«Io adoro i mondi imperfetti, perché solo lì l’uomo può dare il meglio di sé». Così chiosa il suo intervento al Festivaletteratura 2017 Domenico Quirico, giornalista di lunga carriera in qualità di inviato estero per «La Stampa». Quirico, anche autore di numerosi libri derivati dalle sue esperienze di corrispondente – ricordiamo Primavera araba. Le rivoluzioni dall’altra parte del mare; Il grande califfato; Esodo. Storia del nuovo millennio; tutti editi per Neri Pozza – e profondo conoscitore di luoghi anche scarsamente frequentati dalle cronache quotidiane, è ad oggi una delle voci più autorevoli in fatto di geopolitica.
Domenico Quirico, il suo è definibile come un giornalismo “dei fatti”, delle esperienze dirette. Il metodo che utilizza, fortemente improntato sulla visione di luoghi e attori della Storia, mi ha ricordato quello autottico usato dagli storici antichi. Lei accetterebbe l’etichetta di “storico”, oltre a di “giornalista”?
Direi di no. Nella misura in cui lo storico è qualcuno che opera su vicende morte, che sono appunto Storia. La caratteristica essenziale del giornalismo, specialmente il mio, è invece quella di essere presente ai fatti. I giornalisti non fanno autopsie, ma si muovono su un corpo vivente. Operano, semmai, sulla Storia mentre si forma e questo è ciò che distingue il giornalismo da ogni altra forma di scrittura. La riflessione storica certo c’entra, ma si pone in un tempo già chiuso e usa strumenti che il giornalismo per la maggior parte ignora, parlo di archivi, memorie, atti etc. Credo inoltre che la mia, la nostra categoria possa e debba rivendicare con grande orgoglio il fatto di raccontare la storia mentre si costruisce consegnando poi eventualmente una materia agli storici perché questi la mettano in ordine e possano, insieme ad altri elementi, dare un’interpretazione magari più corretta di ciò che è avvenuto.
Il suo metodo resta comunque diverso da quello dei suoi colleghi.
A me sembra di operare in un modo perfettamente normale, non capisco quale tipo di giornalismo si possa fare senza andare a vedere di persona un fenomeno. Quello che posso lamentare è l’idea di un giornalismo da “collage”, da tavolino. Rispetto all’epoca in cui ho iniziato a lavorare devo constatare che oggi vedo sempre più spesso pezzi con date, luoghi – esotici o nostrani – ma alla lettura del pezzo risulta evidente che è stato composto raccogliendo informazioni da varie fonti, tutte non di prima mano. Oggi, attraverso questo facile reperimento di notizie – che certamente è anche un bene – si può restare al fresco d’estate e al caldo d’inverno, assemblando i propri pezzi comodamente dalla scrivania. Vedo che questo accade addirittura nello sport, che francamente non mi sembra un territorio impervio in cui avventurarsi. Ecco, credo ci sia una sorta di deformazione del mestiere, ma ovviamente ognuno poi agisce come crede.
Cambiamo argomento. Quando conflitti nemmeno troppo lontani nello spazio mietono vittime in numero consistente, la nostra consapevolezza si trasforma spesso in sola acquisizione di dati, che non generano una riflessione complessa sul fatto; al contrario conosciamo bene le reazioni agli attentati compiuti sul suolo “occidentale”, qualunque sia la loro dimensione. Perché secondo lei l’Occidente non ha una percezione reale della dimensione della violenza quando essa è perpetrata ad altre latitudini? Questa problematica è forse legata alle possibilità del soggetto, antropologicamente parlando, in grado di empatizzare davvero solo quando è testimone di una vicenda, quando è partecipe e non solo uditore di un fatto?
Questa è una riflessione complessa, di tipo storico. Facciamo un esempio estremo: durante l’epoca delle rivoluzioni borghesi, in Austria-Ungheria o in Russia, un mondo in cui l’analfabetismo era del 95%, i giornali erano letti da un paio di persone, non c’era alcuna forma di comunicazione moderna e l’opinione pubblica non esisteva essendo la società ancora contadina, un’insurrezione contro l’imperial regio governo o l’aquila bicipite dei Romanov poteva generare un moto di coscienza collettiva. Un secolo e più dopo, lei può raccontare minuziosamente, corredato da tutti i mezzi di comunicazione, che cosa fanno gli esseri umani ad altri esseri umani in un posto che non sta tanto lontano da qua ed ecco cosa otterrà: niente. Come dice lei, se non accade all’interno di questo spazio appartenente al ricco e difeso dalle barricate, il fatto non interessa, come se non si trattasse di esseri umani.
