È con raffinata astuzia che I pensieri di Braciola dissimula la propria pericolosità e l’arditezza della sfida che lancia al lettore: spavaldamente esigente, ci chiede di pensare come Braciola; piacevolmente contagioso, fa rinunciare volentieri a resistenze e anticorpi. Non esiste materiale più insidioso della sostanza protagonista dei pensieri dei quali Braciola è il tramite: si tratta infatti di riflessioni sulle contraddizioni dell’esistenza umana. Senza che possiamo opporre valide resistenze, una volta esposti alle contraddizioni che ci rendono umani, i dubbi che da queste si irradiano estendono i loro effetti nello spazio e nel tempo come la radioattività, e così funziona il testo stesso: inavvertitamente, nel bel mezzo di un pensiero, sono sufficienti il passaggio alla prima persona singolare o un discorso indiretto libero per diventare a propria volta (un) Braciola. In tale meccanismo di adozione inconscia e coatta della logica bracioliana risiede una delle qualità più intriganti dell’ultimo libro, divertente e spaesante, musicale e intelligente, di Aldo Gianolio.
La seduzione giocosa messa in atto dalla scrittura prende avvio nel paratesto: la presentazione, firmata dall’esperto patafisico Afro Somenzari, è una dichiarazione di poetica che tratteggia il mare logico sul quale i pensieri di Braciola prendono il largo. A regolare le maree di quest’oceano è un principio di confusività che va contro il senso comune: «se si confondono le acque è meglio», si premura di ripetere l’allievo di Jarry, suggerendo la chiave – non di lettura, si badi, ma musicale – con la quale è stata eseguita e va accolta quella «fresca accozzaglia di teorie che fanno sorridere, ma per poco» che sono i pensieri confidati dal personaggio-Braciola, guru disincantato, al personaggio-Gianolio. La chiave del riso patafisico e della logica di Braciola è la contraddizione, quel genere di contraddizione che rappresenta sia i muri sia il gomitolo nel labirinto dell’esistenza, a cospetto del quale «c’è poco altro da fare se non imboccare il tunnel beffardo tappezzato di canzonature per uscirne dall’altra parte con l’eleganza del bastian contrario».
L’attitudine oppositiva incarnata dal ‘tipo’ Braciola – novello principe Amleto al cospetto di una serie potenzialmente infinita di compiacenti Polonio, di tutti coloro che si sono asserviti agli dèi delle convenzioni e degli automatismi (linguistici, culturali, ecc) – ha il pregio di non rappresentare un tentativo di sciogliere i paradossi, ma anzi una strategia per non smettere di esporsi alla loro carica destabilizzante, di non chiudere gli occhi di fronte al fulgore insostenibile della loro verità.
Il popolino li chiama bastian contrario. Gli psichiatri li chiamano oppositivi. Il mio amico Braciola, che non aveva mai fumato in vita sua, aveva cominciato quando su tutti i pacchetti delle sigarette avevano messo la scritta a caratteri cubitali, ancor più grande rispetto alla marca delle sigarette: il fumo uccide.
Di natura oppositiva, spesso chiastica, sono pertanto non solo i contenuti, ma anche la forma e la struttura della maggior parte dei pensieri, che invitano a essere letti a coppie, come i seguenti:
Braciola mi aveva raccontato che il guardiacaccia Giorgio Bracco andava a pesca di frodo, poi buttava tutto, cavedani, pesci gatto e carpe, perché non gli piaceva il pesce.
Braciola mi aveva raccontato che il guardiapesca Carlo Esca andava a caccia di frodo, poi buttava tutto, fagiani, beccacce e lepri, perché era vegetariano.
In linea con il miglior metodo patafisico, nei Pensieri di Braciola il gusto surrealista per il controsenso non è gratuito né fine a se stesso; tale attitudine permette anzi di osservare e di nominare alcune verità sull’uomo che gli strumenti della scienza e della logica tradizionali non possono cogliere:
il riso patafisico è la coscienza viva di una dualità assurda che salta agli occhi; in questo senso è la sola espressione umana della identità dei contrari (e, cosa degna di nota, ne è espressione in una lingua universale); o meglio, significa lo slancio a testa bassa del soggetto verso l’oggetto opposto e nello stesso tempo la sottomissione di questo d’amore a una legge inconcepibile e duramente sentita, che mi impedisce di realizzarmi immediatamente totale, alla legge del divenire secondo la quale giustamente si genera il riso nel suo cammino dialettico:
sono Universale, scoppio;
sono Particolare, mi contraggo;
divento l’Universale, rido.
