Si rinnova la collaborazione tra La Balena Bianca e Belleville – La scuola, dopo il successo delle due edizioni di Laventicinquesimaora. Pubblichiamo oggi il racconto vincitore di Inchiostro su tela, il primo concorso di racconti promosso da Typee, la comunità di scrittura e lettura di Belleville: Parigi 1933 di Valentina Bartalesi. Gli altri due testi finalisti sono Intonaco di Marco Vinz Pinnavaia e La strada estranea di Tella. I racconti sono ispirati al celebre quadro di Baltus, La strada.
ANAÏS
Parigi, 1933, rue Bourbon-Le-Chateau. Un tramestio insolito scuote l’aria, mi sollevo sulle punte e sbircio dalla persiana socchiusa. Ah, quasi dimenticavo, vi starete chiedendo chi può essere così insolente o balordo da ninnarsi da solo a voce alta, come se nulla fosse: mi chiamo Anaïs Moreau e compio ottant’anni il prossimo novembre; ho venduto per una vita libri di seconda mano laggiù, nel bugigattolo all’angolo, conoscendo in modo insolito e perfetto come funziona il mondo là fuori.
Quante giornate uggiose trascorse abbarbicata su quel vecchio sgabello sghembo leggendo, rileggendo, soppesando e sorridendo delle meraviglie che l’uomo genera scrivendo racconti. Ancora oggi mi viene naturale riempire i pomeriggi di settembre immaginando storie possibili, seguendo silenziosamente con lo sguardo e con la punta dell’indice sinistro quanto accade sugli usci, sui balconi e in quel microcosmo infernale che è la rue, una qualsiasi rue, aggiungo. Cependant. Oggi sta per sopraggiungere qualcosa di particolare, avverto nell’aria un sentore di oppressione che mi pungola il cuore. Suggestioni e sensazioni da feroce lettrice, cose non dimostrabili scientificamente.
Pardon, mi sono interrotta alla persiana socchiusa: dunque immaginate che, a quel punto, sollevandomi leggermente al di sopra del davanzale, mi si sia svelata dinnanzi agli occhi una situazione animata da quel tipico brusio confuso che distingua la domenica mattina nel cuore di Parigi da tutte le altre domeniche. Lasciando lo sguardo scivolare sul paesaggio a volo d’uccello noto per primo Henri, il proprietario della brasserie al piano terra, che attraversa la strada brandendo un pannello di legno controllato a vista da Sebastien, lo chef del medesimo posto. Henry e Sebastien battibeccano e si riappacificano da quando esiste il mondo e puntualmente, ogni settembre, cambiano le assi della saletta di servizio, quella nel retrobottega. È un rito che si consuma ogni anno inesorabilmente uguale a se stesso, al cospetto degli abitanti della rue che la sera, puntualmente, giungeranno a gustarsi un piatto caldo nel salone all’interno.
Poco vicino una bimba insegue zelante una pallina e… proprio sul più bello, proprio mentre l’ammiro divertita chiedendomi se riuscirà finalmente a catturare la preda, la mia attenzione viene catturata da un’immagine orribile. In posizione un po’ defilata, un uomo sulla trentina importuna una giovane donna, strattonandola e impedendole di proseguire oltre; lei si dimena, protende decisa gambe e braccia per sfuggire all’aguzzino, lo sguardo abbassato colmo di terrore e disgusto.
Tutt’intorno due donne che vedo di spalle paiono non accorgersi di quanto sta succedendo e continuano la loro marcia inarrestabile; il padre dell’infante scruta dritto davanti a sè, forse si è accorto che qualcosa non torna, forse è troppo perso nei suoi pensieri per ricordarsi di chi è e di dove si trova. Henri e Sebastien continuano imperterriti nelle loro operazioni di manutenzione, un uomo qualche metro più avanti sembra aver notato qualcosa, apre la porta inclinando leggermente la testa, ma davvero avrà coscienza di quanto sta accadendo? A quel punto inizio ad urlare e a dimenarmi per come posso, non c’è tempo e sono al quarto piano, qualcuno dovrebbe sentirmi, basterebbe anche solo che uno dei passanti si accorgesse della mia presenza per fermare lo scempio… ma nessuno pare udirmi, e la voce flebile e sommossa di un’ottante francese viene presto fagocitata della città che si rimette lentamente in moto. È la prima volta che provo una tale sensazione di paura e frustrazione: continuo ad agitare le braccia, boccheggio, strepito. Qualcuno si accorgerà della mia richiesta di aiuto.