“Abbiamo perso la capacità di soffrire con gli altri o di entusiasmarci, appassionarci e indignarci insieme agli altri.”
Allora si capisce che potrei fare riflessioni di tipo sociologico-comunicativo e altre sciocchezze, ma preferisco affrontare una prospettiva antropologica: è cambiato il rapporto tra gli uomini e gli eventi, in particolare tra gli uomini e la sofferenza, la repressione e la violenza. Il dolore e la violenza ci interessano solo nella misura in cui ci coinvolgono. Abbiamo perso la capacità di soffrire con gli altri o di entusiasmarci, appassionarci e indignarci insieme agli altri. Qui la riflessione è certo più complessa di quanto posso fare io come giornalista, è una riflessione sui cambiamenti della subcoscienza collettiva delle nostre società, che ci porta, temo, a qualche conclusione assai pessimistica. Ma all’interno di questo, ci stanno anche le colpe mie e della mia consorteria; parlo di un certo cinismo e indifferenza per ciò che è periferico. Nessuno in un giornale la mattina pensa di mandare un inviato perché in fondo al Senegal due tribù si stanno massacrando, gli interessa di più se Renzi è andato ad Agrigento con Alfano o con sua sorella. Questo è anche – anche – un problema, bisogna dirlo.
Ma con una maggiore attività da parte di alcuni, lei crede che la percezione delle cose potrebbe cambiare?
Io credo che se anche facessimo una pagina sullo sterminio di tale o tal altra tribù le persone si interesserebbero comunque difficilmente, perché la gente è preoccupata, nel proprio piccolo spazio, per altre cose, il potere d’acquisto, le vacanze che non si possono più fare, la macchina, insomma, tutte cose importantissime, ma che non permettono di gettare il proprio sguardo oltre un orizzonte personale. Ci siamo raggrinziti nell’anima.
Di pari passo con questo discorso sulla percezione solo della sofferenza che ci riguarda, trovo curioso il caso della cronaca – specie quella nera –, una delle branche con più seguito, nonostante abbia meno implicazioni politiche o sociali rispetto a vicende estere ben più sanguinose. In generale, intendo, molte risorse vengono impiegate nella ricerca di storie apparentemente meno interessanti o meno utili alla coscienza collettiva. Lei cosa ne pensa?
Ho notato che molti colleghi, magari anche più bravi di me, non pongono molta attenzione al tipo di giornalismo di cui mi occupo, quello diciamo “esotico”. Gli interessa molto di più o dedicarsi a problemi di economia o politica interna – che io trovo giornalisticamente nefandi, nel senso che uccidono per davvero – oppure puntare sull’editoriale, sulla riflessione universale, la lezione all’umanità su come si deve o non deve agire. È una sorta di opinionismo di quarta serie. I giornali oggi tendono a prendere un episodio, piccolo o grande che sia, e a costruirci riflessioni da bar, con un tono magari ironico e divertente. Quello che va di moda oggi nei giornali non è nemmeno la cronaca nera, è cercare le belle storie, quelle che vanno a finire bene. È una sorta di modello renziano del giornalismo, il modello della “start-up” secondo cui è sempre possibile realizzarsi senza intoppi. È il motto di Renzi: smettiamola di dire che il mondo è fatto di disperazione, di dolore, che l’Italia è tutto un piagnisteo e andiamo a prendere l’unico che ci è riuscito, anche se ce n’è uno su un milione – perché il mondo è brutto, cattivo e pericoloso e questa è la realtà. E badi che è una modalità molto americana. Ogni giorno, sul giornale, dieci belle storie a lieto fine, in modo che la gente sia contenta, si rassicuri, vada al supermercato e compri di nuovo. I giornali sono fatti strumento di questa concezione parafilosofica e molto politica del mondo.
Quirico, possiamo ancora usare la parola “occidente” per definire e definirci in un insieme?