E il divenire a sua volta appare come la forma più palpabile dell’assurdo e di nuovo recalcitro davanti ad essa urlando un nuovo scoppio di risa, e senza fine su questo ritmo dialettico, che è uguale all’ansimare del riso nel torace, rido per sempre e questo ruzzolare di scale non finisce più, perché sono i miei singhiozzi, i miei singulti che si perpetuano in un urtarsi reciproco: il riso del patafisico è anche, profondo e sordomuto o in superficie e lacerante, la sola espressione umana della disperazione.
Il riso che sorge scorrendo i pensieri di Braciola è genuinamente patafisico nella misura in cui denuncia coraggiosamente l’assurdità, ogni assurdità, specialmente quella che si rinviene nell’imposizione della rigida coincidenza a una realtà che, nella prospettiva dell’esperienza umana, si mostra a ogni istante instabile e indeterminata – di una realtà che arbitrariamente viene fatta coincidere con i fatti, con l’effettualità, anziché con la possibilità, precludendo i sentieri che portano alle possibilità più alte, quelle necessarie, responsabili della bellezza dell’arte e del senso di una vita:
e se il riso spesso scuote le membra di noi patafisici, è il riso terribile davanti all’evidenza che ogni cosa è precisamente (e secondo quale arbitrio!) tale quale è e non è altrimenti, che io sono senza essere tutto, che ciò è grottesco e che ogni esistenza definita è uno scandalo. [1]
Indicativi, a questo proposito, sono sia i pensieri che riferiscono le contraddizioni degli esperti – perlopiù medici, detentori di un sapere scientifico la cui verità è legata a doppio filo all’universalità (ne ambisce e dipende) – che cambiano opinione con una leggerezza inversamente proporzionale alla rilevanza della questione per la vita delle persone comuni e inesperte alla ricerca di risposte particolari ai loro singoli casi, sia le contraddizioni di Sibillo, che parla per modi di dire antitetici:
Fra questi continui ravvedimenti degli esperti, aveva commentato Braciola, sto aspettando con ansia la rivalutazione del burro. Secondo me arriva presto.
Un’amica di Braciola aveva smesso di fare yoga perché lo yoga le metteva ansia e non la faceva dormire la notte.
Sembra intuire e suggerirci Braciola che la verità non può che avere un’essenza sempre prospettica oppure lapalissiana:
In ufficio quella mattina Braciola l’avevano messo allo sportello aperto al pubblico. Si era presentata una donna
stupenda,
sorprendente,
splendida,
abbagliante,
magnifica,
favolosa,
risplendente,
incantevole,
sbalorditiva,
seducente,
magica,
fantastica,
straordinaria,
imperiale.Braciola un po’ tremolante, balbettando, l’aveva servita incantato, mezzo imbambolato e sudando per l’emozione.
Dopo che la donna se n’era andata, ondeggiando sui tacchi a spillo, Braciola, voltandosi indietro, aveva guardato il collega Sordone e gli aveva detto serio: Penso di avere un debole per la bella figa.
È muovendosi in uno spazio dominato dalla costante tensione fra lo stereotipo e l’originalità – fra le lezioni dei predecessori illustri Bouvard e Pécuchet e Pascal – che i pensieri di Braciola dischiudono prospettive inedite: è così che il lettore incappa nei paradossi di clichés sorprendenti e di novità ritrite, frutti ibridi e assurdi (cioè impossibili eppure reali, più che mai tangibili quanto meno possibili) della combinazione fra le figure dell’opposizione e della ripetizione. Senza sorvolare sul piacere di gustare la sorpresa data dalla libertà di leggere una pagina a caso, come fosse l’I Ching, e trovarvi un sorriso, una barzelletta, una burla, una delicata dimostrazione di umanità, una lunghissima descrizione del Po («Pensava al Po, immoto e grigio come freddo acciaio, fermo in silenzio nonostante i turbinii di corrente; e pensava alla campagna, pure essa silenziosa e immobile, che sembra un vasto fiume verde con riverberi viola e rosati, ingrigita dalla nebbia, anche quando la nebbia non c’è, perché ne rimane l’impronta), una rivelazione sull’importanza della sonorità, dei nomi di paesi, delle campane («al suono delle campane i demoni che vagolano per l’aria fuggono e si disperdono»). L’I Ching di Braciola non delude mai.
