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Maddalena Lotter: intervista ‘verticale’

Quando ho letto per la prima volta Verticale, la raccolta poetica d’esordio di Maddalena Lotter, edita da Lietocolle nella Collana gialla- pordenonelegge.it, ho avuto l’impressione che quella voce così puntuale e così attenta non desiderasse munire di risposte i miei quesiti interiori ma che, al contrario, essa si fosse messa in dialogo con me, fermandosi addirittura ad ascoltarmi. Ed è in questo colloquio naturale con l’altro, in questo continuo percorso di conciliazione con il reale che si colloca la cifra stilistica vitale della poesia di Maddalena. Nei versi della Lotter non vi è urgenza di pronunciarsi sbrigativamente su ogni argomento né desiderio affannoso di apparire e non compaiono solipsismi o tensioni di certa poesia narcisisticamente disinibita; il suo è un registro espressivo chiaro e composto, in grado di dosare l’innato potenziale narrativo che la pervade.  Elegante, ricca di grazia ma anche introspettiva, icastica, accorta: a leggerla, la poesia di Maddalena Lotter sembra portarsi addosso i colori del bosco, emanare da lontano il profumo delle fronde e della terra bagnata e incedere sulla pagina col passo impercettibile e controllato di un animale selvatico. Il dialogo che io e Maddalena abbiamo avuto, durante questa intervista ed in altre occasioni è servito a comprovare che, se ce ne fosse ancora bisogno, la poesia dei poeti non si ferma alla pagina, non si interrompe alla stesura di versi ben scritti né alla conoscenza di antologie e manuali costellati di illustri predecessori. Per questo, la conversazione con il poeta – o con l’autore, più in generale –, insieme all’opera resta l’unica e l’ultima fortezza da difendere a tutti i costi, un momento onesto e importante in cui le corrispondenze tra letteratura e vita possono finalmente palesarsi in tutta la loro bellezza – e in tutta la loro fragilità.

Quando e come è nata la tua raccolta poetica?

Verticale è un libro la cui gestazione è cominciata intorno agli anni 2000, quando io avevo poco più di 10 anni, e non lo dico perché voglio impregnare di un’atmosfera mitologica la nascita di questa raccolta. Il fatto è semplice: la prima sezione di quel libro è ambientata in un borgo toscano dove trascorrevo realmente le vacanze da bambina. In quel periodo credo di essere entrata, per la prima volta, in contatto profondo con il mio inconscio. Mi spiego meglio: fra gli oliveti, sulla strada sterrata che conduce al mare (un mare aggressivo, il Tirreno), nelle pinete abitate da famiglie di cinghiali (nella mia immaginazione erano mostri), o semplicemente sull’amaca appesa all’albero di fico, io ho ascoltato per la prima volta me stessa e il mondo; sono emerse allora le paure, i desideri, la fantasia e il grande ospite di tutti i miei futuri pensieri: il mistero. Ciò che non si conosce e di cui si avverte, però, il canto. La notte senza luci della campagna toscana, i rumori nell’erba, il mondo che è là, nel buio, le sagome scure, sacre degli olivi alla luce della luna. Insomma, c’era qualcosa in quella campagna che mi ha messa in contatto con la poesia. Bisognerebbe dire a questo punto cosa sia per me la poesia, ma forse la sua più corretta definizione proviene da un assemblaggio di cose. La prima per me è appunto questa: il suo legame fortissimo con il paesaggio, o meglio, con la vista.

Spiegati meglio: cosa intendi per “vista”?