Cosa è l’Occidente? Quando e come lo sentiamo? Possiamo ancora utilizzare questa parola? Noti come abbonda sui giornali, “L’Occidente bombarda…”, “L’Occidente reagisce alle provocazioni di…” e così via. Ma quale Occidente? Questa parola aveva ragione d’esistere perché aveva un contenuto fino a un certo punto della storia del Novecento. Da quel momento in avanti, questo concetto non ha più senso. Insomma, detta brutalmente, tra me, lei e Trump che rapporto c’è? Cosa ci lega? Nulla! Sono più legato all’indigeno che vive in fondo alla foresta del Kenya che a Trump. Allora è chiaro che dobbiamo ridefinire il concetto di Occidente e chiederci se esiste ancora. Questo per dirle che il nostro rapporto con gli eventi che avvengono attorno al presunto Occidente si è deformato.
Esiste quindi il rischio concreto che il valore dell’Occidente diventi semplicemente il capitalismo o il post-capitalismo che sia?
Ma è già così. Se lei guarda i giornali, di chi si parla? Di Draghi, della Lagarde, di Padoan. Importanti pagine vengono sempre dedicate a cos’ha detto o non detto Draghi, un funzionario di banca! Ma cosa creda che pensi una persona nel momento in cui legge le dichiarazioni del funzionario della banca a cui ha lasciato i suoi soldi? Guarderà ai suoi interessi: “speriamo che non me li abbiano rubati!”, non a cosa pensi lui del futuro del mondo. Quello che lei mi chiede esiste nell’evidenza: è già così.
Su quali aspetti allora si gioca la partita dell’Europa?
Il problema dell’Europa nei confronti del resto del mondo è un problema di diritti. Il diritto liberale viene inventato, fin dai tempi dei Greci, a causa dell’appartenenza a un gruppo. È solo dal Settecento che nasce il diritto umano, nel momento in cui il singolo viene astratto a generale, il francese, il greco, il nigeriano fanno tutti capo all’astratto “uomo”. L’invenzione dei diritti umani, questa è la nostra grande conquista ed è su questo che ci giochiamo tutto.
“Derubricare i diritti di tutti nuovamente a diritti di appartenenza ci fa cadere nella perdita di identità”
Mica sul fatto che abbiamo inventato Internet. Internet ci appartiene talmente poco che quelli che lo usano meglio sono quelli che ci vogliono morti, gli jihadisti. Quando invece i diritti universali mancano o vengono limitati in ragione di altro assistiamo al segno di qualcosa che si sgretola, che è proprio l’Occidente. Derubricare i diritti di tutti nuovamente a diritti di appartenenza ci fa cadere nella perdita di identità; quando perdiamo questa capacità di concepire l’uomo ci annulliamo in quanto civiltà.
Lei ha spesso lamentato il suo fallimento in qualità di giornalista per non essere riuscito a commuovere le persone su questioni decisive e tragiche. Come ben sa, però, un’analisi della società contemporanea è impossibile da compiersi senza tenere conto delle direttrici su cui si sta evolvendo. Parlo nello specifico del digitale, che ha un impatto sociale di cui si inizia a cogliere solo di recente la portata. Non ha mai pensato che invece che essere il giornalismo ad aver fallito la propria prova comunicativa sia invece la società, che sia una difficoltà in entrata piuttosto che in uscita? Nella società digitale, dove l’individuo è un isola e dove manca completamente il senso di comunità effettiva, come si fa a empatizzare con ciò che non appartiene alla propria striminzita camera dell’eco?
La sua analisi è certamente interessante, però personalmente parto dal principio di non spostare il discorso della responsabilità al di fuori di me. Mi interessano prima ancora che le constatazioni fatte da lei, le responsabilità della categoria a cui appartengo. Forse c’è anche un elemento in più, ossia che, in parallelo a quanto dice, a modificare la società ha contribuito la disgregazione di quelle istituzioni che svolgevano il lavoro di assembramento delle persone, tirandole fuori dal loro naturale individualismo, a prescindere da Internet. Mancando una serie di strumenti “tecnici” che riunivano le persone attorno a un’idea o un progetto, manca anche il confronto che porta alla formazione di un’identità collettiva, la quale nel passato generava scelte comuni, a loro volta traducibili spesso in scelte politiche. È altrettanto chiaro che non ci rivolgiamo più al pubblico a cui ci rivolgevamo trent’anni fa, ma non l’abbiamo capito, è colpa nostra che abbiamo perso il polso della società, e questo fatto è testimoniato dalla montagna di errori che i giornali fanno nelle loro previsioni, potrei scriverci un libro per quanti sono.
Lei ha detto che lo scopo del codice Minniti è rendere invisibili i migranti. Potrebbe approfondire questa idea?
