Il poeta Faraj Bayrakdar nasce nel 1951 a Homs, in Siria. Nel 1987 viene incarcerato con l’accusa di essere un membro del Partito Comunista. Sono gli anni del regime di Hafiz-el-Hassad, padre dell’attuale presidente: dissidenza politica e libertà di pensiero costano care. Dopo sei anni di isolamento e torture, Faraj viene processato e condannato ai lavori forzati; le autorità lo rilasciano nel 2000, anche grazie alla crescente fama internazionale di “poeta recluso“. In cambio di uno sconto sulla pena è obbligato ad abbandonare la scena politica siriana.
Faraj è autore di svariati libri di poesia, insigniti di premi internazionali come l’International PEN Award – American Center West del 1999. L’unica raccolta edita in Italia è Il luogo stretto, tradotta da Elena Chiti e pubblicata da Nottetempo nel 2016.
La storia di Faraj ha qualcosa di epico: le lotte impari contro i carnefici e la tortura, il lunghissimo isolamento, i versi “letti” e “scritti” dentro di sé in mancanza di carta, e poi affidati anche alla memoria dei compagni. La poesia e l’immaginazione usate come strumenti per resistere a condizioni brutali e estreme. Concluso l’isolamento, Faraj scrive e trascrive su carte di sigaretta, poi nascoste dentro quadretti di legno regalati alla figlia. Usciti di prigione, i «fogli clandestini» vengono stampati a sua insaputa in Libano, e presto si diffondono nel circuito internazionale, portando il caso alla ribalta.
Abbiamo incontrato Faraj al Festival Letteratura di Mantova: ci hanno colpito i suoi modi misurati, la sua calma. La stessa che, in qualche modo, trasmettono i suoi versi, anche quelli più arrabbiati. Nonostante le sue parole documentino l’esperienza della reclusione, esse contengono qualcosa di diverso, di “sporgente”. I testi de Il luogo stretto – la prima delle raccolte scritte in cattività – mescolano molte voci, portano fuori, nutrono l’immaginazione. Denunciano con durezza la privazione della libertà, ci esortano a tenere «il cuore alto come un bersaglio».
La poesia de Il luogo stretto mi pare in equilibrio tra due spinte opposte: da un lato, evoca un mondo di simboli puri, di emblemi, di immagini tratte dalla tradizione della poesia araba; dall’altro, è aperta con forza sulla sua vicenda esistenziale, l’esperienza estrema del carcere. Come ha fatto a raggiungere tale equilibrio? Che cosa significa?
Durante la mia infanzia, fin da bambino, imparavo a memoria la poesia araba classica. A scuola prestavo molta attenzione all’arabo come materia di insegnamento. All’età di 12 anni ho cominciato a scrivere poesia, e a 16 a pubblicarla. All’università, poi, ho studiato arabo, letteratura araba classica e moderna. Tutto questo mi ha conferito un’attenzione particolare, una capacità di scrivere diversi tipi di poesia: classica, moderna o anche post-moderna.[1] Questa abilità è particolare, e non è assolutamente diffusa tra i poeti arabi.[2] Fin da giovane mi sono accorto che la poesia non è soltanto un piacere, ma anche un modo per farsi una cultura; possiede anche una funzione estetica: se è bella, aggiunge bellezza al mondo.
Tuttavia, durante e dopo il carcere il ruolo della poesia è diventato per me più importante. Ed è così che sono arrivato a costruire un equilibrio personale – di cui lei parlava – che in realtà è un equilibrio generale. La poesia mi ha permesso di raggiungere una grande libertà interiore, più grande delle prigioni in cui mi sono trovato, perché se il corpo può essere arrestato, confinato in un luogo stretto, la poesia, che è legata all’immaginazione, non può. Poi ho scoperto che la poesia mi portava l’attenzione del mondo, di alcuni governi, di alcune persone che hanno lanciato una campagna internazionale per liberarmi. I miei compagni di carcere mi dicevano “beato te, che sei un poeta e tutto il mondo si occupa di te…. Noi non abbiamo nessuno che ci ricordi…” Lì mi sono accorto che la poesia è veramente una grande amica.
Nelle poesie della raccolta ricorrono diverse immagini. Mi piacerebbe sapere qualcosa di più sul cavallo e il suo nitrito, e sulla parola “apice”, legata al concetto dell’elevazione.
L'”apice” è un concetto importante perché in carcere tutto è eccessivo, tutto è esagerato, tutto è “acuminato”, “acuto”. Nella vita normale uno può dire “sono triste”, e poi finirla lì… invece la tristezza in carcere è diversa. Il carcere è quasi il contrario della vita normale, perché prende tutto e toglie tutto, e quindi resta soltanto una specie di sommità delle cose, al più alto grado.
Per quanto riguarda il cavallo e il nitrito, i poeti arabi preislamici mettevano il cavallo dappertutto, in ognuna delle loro poesie, e lo usavano come mezzo per esprimere la loro umanità. Molti poeti erano anche cavalieri, e per loro il cavallo era un amico caro, sia in tempo di guerra sia in tempo di pace. Per loro sarebbe stato più accettabile perdere la casa, perdere tutto… ma non il cavallo, perché il cavallo permetteva loro di sopravvivere in battaglia. Ci parlavano, persino: c’è un grande poeta della tradizione leggendaria araba, Antara, nei cui versi si trova proprio questo aspetto.