In che modo, attraverso quali strategie si può tentare di gestire la mutevolezza dell’esistente? Che cosa garantisce un riparo dall’insensatezza? Dobbiamo abdicare alla ricerca del senso e pensarci capaci soltanto di interpretazioni sempre inficiate da un eccesso o da un difetto drastico di flessibilità, atteggiamento mentale questo che è facile da notare e deridere negli altri ma non altrettanto in noi stessi:
Mentre girava per il mercato di frutta e verdura, Braciola aveva incontrato uno sconosciuto che gli aveva detto: Ciao Carburo! ma come sei cambiato! sei dimagrito, e ti sei fatto crescere la barba!
Guarda che io sono Braciola, non Carburo.
Carburo! ma hai cambiato anche il nome?
Non è forse preda anche Braciola di un peculiare “imbarazzo interpretativo” ogni volta che istituisce un legame diretto fra il dimagrimento e la crescita della barba? Eppure, la sua logica sfilacciata, ai limiti dell’irrazionale, non ha un effetto meno ‘vero’, meno pertinente rispetto alla realtà, così come la percepiamo.
Le contraddizioni assumono tante forme quanti sono i contesti nei quali affiorano e ciò permette di rubricare ogni pensiero sotto un’etichetta precisa: questo esercizio diventa spontaneo durante la lettura e consente di registrare l’avvicendarsi dei pensieri secondo un ritmo sempre diverso, sincopato. Si incontrano, così, i pensieri che vertono sui motivi comici per eccellenza, quali il cibo, gli escrementi e il sesso, espressioni delle pulsioni di vita:
Braciola pensava: Sarei vegetariano anch’io, se non ci fossero il prosciutto, il salame e la mortadella.
Braciola pensava: Una volta friggevamo il gnocco in casa e avevamo il cesso fuori nel cortile; oggi, con il progresso dei tempi moderni, abbiamo portato il cesso in casa e, a friggere, andiamo fuori in cortile.
Ricordati! (aveva detto Palladio a Braciola), con le donne, sempre in piedi. E dopo, quando si è fatto tutto, cinquanta centesimi.
A questi fanno da controcanto i pensieri che evidenziano la fragilità del soggetto umano: che si tratti di pensieri apocalittici incentrati sull’inermità al cospetto dei cambiamenti climatici globali («Braciola pensava: Ai primi segni della fine del mondo causati dai cambiamenti climatici globali, diventeranno finalmente interessanti le conversazioni sul tempo che fa.») o che in questione sia il problema del sosia, capace di minare il postulato dell’unicità del soggetto suggerendo una dipendenza degli stati di cose dai nomi (anche nel caso di un soprannome, classificabile a mezza strada fra il proprio e il comune) e non viceversa – non nomina sunt consequentia rerum, quindi, ma nomen omen –, la carica distruttiva e autodistruttiva di Thanatos ne esce egualmente sbeffeggiata. Diamo uno sguardo sull’abisso e, grazie a una risata, ci tratteniamo dal tuffarci e perderci.
Si badi che non ridiamo mai di Braciola, ma con lui, grazie e tramite lui: da parte del lettore prevale decisamente l’ammirazione nei suoi confronti, come quando si incontrano la teoria per cui la crudeltà verso i pesci, anche da parte dei vegetariani, è dovuta al loro mutismo e ci si trova a condividere i pensieri anticonformistici sull’estetica della letteratura e della musica. Braciola si esprime spesso sui diversi significati che può assumere la pratica della copiatura, sul confine sottile che separa questa dal plagio, sulle pretese autoriali di originalità, sulla “genealogia” e sulla decostruzione dell’atto delle scrittura al tempo delle democraticissime tecnologie digitali, sulla diffidenza verso lo scrivere “oscuro”, sull’insofferenza verso il cattivo gusto contemporaneo che lo stimola a farsi pittore e scrittore a propria volta, ecc.