Il problema politico dei migranti è che ci hanno fatto il “dispetto” di venire a farsi vedere. Secondo lei, un migrante che va dal Senegal all’Algeria avrebbe suscitato qualche interesse giornalistico? Su Internazionale ho letto una volta un pezzo sulle migrazioni di migliaia di persone dal Lesotho al Marocco, ma questa è la quintessenza di un giornalismo radical-chic e inefficiente perché letto da una decina di persone. Mi intenda, dal punto di vista dell’informazione del giornale di massa, questo non ha nessuna efficacia. E allora cos’è successo? Il migrante dispettoso è venuto qui a sconvolgere il nostro ordine ed è quello il problema. Minniti ha capito che dal punto di vista politico – e presumo sia l’unico che gli interessa dal momento che fa il Ministro degli Interni, mica il filosofo – la soluzione è quella di eliminare questo elemento di visibilità. Fatto ciò, ecco un successo politico magnifico da servire alle prossime elezioni: “Ho risolto il problema delle migrazioni”. Ed è vero! Ha risolto il problema della migrazione, nella dimensione però di come noi la concepiamo, cioè “il fastidio per la nostra vita”, poi, il problema vero resta irrisolto, ma questo non ci interessa più, neanche dal punto di vista del rimorso collettivo.
Quanto dice è valido anche a livello europeo?
Assolutamente sì. Guardi che i governi europei questo lo hanno capito in anticipo. La Francia, nel 2011, ha chiuso la frontiera con l’Italia, violando peraltro accordi di libera circolazione che lei stessa aveva proposto e firmato, perché ha capito che se i francesi non vedevano il problema, questo non esisteva, e ciò vale per tutti gli altri stati: Austria, Ungheria e anche per la Merkel. L’idea è, a livello generale, quello di drenarli, di farli scomparire. Ciò che resta irrisolto è il problema della visione politica, che dovrebbe essere attenzione ai bisogni dell’uomo, non merchandising di vantaggi e svantaggi.
Questa condotta a cosa porta?
Le conseguenze sono ovvie. La disintegrazione dell’ultima possibilità che ha l’Europa di presentarsi come soggetto politico internazionale dotato di una sua identità e un suo richiamo per i popoli di tutto il resto del mondo, la perdita del suo status di esempio, rifugio e alternativa ad altri mondi politici violenti e brutali. Poi in questo modo offriamo ai signori della guerra, ai profeti e agli apostoli del totalitarismo islamico universale, delle fanterie meravigliose e inesauribili. I migranti bloccati in Libia o in Niger dove crede che vadano, che ritornino alle ragioni da cui sono fuggiti o che trovino qualche profeta – perché quei mondi abbondano di profeti – che lo redarguirà per aver chiesto l’elemosina ai senza dio e gli fornirà le armi e le idee per conquistarsi il mondo che vuole, dove chi lo ha cacciato e dominato non esisterà più?
I totalitarismi islamici volgono i loro sforzi alla creazione di un mondo perfetto?
Ma certamente! La loro seduzione è quella, non vogliono certo creare un mondo in cui il PIL cresce dello 0,1 o in cui lavorare sei ore e mezza invece che sette. La loro idea è il mondo perfetto e immobile, che proprio perché perfetto è anche pietrificato, non esiste il concetto di perfezione evolutiva. Il paradiso non è evolve, non attraversa certo una fase liberista, una di welfare e via così. Il paradiso è il paradiso, cos’altro c’è da dire? Questa è la semplicità del messaggio che attrae, che è la loro arma segreta. I discorsi di Draghi da un lato, l’idea della creazione del paradiso sulla terra dall’altro. È ovvio che vai dall’altro lato, ci andrei anche io!
Il sociologo Oliver Roy, ha definito i giovani che si affiliano al terrorismo come animati da una volontà nichilista che governa i loro atti, sociali e militari, ideologici e particolari, che li rende votati alla distruzione senza edificazione. C’è un legame tra l’idea dell’Apocalisse e quanto detto?