Per riassumere, gli arabi preislamici facevano più attenzione al destino del loro cavallo che a loro stessi. Il nitrito, invece, può assumere molteplici significati diversi, anche contraddittori. Per esempio, se un poeta-cavaliere si lancia col suo cavallo all’attacco, il nitrito è indice di chiarezza, di coraggio e di forza. Invece, se in guerra sta perdendo, oppure sta soffrendo, il verso del cavallo è espresso con parole diverse, come l’equivalente arabo di gemito, oppure di ululato. Io, sotto tortura, pensavo la stessa cosa: se voglio gridare, ma gridare per non arrendermi, contro quello che mi sta succedendo, allora è un nitrito di coraggio, se invece grido perché non ce la faccio più, allora è un gemito, un ululato. Anche perché nel mondo arabo il cane non piace tanto, non lo rispettiamo tanto come in Europa. Invece il cavallo è un simbolo a cui si possono conferire significati umani.
Quale visione della femminilità emerge dalla sua raccolta? Anche in riferimento alla tradizione letteraria e culturale araba…
Tutte le culture prestano attenzione alla donna, in vari modi specifici: ad esempio, ci sono poeti che scrivono d’amore, che dedicano le loro composizioni alla propria amata. Non riuscirei a fare un confronto con la cultura in generale, perché la cultura dentro il carcere è completamente diversa. Devi pensare al carcere come a un’isola di soli uomini, dove cresce una nostalgia incredibile per la figura femminile. Questo puoi applicarlo anche al carcere femminile, in cui la nostalgia è rivolta alla figura maschile. Se devo ricordarmi come sono arrivato a pensare così spesso, così tanto alla donna… è perché in isolamento, sotto tortura, con il dolore che a volte era troppo, credevo che non ce l’avrei fatta più a sopportare, ad andare avanti. A volte, quando mi trasferivano in cella di isolamento, la mia immaginazione volava da sola, e si figurava una donna, non necessariamente una donna amata, il corpo femminile non è così importante quando sei sotto tortura. Poteva essere anche una donna infermiera, una donna che veniva a curare le ferite che la tortura mi aveva procurato. A volte la vedevo come una sorella, la vedevo in modi diversi da quelli con cui possiamo pensare alla donna nel mondo di fuori. Ad esempio la pensavo come un’ombra, un’ombra femminile, un’ombra di santità. E poi la voce… la voce femminile… avevo una nostalgia incredibile per la voce di una donna. Se posso riassumere in una frase, il carcere è un eccesso di virilità aggressiva, mentre la donna e la libertà sono la stessa cosa, posseggono entrambe una forma di pietà.
Pensa che la cultura e il lavoro degli scrittori e degli intellettuali possano contribuire a superare le enormi divisioni della Siria di oggi?
Credo che gli intellettuali possano giocare un ruolo strategico. Non adesso, perché adesso la voce delle armi è più alta della voce di qualsiasi intellettuale. Tuttavia, gli intellettuali hanno un compito, quello di leggere la realtà, di analizzarla, di fare propositi per il futuro. Quindi di dipingere, di tracciare il quadro: di comprendere, ad esempio, che cosa vuole lo Stato Islamico, che cosa vuole il regime… e soprattutto di spingere le persone a tenere la mente salda, cercando di allontanarle dalle armi.
Inoltre, la tragedia siriana non può più essere risolta dal regime o dai suoi oppositori: è diventata di scala mondiale. Quello che gli intellettuali potranno fare, dunque, è cercare di negoziare condizioni di resa più leggere per la Siria, com’è successo alla fine della Seconda Guerra Mondiale con la Germania e il Giappone, quando si sono arresi. All’inizio, poniamo il caso, verranno chieste alla Siria condizioni molto dure, ad esempio, un accordo di pace eterna con Israele. Nel caso, gli intellettuali potranno controbattere “negoziamo per 100 anni“. Oppure, la Russia che vorrà prendersi basi militari o porti per tre secoli… Gli intellettuali potranno rispondere: “no, 30 anni, poi vediamo”. Come è successo con la Germania: fare in modo che la Siria non sia esclusa dal concerto delle nazioni. Ma che possa negoziare, e dopo diventi come la Germania di oggi, nuovamente chiamata a partecipare alla risoluzione dei problemi del mondo.
Riportiamo di seguito due poesie tratte da Il luogo stretto:
A morte
Il trono della poesia è una rosa
che ferisce a morte il suo padrone
e lo soccorre
perché le dia la parola.
E lui se colpito ha davanti il cammino
fino all’apice della domanda:
lampo che squarcia la narrazione
aaaa aaaaaaaaae la tentazione
aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaae le ombre.
E lui ha tutta la profezia
dalla brace della visione
alla femmina delle nubi.
Carcere di Tadmor, 1991
*
Connivenze
C’è chi si nasconde dietro Dio
e Dio dietro di lui
solo noi teniamo
il cuore alto
come un bersaglio.
Carcere militare di Sednaia, 1995
*Riportiamo in nota alcuni commenti esplicativi di Elena Chiti, che ha curato la traduzione consecutiva durante l’intervista.
[1] poesia in versi liberi, N.d.T.
[2] Nella poesia araba, le regole metriche sono rimaste in auge fino agli anni Cinquanta-Sessanta: il verso libero è una conquista relativamente recente. Faraj dispone di un grande ventaglio di capacità espressive: riesce a scrivere poesie in rima – in uno stile simile a quello degli autori pre-islamici – ma anche in versi liberi.