Il confronto con l’universo dei media digitali rimane una delle sfide più urgenti della cultura. Dalla augmented reality di oggi agli innesti neurali di domani, il cambiamento investe le civiltà con passo inesorabile e disuguale, incrementando la diversità, la complessità, lo scarto cognitivo tra il “dato” e le categorie con cui cerchiamo di pensarlo. Lo stesso concetto di “cultura” suona stantio e fuori corso: la tecnica ha dissipato l’orgogliosa lentezza dei vecchi umanisti, ne ha invecchiato il delirio di controllo. Inoltre, non ha senso slegare l’informazione dai suoi supporti – organici o inorganici che siano: è sbagliato tracciare un confine preciso tra tecnica e pensiero.
Che cos’è, dunque, la cultura ai tempi del digital divide, dei bollori transumanisti, del GAFA e dell’impero dei big data? Un invito sempre più pressante alla flessibilità, alla ristrutturazione dei nostri modelli mentali. È inutile ubriacarsi di futuro o temere l’apocalisse: la tecnica esiste, modifica le nostre vite, funziona come protesi materiale e cognitiva e, allo stesso tempo, come “mano invisibile” di un mercato agguerrito e oligopolistico. Se pensiamo con le vecchie categorie, non sembra esserci alternativa tra il fanatico del chip e il luddista. Oltre questa scorciatoia logica, tuttavia, si estende un vastissimo terreno di frontiera: dove finisce la protesi e comincia la carne? Quali sono le virtù, quali i pericoli dell’intelligenza collettiva? La tecnica è legata senza rimedio alla disuguaglianza? Come trattare le “scatole nere”, i dispositivi progettati, prodotti e gestiti perché li riempiamo di noi, di “informazione”? Come il divario digitale influenza la nostra percezione del mondo e della specie? Come modifica le reti sociali, su grande e piccola scala? Troppi miti e troppe risposte ready-made inficiano il nostro giudizio, mentre cresce il bisogno, l’urgenza di spazi di manovra. Come nella scanzonata, geniale parodia sci-fi di Douglas Adams, la risposta è servita. Il vero problema – oggi come sempre – sta nel cercare nuove domande.
Per questo, anche quest’anno, La Balena Bianca insieme a Lavoro Culturale parteciperà al Festivaletteratura di Mantova con un ciclo di incontri a distanza dedicato proprio al rapporto tra scienze umane e letteratura.
Come l’anno scorso, il ciclo è intitolato #Prossimamente e ha lo scopo di portare in Italia, tramite un collegamento Skype, personaggi autorevoli e originali all’interno di un campo tematico, già molto noti all’estero ma ancora poco conosciuti in Italia. Gli ospiti di quest’anno, esperti nel campo delle postumane lettere, vengono tutti dal mondo anglosassone e sono: David Weinberger, che da tempo studia gli effetti della tecnologia sulla società e sulle idee e che recentemente si è occupato dell’effetto di Internet nelle modalità di trasmissione dei saperi; Richard Grusin, uno dei più influenti teorici dei new media di cui ha sostanzialmente definito il campo di studi attraverso il concetto di remediation; Scott Hartley, che nel suo recente libro, The Fuzzy and the Techie, ha indagato il ruolo chiave di letterati e filosofi nella crescita delle della new economy.
Gli appuntamenti sono tutti alla Tenda Sordello, in Piazza Sordello, e sono a ingresso libero.
Venerdì 8 settembre
>> h. 18,00 – David Weinberger, La conoscenza partecipativa della rete
Sabato 9 settembre
>> h. 18,00 – Richard Grusin, L’informazione nell’era della mediazione radicale
Domenica 10 settembre
>> h. 15,00 – Scott Hartley, Umanisti alla conquista del mondo digitale
E proprio a Scott Hartley dedichiamo il nostro approfondimento, a cura di Massimo Cotugno.
Letterati, sociologi e filosofi hanno svolto un ruolo chiave nella crescita delle più giovani e dinamiche aziende della new economy. È lungo l’elenco degli umanisti a capo di colossi di recente generazione:
Reid Hoffman, il fondatore di LinkedIn ha una laurea in Filosofia a Oxford; il co-fondatore di PayPal, Peter Thiel, ha studiato Filosofia e Giurisprudenza; Ben Silbermann, il fondatore di Pinterest, ha una laurea in Scienze Politiche a Yale; i fondatori di Airbnb, Joe Gebbia e Brian Chesky, hanno entrambi studiato Arte e Design. E per finire un elenco che potrebbe continuare ancora a lungo, la CEO di YouTube Susan Wojcicki ha una laurea in Storia e Letteratura a Harvard.
Pensiero critico, comprensione del testo, rigore logico e argomentativo, comunicazione chiara e persuasiva, sono tutte qualità incoraggiate dalla formazione umanistica, che divengono indispensabili nell’ambito sempre più complesso dell’innovazione tecnologica. La stessa enorme quantità di dati da gestire (i famigerati Big data) richiedono una crescente capacità di analisi critica e interpretazione.
Il testo di Scott Hartley è un susseguirsi di esempi concreti che avvalorano una tesi che va decisamente controcorrente rispetto a quanto ci viene ripetuto negli ultimi anni. Sarebbe un errore lasciare totalmente nelle mani degli ingegneri il nostro futuro tecnologico. Non a caso la Nissan ha affidato non a un “techie”, ma all’antropologa Melissa Caefkin e al suo team il delicato compito di analizzare l’interazione uomo-macchina in previsione dei nuovi modelli di vetture autonome. Il valore aggiunto di una formazione umanistica consiste nel saper porre le domande giuste e soprattutto nell’interpretare e dare “forma” all’infinità di dati che oggi possiamo ottenere. Persino l’utilizzo di un algoritmo, considerato da molti lo strumento più oggettivo con cui ottenere dati di valore, può invece rivelarsi il modo più rapido per creare gravi diseguaglianze e ottenere un risultato che non corrisponde alla realtà. È il caso di un algoritmo utilizzato in Oakland, California, per predire in quali zone ci sarebbero state più probabilità che avvenisse un crimine. L’algoritmo, che si basava sul numero di chiamate alla polizia, non prendeva però in considerazione una serie di sfumature, come l’elevato numero di casi di crimini non denunciati in zone della città meno abbienti, dove a volte esporsi può risultare un rischio. L’algoritmo dunque finiva in un loop, concentrando tutte le attenzioni della polizia in poche aree e dando precise connotazioni etniche ai criminali. Questi sono solo un paio dei numerosi esempi che Hartley porta sul banco per ricordare la necessità di un nuovo modo di concepire il futuro, dove una sana diversità di pensiero potrà mitigare e migliorare una tecnica che spesso dimentica lo scopo per cui è realizzata. Il codice necessita di essere contestualizzato per essere davvero utile al nostro domani, e solo un lavoro di squadra tra “techie” e “fuzzy” potrà rendere possibile l’accesso a questo nuovo stadio evolutivo.
La tecnologia, del resto, diventa sempre più accessibile e questa democratizzazione porta chiunque a poter partecipare alla nuova era digitale. Realtà come codeacademy – la più famosa scuola online per imparare i vari tipi di codice – e Coursera – tra le più importanti università gratuite della rete – sono solo alcuni degli esempi di come anche la formazione possa essere più fluida e trasversale, contribuendo alla nascita di nuove figure di intellettuali: un ibrido perfetto tra il tecnico e l’umanista.