un film dove una protagonista andrà nelle terre estreme del suo paese, in cerca di una casa, e stavolta giocherà le sue carte di scrittore con un linguaggio veramente contemporaneo, ché è questo il problema: essere ossessionati dal presente e non riuscire a essere davvero contemporanei. Quando questo autore altrimenti interessante avrà curato il suo difetto oftalmico sarò ancora lì, forse. Meno giovane, questo è sicuro. Nel frattempo l’Alaska può attendere.