I pensieri, veri e propri motivi in senso musicale, tornano con variazioni sul tema, ampliamenti, ritmi e passi diversi la cui musicalità generale costituisce a un tempo la coesione e il dinamismo dell’opera, legando coerentemente le reti di senso che si snodano sulla superficie di questa. I pensieri di Braciola è un’opera che teme soltanto un elemento: il vuoto, il silenzio. Lo spazio bianco fra un pensiero e l’altro viene perciò cancellato, riempito da un basso continuo, ostinato, combinazione del rumore della masticazione (lo sbattere della bocca, delle mandibole impegnate nella costante ruminazione di uno gnocco fritto con mortadella accompagnato dal lambrusco) con lo schiocco delle palle da biliardo che si urtano (Braciola è virtuoso del biliardo, nulla di più certo dello schiocco che accompagna il tocco, che attesta che l’effetto ha seguìto la causa, che le leggi della natura sono rispettate come nella successione di lampo e tuono), con lo sfregarsi delle mani dei commercianti che alimentano la sfiducia di Braciola nell’onestà in ogni rapporto basato sul dare-avere e con le melodie delle campane, melodie “parlanti”, ognuna col proprio significato.
I tempi del ‘racconto’ (i pensieri si aprono in un tempo t0 imprecisato e terminano con la morte di Braciola) e della riflessione vengono estesi infinitamente – ingigantiti rabelaisianamente – oltre i limiti del testo anche per mezzo di altri due stratagemmi/espedienti narrativi ben calibrati:
- è il tempo imperfetto a introdurre i pensieri di Braciola, tempo dell’incompiutezza, dei pensieri in fieri, che unito a un uso strategico del condizionale passato ha l’effetto di proiettare in un tempo indefinito, aperto anche al futuro, gli aneddoti raccontati;
- il ricorso ai soprannomi per designare ogni personaggio (Scheggia, Sordone, Palladio, Trivella, Rimorchio, Cicoria, ecc) sortisce un effetto al contempo de-realizzante e iper-realizzante: potrebbe avere quel soprannome qualunque individuo si conformasse a determinate qualità;
- la consapevolezza del nostro debito verso il linguaggio, verso il Simbolico, la parola dell’Altro nella quale in varia misura tutti siamo iscritti fin da prima della nascita:
Quel giorno, che c’era un bel sole di primavera e gli uccellini cinguettavano sui rami degli alberi in fiore, mentre camminava per la strada fischiettando tutto contento, Braciola, soprappensiero, aveva detto sospirando: Mah!
Subito aveva pensato alla nonna Gelsomina, che diceva sempre: Chi dice mah! cuor contento non ha.
E allora Braciola da contento era diventato scontento.
Attraversando i pensieri ricorrenti e sempre mutevoli, le convinzioni, le manie, le superstizioni e i pessimismi elevati a leggi di natura, diventiamo intimi di Braciola, ne ricostruiamo le relazioni e la biografia, ma soprattutto familiarizziamo con la sua logica: ci scopriamo a sorridere nell’osservare i suoi anni passati e quelli ancora a venire visualizzati sotto forma di righe sovrapposte fatte di quindici trattini ciascuna, e anche lasciandolo sorridiamo – «Braciola era destinato a morire in salute» –, perché senza vergogna sentiamo che la paura di esserci inoltrati nella mente di un altro individuo, a contatto diretto con i suoi desideri, è stata ripagata e di Braciola ne vorremmo ancora e ancora. E, in fondo, sempre potremo trovare occorrenze di Braciola, a cominciare dall’istanza che in noi stessi è in grado di prendere le distanze e smontare le illusioni d’onnipotenza e le vane pretese dell’Io. In qualità di nostro doppelgänger letterario, Braciola si presta catarticamente a mostrarci uno dei nostri destini qualora decidessimo di confrontarci patafisicamente con l’assurdo quotidiano. Braciola incarna la sfida alla rigidità più ridicola e meschina così come può sferrarla il miglior discorso comico, cioè con le armi fornite dalla stessa contraddizione che scatena sia il riso sia l’angoscia:
Caro mio, mi diceva sconsolato Braciola nel piazzale della sede dell’azienda (io poi sarei andato alla mensa e lui al suo solito raduno settimanale con il Gruppo Volontari Campanari Manecchia): dato che sono contro l’Unione Europea e soprattutto contro la moneta unica, contro questo stramaledetto euro, mi danno del fascista, perché chi protesta contro l’Unione Europea e la moneta unica è la gente di destra, dicono. Ma andate a quel paese, vacca boia, io non sono per niente fascista; è invece il vostro modo di ragionare che è sbagliato, e anche pericoloso: come potete credere davvero che chi la pensa su di una determinata cosa alla stessa maniera di un fascista, sia fascista anche lui? Allora, vi chiedo, secondo il vostro ragionamento, dato che mi piacciono le donne, sarei fascista perché le donne piacevano anche a Mussolini? che a sentire lui ne chiavava una tutti i giorni?
