Al Rocablanca c’è un rumore che mi rilassa, i camerieri lasciano le birre e i vermut alla spina sull’angolo del bancone perché non servono ai tavoli, gli specchi riflettono l’arredamento rétro marmo e legno, alcune lavagne appuntano cosa si può smangiucchiare, e la televisione è accesa sullo sport anche stasera. Ho trovato posto con Manuel, un amico con gli zigomi spigolosi e gli occhi un po’ a palla, uno che inciampa e s’incanta sempre con la stessa faccia di pietra: picchietta col medio e l’anulare il bordo del suo bicchiere basso e largo col vino bianco, aspetta che i croquetones de gambas si raffreddino e comincia a parlarmi.
Non è che lui snobbi lo sviluppo di quello splendido saliscendi alle spezie che è Lavapiés o che sia insensibile al tepore secolare e alveare dei ladrillos de La Latina, e la grazia di Chueca lo affascina quanto lo attira l’orgoglioso Barrio de las Letras, ma fra tutti i quartieri di Madrid ha sempre scelto come seconda casa Malasaña. Dal 2012, tornando qui frequentemente per fermarsi mesi, ha cambiato qualche calle e qualche civico rimanendo sostanzialmente nel medesimo chilometro quadrato: sì, perché addirittura si è fissato con un quinto dell’intero quartiere, quello che ha come centro Calle de la Palma. In fondo tutti, che ci si trovi a Genova, a Nuova Delhi o a Città del Messico, tendiamo – sentenzia Manuel – a scavare il nostro cunicolo fra uno spigolo e un angolo di mondo, per starci, rendendolo confortevole con abitudini, buone ragioni e punti d’appoggio, sperando siano stabili e soffici.
Ha scoperto solo di recente che esattamente enfrente alla sua prima casa c’era l’epicentro della Movida madrileña, movimento della cultura marginale giovanile nato in reazione alla fine della pluridecennale dittatura franchista. Nel giugno del 1977 si trasferiscono al numero 14 di Calle de la Palma Juan Carrero ed Enrique Naya, due artisti che fanno coppia e dipingono insieme, che desiderano libertà e attenzioni e che trasformano il loro appartamento nel luogo di ritrovo, rifugio e laboratorio per le personalità più dinamiche e indimenticabili di quegli anni finesettanta-fineottanta: la giornalista Paloma Chamorro, il fotografo Pablo Pérez-Mínguez, il compositore Bernardo Bonezzi, il produttore Miguel Ángel Arenas detto “El Capi”, lo studente d’arte poi cantante Tino Casal, Fabio McNamara detto Funny e la giovanissima Olvido Gara, ribattezzata Alaska e “adottata” dalla pareja proprietaria di casa.
A questo punto Manuel aggiunge un decimo nome, Pedro Almodóvar, ed entra nel merito. Il regista manchego arriva nella capitale, fa di quei personaggi un campionario, di quegli spazi un set, della vita sregolata una sceneggiatura e della movida madrileña un manifesto sin dal suo esordio, quando prende l’allora minorenne Alaska (oggi un’icona della musica pop) e Carmen Maura (oramai l’attrice spagnola per eccellenza) e gira nel 1980 Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio che – il mio amico lo dice coi giornali dell’epoca – parla di un gruppo di squinternati pazzi per le sostanze musicosociologiche. Il cinema almodovariano è col tempo diventato – si licet che il mio amico stilizzi – meno descrittivo e sperimentale e più analitico e introspettivo, ma se qualcosa si è perso in termini di variopintura il vigore, invece, è rimasto simile. Manuel non ha dubbi: Almodóvar ha offerto, insieme al catalogo umano più sgargiante, la mappa migliore della Madrid degli ultimi quarant’anni, così insolente così ideale.
I flirt ficcanti, coi jeans stretti e in un modo o nell’altro efficaci che aprono Labirinto di passioni (1982) insieme alle bancarelle del Rastro e ai tavolini de La Bobia. Il convento drogadicto e divertentissimo de las Redentoras Humilladas, nascosto in Calle de Hortaleza e svelato da L’indiscreto fascino del peccato (1983). La strada notturna e rovente di Conde Duque dove un operatore comunale rinfresca con l’idrante l’irresistibile Maura de La legge del desiderio (1986) che è poi, in Donne sull’orlo di una crisi di nervi (1988), la Pepa dell’appartamento con terrazza e vista su tutta la città, inclusi gli edifici Metrópolis e Telefónica, che si trova fra il Paseo del Prado e il Parque de El Retiro.