NADINE
Parigi, 1933, rue Bourbon-Le-Chateau. Per coloro che dal Midi sbarcano a Parigi l’emozione è sempre incontenibile: l’aria satura e brumosa, il profumo di foglie bagnate e di pane appena sfornato, quel sospetto bellissimo che il cielo stia da un momento all’altro per colare tutto sopra le teste dei parigini, raffreddando l’aria e avvolgendo la città in una morsa autunnale tutta lacrime e dolcezze. La luce d’ambrosia della domenica mattina colora gli edifici di una luce calda e ospitale, invitando i passanti a soggiornare all’interno.
Sto per imboccare Parigi, 1933, rue Bourbon-Le-Chateau per recarmi in visita da mia nonna, la dolce Anaïs. Penso a quando la nonna giungeva da Parigi nella calda Arles, trascinando dietro di sé quella pesante valigia che scoppiava di sogni e di libri per bambini, decorati con immagini magiche e preziose. Ricordo come Anaïs mi reggesse sulle ginocchia e si appassionasse febbrilmente, quasi fosse anche lei bambina, ad immaginare, scrutando i personaggi rappresentati, storie possibili. Ora sorrido, sento il cuore stringersi ripensando a quanti anni sono trascorsi dall’ultima volta in cui la vidi dietro al bancone, circondata da pile di libri ammucchiati in ogni maniera.
Arrivo nella Rue e la riconosco identica a sé stessa, proprio come qualche anno fa: vedo in lontananza gli osti Sebastien e Henri indaffarati e litiganti come da tradizione; certo, Sebastien è divenuto più tondo, ma sembrano sempre in gamba. Mi avvicino sempre di più, immergendomi nel lieto fermento domenicale, quando un leggero trambusto indirizza il mio sguardo sulla sinistra: una giovane donna sta venendo pesantemente importunata da un uomo. Sento che il respiro si esaurisce all’improvviso nel petto, il corpo e le membra mi si irrigidiscono, per qualche istante, sono percorsa da un brivido gelido. Sento in lontananza delle urla, quasi un sussurro, con capisco da dove provengano…
Tutt’intorno pare che nessuno si sia accorto o abbia voluto accorgersi della violenza che si sta perpetuando, lì, a pochi passi di distanza. Donne strette in abiti di esemplare lavorazione rimangono sorde ai lamenti di un’altra donna, troppo decise a non intromettersi, a non sporcarsi le mani, a dedicarsi ai loro problemi, che sono molteplici e complicati, diranno poi. Sono esterrefatta. Inerte e vacillante, fisso negli occhi lo spettacolo orribile di un mondo che ha perso la bussola, che si è dimenticato quel briciolo di umanità faticosamente spremuta da millenni di storia in qualche galassia sperduta.
Ma non c’è tempo, con le gambe poco salde sul terreno mi avvento contro di lui, urlo, cerco di staccare quelle mani disgustose dal corpo di lei. È una lotta cieca per la sopravvivenza, non so nemmeno io esattamente come riesco a muovermi, ma continuo. Il frastuono generale finalmente attira l’attenzione delle persone attorno a noi che, forse oramai obbligate, corrono in nostro soccorso: vedo volti e mani, sento qualche parole di conforto e qualcuno probabilmente sta portando lontano la giovane. Solo ora, ansante, con la schiena incurvata e le mani sulle ginocchia, posso sollevare lo sguardo in cerca dell’autore di quel debole aiuto, e vedo alla finestra lei, la dolce Anaïs, affaticata quanto me: mi sorride piano, è tutto finito.