Se l’economia in letteratura non è sempre un valore, lo è certamente la nettezza. L’efficacia, il nitore delle immagini e della lingua che si imprime esatta, senza forzature. Ellissi, l’ultimo romanzo di Francesca Scotti pubblicato da Bompiani, fornisce la prova lampante del teorema. Già il titolo è un manifesto: allude a una mancanza, una sottrazione, e poi, in senso più ampio, a un’imperfezione – la figura oblunga che non è il cerchio – a una chiusura e a una conclusione. Significati che si sovrappongono e s’intrecciano e sono svolti dalla scrittura di Francesca Scotti con una consapevole, controllata raffinatezza.
Dopo il bell’esordio coi racconti di Qualcosa di simile (Italic Pequod, 2011), vincitore del premio Fucini, e le conferme di L’origine della distanza (Terre di Mezzo, 2013) e Il cuore inesperto (Elliot, 2015), l’autrice si cimenta con un romanzo di formazione “sui generis”, intimo e struggente.
Ellissi è la storia di due adolescenti. Di più, di due adolescenze speciali, modernissime e al tempo stesso universali. “Sbagliate”, sembrerebbe; complicate, solitarie, incomprese ma riscattate da uno slancio purissimo di ascesa. È la storia di rapporti difficili con gli “adulti”, di un disagio che sfocia in malattia, un disordine alimentare, e al tempo stesso si sublima in un percorso simbolico di metamorfosi.
“Qui, senti questo punto”. Erica aveva preso la mano di Vanessa e l’aveva accompagnata sulla propria schiena, poco sotto la spalla. Poi aveva spalancato le braccia: allora la punta di un osso era affiorata contro il palmo di Vanessa che aveva sentito un’onda di sangue nel cuore. Erica era scivolata fuori dai pantaloni, la coda di sirena di un vestito di carnevale. Le gambe chiare costellate di nei e comete di lentiggini. Il respiro di Vanessa si era accorciato, e in quel momento eccitante, di caduta libera, Erica glielo aveva chiesto: “Vuoi diventare una ragazza con le ali insieme a me?”
Erica e Vanessa che si consumano, si elidono per diventare libellule, sono il simbolo di una ribellione. Dell’ostinata ricerca – metà alibi e metà esperimento – di essere speciali. Hanno stretto un patto: trasformarsi insieme in creature capaci di volare, farsi due ali di uno stesso corpo; cadere, degradarsi finché serve e poi, all’improvviso, condividere il prodigio di volare.
“Le libellule devono saper aspettare. Completato lo stadio larvale strisciano fuori dall’acqua, e l’esoscheletro si crepa per liberare l’addome. Le quattro ali escono, ma ci vogliono ore o giorni prima che si asciughino e induriscano” spiega Erica, la “ragazza coraggiosa”, guida e motore di tutto il processo. È un percorso che si compie in segreto, si nutre di secessioni, di immersioni più o meno lunghe – e rigorosamente condivise – nella dimensione che sarà, di una determinazione cieca e accuratamente dissimulata, dietro un’apparenza docile e dimessa. Lontano da occhi indiscreti, accese da una fantasia insieme lucida e allucinata, attuano diligentemente il loro piano. Pretendono di “curarsi” insieme, sapendo che è l’unico modo per resistere alla cura, insieme arrivano sul palcoscenico principale del romanzo, una specie di microcosmo hitchcockiano (ma senza thrilling) in cui si svolge la loro “avventura”. È un ambiente montano. La prigione dorata di Villa Flora, la facciata coperta d’edera, il corpo centrale simile a un faro, il lago – una lastra levigata – il parco ordinato e intorno un bosco spontaneo di querce e dentro aiuole fiorite che “aspirano a una geometria”. L’ultimo piano è di sole vetrate, come le ali di una libellula allo stadio finale: trasparenti, esposte, fragili.
Il “transito” di Erica e Vanessa, i rituali della malattia e della cura, l’interazione col personale e gli altri ospiti della clinica, l’umore ondeggiante tra speranza e sofferenza, ostinazione e curiosità, sono descritti dall’autrice con sensibilità, immagini acute, una lingua precisa e insieme evocativa. Una lingua che si modula: disegna un’atmosfera rarefatta in cui i contorni delle cose si stagliano nitidi; diventa più succosa, sapida, nelle scene intime del legame speciale tra le due protagoniste. Adolescenti, accese dalle pulsioni dell’età e della natura, chiuse in un bozzolo che solo loro possono capire, solo loro possono condividere, si “esplorano” a vicenda e si mettono alla prova esplorandosi.