Il vedere del poeta non è un vedere dell’occhio corporeo, non è uno sguardo fotografico sul panorama, insomma non è – per me – solo descrittivo; la vista del poeta si compie con altri occhi, nel buio, è una vista che da fuori si immerge dentro (nell’anima, evidentemente) e poi esce in forma di scrittura attraverso l’uso di una parola indiziale, una parola che allude a qualcosa che non può essere spiegato. Penso che a 10 anni io abbia accolto per la prima volta il mondo con questo tipo di sguardo. Le poesie raccolte in Verticale sono state scritte 14 anni dopo, cioè quando avevo letto molti libri di poesia e mi ero costruita un bagaglio anche linguistico, che a 10 anni di certo non avevo. È come se certe percezioni, certi momenti epifanici che avevo vissuto da bambina si fossero sedimentati in un angolo di me stessa e fossero riemersi poi, quando ho avuto i mezzi per esprimerli ad altri. E così è stato. Il libro, ovviamente, contiene anche poesie che non hanno niente a che fare con quel periodo, con quel mio primo incontro con la poesia. C’è una sezione centrale che vede l’Io dialogare con un Tu con il quale tenta la fusione, e questa relazione si stabilisce anche grazie al tramite dell’ambiente naturale (il bosco, le montagne…), in cui qualcuno forse vedrà un raffronto banale, ma è da sempre forse il più efficace. In quella sezione parlo di un legame di sorellanza, di dolore e di grandi tenerezze. Insomma parlo di esseri umani che si incontrano. La terza parte invece è meno legata al dialogo con il ‘paesaggio’ ed è quella forse più razionale, meno lirica. Nella terza parte si parla di morte, di paura della morte, di confronto con il tempo. Spero di essermela cavata bene, cioè spero di non aver trasmesso un’idea depressa della vita, che assolutamente non ho. La meditazione sulla morte è inevitabile per qualsiasi poeta, ma essa non è una presenza triste, semplicemente: c’è. E’ insita nello sguardo poetico, è come una compagna fedele che vigila sulla scrittura. Tutte e tre le sezioni del libro sono abitate da una meditazione sul distacco, che si compie definitivamente nell’ultima poesia, in quella poesia che chiude la raccolta e che è un invito ad abbandonarsi al soffio della vita e della morte con un atteggiamento di fiducia (laica), di sospensione del giudizio, di sospensione anche dell’Io. E sarebbe una liberazione! Questa che chiamo ‘fiducia’ è per me è il raggiungimento della verticalità. Di qui, il titolo del lavoro.

Tu credi di aver raggiunto questa verticalità?

Non credo di averla ancora raggiunta, però intanto ne ho scritto, l’ho intuita. Vivo tutti i giorni scontrandomi con le mie paure, con le nevrosi mie e degli altri, e la verticalità dell’esistenza si rivela quasi un’utopia; ma la poesia in questa confusione mi permette di capire, di rivisitare le emozioni in pace, cioè di far maturare la mia anima insieme alle parole.

“Questa è la parte più bella di tutta la letteratura: scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni”, affermava Francis Scott Fitzgerald. Ma per molti la lettura è pratica sconosciuta, a volte per mancanza di educazione in tal senso, altre volte per negligenza o per scarsità di interesse. Qual è il tuo rapporto con la lettura e con le parole?

Penso che tutte le persone dovrebbero confrontarsi in qualche modo con la lettura, perché grazie alle parole si può avere meno paura di quello che accade nella vita; banalmente, più parole si conoscono, più la vita può essere spiegata.. Non sono certo la prima a dire che ‘il dare un nome alle cose’ è il gesto fondamentale dell’uomo, con cui l’uomo ha dominato il mondo e se stesso. Mi viene spesso detto che sì, la lettura è utile a conoscere l’animo umano, ma che anche l’esperienza diretta è fondamentale per capire la vita. Non so bene come approcciarmi a questo discorso, se non cercando di sciogliere questo dualismo ozioso della teoria e della pratica, che in verità sconfinano l’una nell’altra, sempre. Chi vive solo di esperienza, non comprende niente della vita: si limita a goderne e a soffrirne. Io penso che si possa fare un po’ di più di questo, nella vita, anche solo per rendere onore alla sua complessità, anche se non è obbligatorio. Nella fattispecie la parola poetica, come mi disse una volta una cara amica poetessa, è solo un commento alla vastità inesprimibile delle percezioni e delle visioni del poeta. La vita è immensa. La parola non può comprendere tutto, e non può nemmeno però tacere di fronte al mondo, poiché temo che, se il commento sul mondo tacesse, il mondo smetterebbe in qualche modo di esistere. Dopo aver letto tanti libri nella vita, pare che il mondo che vediamo sia così profondo proprio perché noi sappiamo ora raccontarlo così. Ed è per questo che leggere è fondamentale, perché la lettura apre all’immaginazione, e l’immaginazione è già una forma di realtà propria che va a integrarsi con l’alterità.  Io non penso che si legga poco; penso che oggi ci siano molte più persone che leggono (parlando proprio in termini di alfabetizzazione) rispetto a cento anni fa. Ovviamente, la democratizzazione del sapere ha abbassato il livello di tutto: delle università, della scuola, della letteratura associata alle vendite. È una questione statistica. Mi spiego: è vero che oggi tutti leggono, ma non tutti leggono Proust. Quindi cosa si intende per ‘leggere’? Pur nello sconforto di sapere che nel mondo c’è molta gente a cui non frega nulla di Proust, sono pronta a dire che preferisco una società di alfabetizzati che ‘abbassano il livello’, a una società delle elites. Perché sacrificherei la qualità in nome dell’equità; so che la qualità troverà il suo spazio anche nella confusione, e anzi già lo fa. Oggi ci sono ottimi scrittori, che fanno letteratura, che certamente non vendono milioni di copie come altri che invece di letteratura non ne fanno; è fisiologico che sia così. Non c’è da arrabbiarsi. Del resto, in chi pratica veramente la letteratura, è sempre l’amore per la scrittura a prevalere sulla voglia di vendere. Continuo a credere che a uno scrittore ‘vero’, almeno in origine non interessi vendere, interessi scrivere.