Altroché. La costruzione del mondo nuovo passa sempre attraverso la distruzione di quello vecchio, non esiste un passaggio progressivo. Ma devo constatare che personaggi come Oliver Roy, con tutte le loro analisi, per quanto ammirevoli nello sforzo, hanno portato a ben pochi risultati nel concreto. Sa, sono i fatti, quello che accade, ciò che dimostra che la profondità delle analisi è corretta. Questa generazione di analisti del mondo islamico, riveriti dalle case editrici, che cosa ha visto? Niente. Per questo dovrebbe tacere e occuparsi di altre cose, che so, degli esquimesi o della scomparsa degli orsi. E badi che non ne faccio un discorso personale, sono i fatti ad aver sanguinosamente smentito tali previsioni. Io mi chiedo a questo punto di quali elementi si siano forniti per queste analisi, e me lo domando sul serio, non ne faccio un’accusa, vorrei sapere come hanno fatto a costruire queste teorie. Se vogliamo dirla tutta questo fantomatico nichilismo è la pars destruens che accompagna ogni sorta di rivoluzione, poiché questa si basa sull’annientamento del mondo marcio che la precede.
Torniamo ai migranti. Se renderli invisibili alimenta il radicalismo, lei cosa risponderebbe a chi critica qualunque tipo di apertura?
La soluzione è nel contrario di quanto viene fatto, cioè lasciare entrare il migrante in massa e lasciare che si disperda su una superficie gigantesca, concedendogli un mezzo tecnico, amministrativo o burocratico che gli permetta di muoversi lungo uno spazio enorme coincidente con il pianeta stesso; non costringerlo a stare all’interno di uno spazio dove il numero – anche se non mostruoso, perché poi i numeri non sono così apocalittici come vengono descritti – crea la possibilità di condannarne il fenomeno. Se si concede al migrante, come fu concesso ai profughi europei dopo la prima guerra mondiale, un documento fornito da un’autorità internazionale – all’epoca era la Società delle Nazioni, oggi dovrebbe essere l’ONU – che permetta al migrante di andare dove gli pare, dall’Alaska all’Africa, ci si accorgerà che alla fine, questa enorme massa critica di uomini, sarà talmente diluita nello spazio da risultare essa stessa invisibile.
Cosa pensa del ruolo della sinistra nell’affrontare tale problema?
Ciò che rimane della sinistra ha totalmente abdicato alla tutela dei diritti, anzi è spesso protagonista della menomazione degli stessi, messi in secondo piano rispetto ad altri ideali – si veda alla voce “efficienza”, “competitività”, “mondializzazione”. Mi pare che oggi sia proprio la sinistra il profeta della mondializzazione, che pensa di poter vendere le automobili a chi non ha nemmeno l’acqua corrente e la luce. Certo che poi, a confronto con una destra ottusa, che combatte ancora per principi di localismo, questa sinistra sembra anche nobile
Un pensiero sulla situazione del conflitto in Siria.
La Siria è entrata, come la Somalia, in un gorgo di guerra infinito. Gli attori sul territorio, USA, Russia, Bashar, sono diventati i soggetti di un teatrino, i burattini comandati, ormai, dalla guerra stessa, che si autoalimenta generando un ciclo infinito. La guerra in Siria durerà almeno altri quarant’anni senza incontrare una soluzione ed è entrata in questo circolo perché chi poteva ha deciso di non occuparsene, lasciando che il gioco si sviluppasse in autonomia. A mio parere nel 2011 era possibile intervenire, mescolando diplomazia e forza, per impedire l’irrompere dei movimenti islamisti in quello scenario, non dico una soluzione vera e propria, ma certo un buon accordo. Nel 2011 anche Putin avrebbe potuto accettare la sostituzione di Assad. Nel momento in cui gli Americani, gli Israeliani e le altre potenze hanno lasciato che la cosa divampasse in autonomia hanno liberato il terreno di gioco agli jihadisti e a quel punto è iniziato il meccanismo che rende impossibile oggi una chiusura del conflitto. Qualunque forma di soluzione oramai è impensabile. La spartizione dello Stato consegnerebbe ai sunniti un territorio indissolubilmente soggetto a forme ordinamento totalitario e nemmeno basterebbe. La grande astuzia politica dei movimenti jihadisti è stata quella di seminare veleni in questo periodo di permanenza nelle zone occupate in modo da creare le premesse per altre guerre e conflitti tra innumerevoli possibili attori della regione.
Al Festivaletteratura si è conclusa una ricognizione su alcuni termini possibili per creare un vocabolario europeo, che dia conto lessicalmente della complessa sfaccettatura dell’organismo Europa. Lei quale parola sceglierebbe?
Io parlo soltanto di cose che esistono, non di cose che non vedo.
Foto di Mattia Depalo