Quella notte, e capitava spesso, avevano dormito insieme. Lo stomaco, strizzato come un costume fradicio, le aveva tenute sveglie. Il respiro irregolare, gli spasmi, i muscoli elettrici, il desiderio di spezzarsi le caviglie per tenerle ferme. Stavano così senza riuscire ad abbandonarsi al sonno. La notte di quel compleanno Vanessa si era tenuta stretta a Erica nel buio, ed Erica le aveva preso la mano per portarsela tra le cosce, poi le aveva richiuse, saldate una all’altra: lì Erica era così calda, lì Vanessa si era affidata a lei. “Anche questo aiuta le ali, ci fa bruciare più velocemente”, aveva detto.
Poi nella clinica irrompe l’altro: altri mondi che si accavallano al loro mondo, altri segreti che interferiscono col loro segreto. Diego, che somma la fragilità e il cinismo della malattia, un male dell’anima, al mistero e al fascino dell’universo maschile. L’orizzonte si amplia e si sgombra, la morsa si apre, il rapporto di Erica e Vanessa si libera e si spezza. Si trasforma, imprevedibilmente: l’incontro con l’umano, con tutte le suggestioni dell’umano, riporta le due protagoniste alla loro umanità. Alla riscoperta, reale e metaforica, finalmente consapevole, del “peso”.
La narrazione di Francesca Scotti registra ogni sussulto. Scorre con grazia, puntuale e incisiva, nel corso d’improvvise accensioni – emotive o sensuali – s’impenna senza scomporsi. Le immagini si fanno più forti, le sensazioni più violente, ma rimane una naturalezza, una raffinatezza e insieme una fluidità che rende tutto armonico. È, ancor prima che una scelta di stile, una scelta di campo. La tenebra balena ma il lato oscuro non diventa mai morboso. Su tutto prevale un tocco delicato, un tatto naturale, una vocazione “naturalistica” che può apparire a un certo sguardo il limite del libro, ma ne è per altri versi il punto di forza. Non c’è nessuna tesi da svolgere a tavolino, nessuna morale, meno che mai rovesciata, nessun effetto a buon mercato. C’è la tensione, lo stridio tra tentazione e pudore, il dolore – quello definito e quello indefinibile – e la dolcezza che ha la letteratura quando racconta, bene, la vita. Ellissi porta il suo prezioso obolo alla vita: svolge il racconto di una caduta mascherata da ascesa e poi di un’ascesa che si veste di caduta. Una storia a lieto fine ma non edificante; screziata, non univoca eppure “netta”. Dal ritmo ipnotico.
Sente solletico dappertutto, sorride, ha voglia di ballare e piangere, anche se nessuna delle due cose le piace poi tanto. Ascolta il tempo della clessidra, del campanile, degli orologi guasti, delle unghie che crescono. Scosta la tenda della finestra, un ultimo sguardo al lago che ha imparato a conoscere. Le appare diverso, la distesa d’acqua non è più rinchiusa dalle montagne. La luna è piena e sfacciata, crescente o calante. Guarda le stelle, non conosce nemmeno una costellazione. Allora si perde tra le luci dell’abitato sulla sponda di fronte. Chissà come appare Villa Flora a chi sta da quella parte. Negli occhi degli altri ci riflettiamo, agli occhi degli altri restituiamo silenzi, delusioni, risposte. Le farfalle hanno occhi sulle ali, le libellule no, le rondini hanno le piume. Sul prato, quello tra i castagni oltre il piazzale, qualcosa riluce. Sembrano le pietre bianche della riva che a sbatterle fanno scintille, liberano zolfo. […] Non è un unico sasso a luccicare nel buio dell’erba, eccone un altro, e un altro ancora. Erica li segue con gli occhi, dispiega lo sguardo. Qualcuno deve averli messi così, apposta, una galassia. Sembrano delimitare un continente, segno ed effetto, lettera antica, rondine. Una rondine – Diego è da qualche parte. È un pensiero che scivola in gola, raggiunge il cuore, lo stomaco. La magia si diffonde nella stanza, nell’aria, le colora la pelle di rosa. La mancanza di Diego le ricorda la fame.
Forse il modo più giusto di affrontare il romanzo è abbandonarsi. Lasciarsi portare dal soffio, fluttuare come Ofelia bianca e cinta di fiori sulle acque. È un libro che andrebbe letto, se si potesse, a occhi chiusi. Come lanciandosi da un’altezza vertiginosa con fiduciosa incoscienza, con la speranza ingenua e la certezza prodigiosa che a un dato momento si smette di cadere, di esplorare il gorgo, e ci si alza in volo.
Francesca Scotti, Ellissi, Bompiani, Milano 2017, 176pp., 17€