Il modo di pensare di Braciola è quello della ragione comica, quella ragione che sa esprimere la logica paradossale, l’intelligenza e la bellezza delle contraddizioni dell’esperienza umana senza temere di cadere in un circolo:
I kamikaze, i famosi piloti suicidi giapponesi, erano proprio dei cagasotto: Braciola aveva letto sul giornale che uno scienziato tedesco aveva scoperto che, appena un po’ prima dell’impatto del loro aereo imbottito di esplosivo contro la nave nemica, chiudevano gli occhi.
Virtuoso è il circolo che mantiene il pensiero e il soggetto umano flessibili, creativi; viziosa è la rigidità degli automatismi e delle convenzioni – le idee ricevute e sedimentate – che impigriscono la facoltà critica e che rendono ciechi agli errori di ragionamento. “Non ci sono mostri peggiori di quelli generati dal sonno della ragion comica”, sembra dire a ogni occasione Braciola, “non sottovalutate i pericoli della rigidità di una logica monolitica e monostilistica, non abbassate la guardia di fronte alle forme che assume il pensiero, perché sono inscindibili dal loro contenuto e dalle modalità di fruizione di questo che suggeriscono”. E poco importa se la forma e i contenuti scelti da Braciola sono teratologici e quanto di meno politically correct si possa immaginare:
Braciola pensava: Dietro ogni angolo c’è un Mengele sotto mentite spoglie.
Braciola aveva pensato: Non ho niente contro i finocchi, ma proprio non li capisco. Le donne sono infinitamente più belle degli uomini. Non c’è neanche da mettere.
Come scienza, la patafisica dei pensieri di Braciola si rivela come l’antitesi della scienza tradizionale, come conoscenza del particolare e dell’irriducibile, che ha come obbiettivo lo studio– impossibile, paradossale – delle leggi che reggono le eccezioni: il procedimento eminentemente patafisico è quello della riduzione all’assurdo, capace di disegnare il circolo vizioso della scienza sfuggendogli al contempo. In questo senso, il ragionamento patafisico-bracioliano ha carattere umoristico, eppure – o meglio, proprio per questo – mostra un senso e una verità che altrimenti resterebbero nascosti:
la realtà del pensiero si muove attraverso una catena di assurdità, essendo questo conforme al grande principio che ogni evidenza si veste d’assurdo, sua sola maniera di apparire. Da cui l’aspetto umoristico del ragionamento patafisico, che all’inizio sembra grottesco, poi, a guardarlo più da vicino, contiene un senso nascosto, poi a un nuovo esame, decisamente grottesco, poi di nuovo più profondamente vero, e così via, crescendo e rafforzandosi senza fine l’evidenza ed il ridicolo della proposizione.[2]
Nessuno dei due aspetti prevale definitivamente sull’altro, anzi, la loro relazione innesca un movimento infinito grazie al quale senso e assurdo, come correlativi, si rafforzano a vicenda: l’identità dei contrari della quale il riso patafisico è espressione custodisce e rivela la possibilità di pensare l’assurdo che si rinviene nei paradossi. L’esistenza di questo genere di riso – del quale I pensieri di Braciola è testimonianza ed eccellente banco di prova – mostra precisamente che è uno spazio paradossale quello che i sensi e le verità che riguardano la natura degli uomini abitano e che negare senso e verità al paradosso significa precludersi la strada (maestra) verso la comprensione dell’umano.
Aldo Gianolio, I pensieri di Braciola, Robin, Torino 2017, pp. 162
[1]I corsivi nel testo riportato sono nostri. R. Daumal, La patafisica e la rivelazione del riso, (1929), trad. it. di C. Rugafiori, in Il “Grand Jeu”, Adelphi, Milano 1967.
[2] Ibidem.