Credi che ci sia un linguaggio univocamente appropriato per la poesia?

Non ho una risposta a questa domanda perché non pongo limiti all’uso del linguaggio, purché non si riveli un uso del linguaggio ai fini del linguaggio (esercizi pirotecnici della parola privi di senso). A me è sempre piaciuta quella poesia che non ha paura di sembrare semplice; sarà per questo che amo poeti come Sandro Penna o Umberto Saba, Seamus Heaney, Mark Strand, e al tempo stesso nella prosa amo i narratori americani (Faulkner, Mansfield, Capote, McCarthy…). Sarà per questo che torno sempre alla lettura dei classici greci e latini, specialmente latini in questo caso: la lingua di Orazio è per me sempre un porto sicuro, quando mi si chiede quale linguaggio vorrei usare in poesia. Vorrei essere limpida e essenziale, suggerendo però un mondo sconfinato che rimane sommerso.

Sei una giovane donna alle prese con le normali vicende quotidiane, sociali e private e soprattutto sei una poetessa del tuo tempo:  lo vivi, lo osservi, ne apprezzi i vantaggi e ne subisci le conseguenze. Che mondo si vede dalla tua prospettiva?

La crisi del lavoro sta massacrando i sentimenti. E non lo dico perché io sia una sentimentale, anzi, tutt’altro; lo dico come un monito, perché stanno crescendo ragazzi che non amano più e che sono disposti a calpestarsi l’un l’altro per poter ‘emergere’. Posso giurare che sia così e che non sto esagerando. C’è tanta rabbia, tanta frustrazione, e l’Altro viene visto sempre come un pericolo, come un intralcio al proprio binario unico. L’unico modo in cui oggi si pensa all’aggregazione è il modo virtuale: la storia di Instagram, i post maliziosi su Facebook, i followers, l’ironia cinica che si deve fare sui social – perché essere spontanei invece è da deboli- le frustranti chat di whatsapp. Insomma, briciole di sentimento che si spargono e che non si sedimentano da nessuna parte, perché amarsi online può anche essere amore, ma in alcun modo costruzione. In questo panorama che io reputo sconfortante all’inverosimile, si inserisce la possibilità di far parte di un gruppo: parliamo della società letteraria. Innanzitutto, quale? Nel senso, di quale età? Parliamo dei giovani scrittori; io posso parlare con una certa sicurezza solo di quelli. Anche qui, seppure forse con meno violenza e arroganza, vigono le stesse regole del barbaro mondo della carriera: i giovani poeti alla rincorsa del premio, della gloria-social, le riviste che pubblicano poesie di autori diversi ogni giorno, sovraffollando cervelli e orecchie e immaginario. Insomma, abbiamo un po’ di problemi anche nel mondo dell’arte. Per fortuna però ci rimane l’arte, cioè quell’urgenza che parla degli uomini e della vita. Spesso, quindi, mi trovo a mio agio parlando con persone che leggono molto e che si occupano attivamente di letteratura, e confesso che è facile, fra loro, distinguere chi se ne occupa per amore della letteratura e chi se ne occupa solo per far emergere la sua persona.  Mi muovo liberamente in questo mare alla ricerca di persone e non di macchine da guerra, esseri umani caldi, con cui posso stabilire un dialogo sincero; anche in questo riconosco una dimensione orizzontale e una verticale (riprendendo quel che ho detto prima sulla verticalità). Stare verticali è una forma di resistenza, è la volontà di dire: io sono sensibile, ma non per questo sono debole. Debole è chi non osa conoscere ciò che ha dentro e per questo galleggia sulla superficie, orizzontalmente, come un cadavere o una boa.

***

I piccoli volevano andare alla secca delle more
che si chiama così perché c’era un torrente.
Ora bisogna badare agli scorpioni,
camminare con il bastone avanti
nel deserto di scheletri d’insetto.
Ma i piccoli sono diventati padri
e alla secca non ci va più nessuno
non si raccolgono le more nel roveto,
non è nemmeno un cimitero
ormai forse è scomparsa in un imbuto