Pare che Manuel parli a uno che sta a Madrid da appena mezz’oretta e che della città conosce solo la linea rosa della metro, quella che dall’aeroporto porta al centro. Mi racconta che il mercato del Rastro ha quattro secoli di vita e che il nome (in italiano traccia) deriva dal fatto che i lavoratori delle macellerie e delle concerie della zona intorno alla Ribera de Curtidores lasciassero una scia di sangue trasportando carni e pelli. Lui cerca da tempo qualcosa in particolare, ma passa le domeniche a comprare ropa vintage che deve rammendare e a fissare più che può i tipi che lo attraggono (senza, s’intende, togliersi gli occhiali da sole o lo sfizio di flirtare). Personaggi con ciuffi, guance e labbra fluorescenti e coperti di pelle nera lucida scintillavano, quasi quarant’anni fa, nel contrasto con le pareti bianco sporco del déhors della Bobia che oramai è una «neotaberna asturiana» immacolata, mentre il convento al numero 88 di Calle de Hortaleza è la sede sindacale dell’Unión General de Trabajadores.
Manuel ritorna al suo itinerario immaginario. Il locale Villa-Rosa di Plaza de Santa Ana, istoriato da azulejos, per così dire, flamencos e reso iconico dall’esibizione en travesti di Miguel Bosé nello stesso Tacchi a spillo (1991) in cui una disperata e invidiabilmente divina Marisa Paredes canta Piensa en mí nel Teatro María de Guerrero. La famosa Plaza Mayor ne Il fiore del mio segreto (1995) anch’essa notturna, insolitamente vuota, ebbra di alcool, amore non corrisposto e stanchezza. La altrettanto centrale Calle del Arenal in Carne trémula (1997), sberluccicante di brulichio addobbato a festa. Luoghi oggi “presi in ostaggio” dai turisti del tipo “paella&birra” verso i quali Manuel è imprevedibilmente indulgente: senza augurarsi per Plaza Mayor (mica per sé, che sta comodo seduto per terra in San Ildefonso) il ritorno delle corride e degli autodafé, s’accontenterebbe di qualche festival in più o di un paio d’artisti di strada migliori dei mimi immobili.
Borbotta ancora qualcosa e riprende la mappa. L’accademia dove ballava Alicia, in Parla con lei (2002), e poi molte altre vie del centro e numeri civici (Calle de Almagro 38 per antonomasia), un’infinità di ristoranti scintillanti o oscuri (dalla Taberna Alhambra a quella di Ángel Sierra), i grattacieli ipermoderni, la Plaza de los Cubos, Plaza del Callao vista dall’alto, la stazione-serra di Atocha, l’aeroporto di Barajas, l’ospedale Quirón, il cimitero della Almudena e il carcere di Yeserías, il Museo Chicote della confessione a base di gin tonic de Gli abbracci spezzati (2009) e La Corona de Espinas della crio-cruciale conferenza del chirurgo de La pelle che abito (2011), fino al Viadotto di Segovia che nell’immaginario collettivo cittadino è quello dei suicidi, come appare in Matador (1986) e soprattutto ne Gli amanti passeggeri (2013), a pasar delle pareti di vetro e di sicurezza che dovrebbero impedire il passaggio da una parte all’altra.
Manuel mi chiede se dà vertigini, qualche brivido, o fa venire i nervi un accumulo cinematografico, urbano e umano così, alla rinfusa e recitato d’un fiato, sovraccarico di luoghi, personaggi, titoli e date (almeno quelle) ordinate. Rispondo di sì, «bene» ribatte. Si alza, balza al banco per prendere un altro bicchiere di vino per lui e un altro vermut de grifo per me. In piedi, mentre aspetta la cameriera, mi schernisce sul fatto (da dimostrare) che io al suo posto avrei chiamato in causa, o tirato per la giacchetta, i poeti del Novecento (proprio io che avevo proposto d’incontrarci a quel Café Comercial fondato nel 1887, famoso per las tertulias literarias, rimasto chiuso per un paio d’anni e riaperto da qualche settimana).
Forse – mi pungola Manuel – Madrid la si può mappare meglio citando Antonio Machado o José Bergamin, osservatori dell’inquieta città di cui ci hanno finanche restituito le interiora, las entrañas che il primo trova piene di piombo e il secondo di moresche. La stessa città che è la cuna e il sepulcro della revuelta adolescencia di Blas de Otero e la tierra/cemento di Gloria Fuertes, la quale rivendicò «Yo soy una madrileña del montón», vale a dire del mucchio. E se quel solitario de Otero fu legato a Leganés, la Fuertes fu legatissima a Lavapiés, dove nacque da una sartina e da un portinaio, dove scoprì anche lei l’orrore della guerra (volle partire para pararla, scrisse in Autobiografía) e dove la si poteva incontrare spesso davanti a un televisore mentre seguiva le corride o nella Taberna de Antonio Sánchez a bere e picar olive.
Per illustrare Madrid – mi sfida Manuel – potrei usare io ulteriori immagini: il sorriso che mai annotta suggerito da Miguel Hernández, magari il cuore che batte febbrile suggerito, invece, da Rafael Alberti. Il mio amico insinua perfino che nel mio rapsodico repêchage potrebbe impigliarsi qualche verso sarcastico sulla famosa capital per il solo gusto di non ignorare il poeta spagnolo a me più caro, Jaime Gil de Biedma, che già inserendo come epigrafe alla poesia De aquí a la eternitad il motivetto della zarzuela La viejecita («Ya soy dichoso, ya soy feliz / porque triunfante llegué a Madrid, / llegué a Madrid») imprime al testo sulla sua entrata nella città, allo sbocco della Carretera de Barcelona, un andamento sbruffone seppur sensibile. Pensa di provocarmi ma desiste, la cameriera lo premia con il vino e il vermut per noi, Manuel si siede di nuovo difronte e riattacca col suo racconto, rassicurandomi subito che se si affida alla mappa tracciata proprio da Almodóvar c’è un motivo.
La Filmoteca Española ha organizzato di recente la rassegna Marzo Todo Almodovar e in un mese sono stati proiettati, nello storico e incantevole Cine Doré vicino ad Antón Martin, i venti lungometraggi della filmografia del regista: al partire dei titoli di coda, al riaccendersi delle luci in sala – confessa Manuel – stava lì seduto qualche secondo nel sillón, davanti allo schermo, frastornato e frustrato, in visibilio e soprattutto invidioso.
Lasciando il cinema, ogni sera dopo la proiezione, il mio amico tornava verso Malasaña continuando a camminare privo di una figlia a cui chiedere perdono, di ammiratori da affascinare, di amici da soccorre in una scorribanda, dell’impeccabile irregolarità di una Rossy de Palma, di una tenera telefonata con una vecchia madre à la Chus Lampreave, di un amore da dimenticare o davanti al quale rendersi ridicolo, soprattutto – esaurisce gli esempi – di un sogno più grande di un risveglio senza mal di gola.
I personaggi che ha visto sul grande schermo gli sono sembrati così simili a lui eppure nella realtà inimitabili. Manuel immagina di conquistare chi vuole, di cambiare il mondo, mentre tutte le sue intuizioni immediatamente scivolano nell’imbuto dell’inesperienza e dell’indolenza. Per un principio, per una persona, per una piccolezza – chiarisce – poco importa. Gli pare di essere quello, al mondo, con meno passato e meno palle; o è solo l’effetto che gli fa Madrid, grande esperienza ancora effervescente, o del visibilio e dell’invidia – ripete – che consegue il cinema di Almodóvar?
Il Rocablanca sta chiudendo, la saracinesca è a metà. La mappa che Almodóvar ha tracciato è dunque, sorretta da Manuel, una misera cosa di seconda mano, malconcia, malinconica? Cosa te ne fai di Madrid – chiedo abbassando la testa per uscire – se ti viene più facile dirla che farla tua? Il signore con la canottiera che s’intravede sotto la camicia tira giù la saracinesca che rulla con la risposta: «Parlarne».