Nella prefazione al suo libro d’esordio Questo spazio può essere nostro (Lietocolle 2011), Giancarlo Pontiggia diagnosticava all’io poetante un “senso di inappartenenza” che lo faceva “spaesato, come in un esilio definitivo”. Nel titolo di quella silloge – rubato al linguaggio della pubblicità – era già la reazione programmatica di Cornali allo spaesamento congenito della sua generazione: la rivendicazione del territorio, ricerca delle coordinate cui ancorare un’ipotesi di vita. Per Cornali, poeta d’indole riflessiva e sentimentale, la rivendicazione non è aggressiva; passa piuttosto per una amorosa e nervosa familiarità con i luoghi e i loro abitanti. Soprattutto, con la loro storia. Non stupisce, in un poeta di formazione classica e docente di latino, la forte tensione verso il passato; quella di Cornali non è però meramente erudita, poiché a essa si aggiunge un orecchio allenato per cogliere “la voce sommessa della [s]ua terra / l’ultrasuono”. Nelle migliori poesie di Cornali, infatti, prende corpo un’archeologia affettiva che procede per bagliori e sovrapposizioni grazie a una “ciclicità, simultaneità, reversibilità che fanno precipitare il passato nel presente o, più spesso, il presente nel passato” – cito dalla nota introduttiva di Niccolò Scaffai a Camera dei confini, che al riguardo dice pressoché tutto l’essenziale, rilevando bene come in Cornali la dimensione diacronica sia legata a quella geografica (“tempo fatto territorio”), e come il suo scavo abbia la funzione salvifica di recuperare il “residuo che riemerge dal fondo”.
Questa poetica spiccava già nettamente in un pugno di testi centrali di Questo spazio…, tra i più forti e caratteristici della raccolta. Così la protagonista di ‘Sostrato celtico’ “sente la terra / tremare / sotto il passo di marcia delle legioni” che si rivela nient’altro che “il rumore / dei camion / sulla statale 235”. Altrove Cornali sfruttava l’insospettabile talento della geografia lombarda per la repentina trasfigurazione in luoghi esotici, fiabeschi, o oceanici (come se questa soffocante, spesso anonima piana alluvionale rivendicasse la sua natura di antico fondale marino). In ‘Mietitrebbie’ la visione della “pianura padana / di nuovo sommersa dal mare” prendeva tinte elegiache e sognanti più che apocalittiche. Ma anche senza attendere il diluvio, ‘Guidando di notte nella bassa padana’ il “brillare lontano” del faro si confonde con “due occhi / di cetaceo” precipitando “dentro il gelido abbraccio / dei mostri marini”. È una poetica cui non mancano precedenti più o meno illustri. Ricordiamo tutti che Sereni vedeva dalla Cisa “nella piana assetata il palpito di un lago / fare di Mantova una Tenochtitlán”. Più di recente un altro poeta tenacemente epicorico e stratigrafico come Massimo Bocchiola cercava “alghe, abissi, groppe nere di pesci” nella Bassa pavese.
Ora Cornali riallaccia più esplicitamente le sue visioni acquatiche alla mitologia locale in due testi di Camera dei confini intitolati a Chieve e Mozzanica, comuni della pianura rispettivamente cremasca e bergamasca su cui si stendeva il leggendario lago Gerundo e infieriva il drago Tarantasio. L’autore ha scelto infatti d’isolare ed enfatizzare questa nota già dominante nella sua poetica, agganciando programmaticamente tutte le poesie di Camera dei confini a un toponimo che funge da titolo, da ambientazione e da innesco. Sono tutti nomi di piccoli centri, che con un paio d’eccezioni disegnano sulla mappa una linea coerente che taglia la Lombardia centro-orientale dalle Alpi Orobiche alla Bassa. La potenza evocativa dei nomi è dichiarata in ‘Chieve’: “sapevi a memoria nell’ordine esatto tutti i paesi […] era il tuo rosario laico, geografico”. Le dichiarazioni di poetica sono disseminate un po’ ovunque. In ‘Temù’ “i ghiacciai ritirandosi / scoprono elmi chiodati / baionette, barattoli di latta / appesi al filo spinato”: le ferite lasciate dalla prima guerra mondiale. Ma con lo stesso metodo ‘geologico’ si può attingere un passato ben più remoto, quello dei longobardi che riappaiono a popolare i loro antichi dominii padani come già i celti del ‘Sostrato’, e ancora più indietro “degli anfratti / dei tagli nella roccia che nascondono / sepolture preistoriche” (‘Premolo’). In una poesia di Questo spazio… bastava d’altronde uno sbalzo di pressione per “percorr[ere] a ritroso / l’evoluzione della specie, / divent[are] ingombranti / e scontrosi / come uccelli preistorici”. L’immaginazione contemplativa del poeta si rivolge anche verso il futuro, quando “un giorno qualcuno / prenderà il nostro posto / per altri millenni ancora / in un silenzio stratificato / fossilizzato” (‘Mozzanica’), e conosce la voluttà elegiaca di arrendersi alle leggi minerali del tempo, “tornare al nostro destino / fossile, corallino / essere conchiglie / bivalvi incastonate / nell’arenaria / delle cattedrali” (‘Gromo’).
Stilisticamente, come molti poeti della sua generazione (eccezion fatta per i più sperimentali, che da un lato sono ancora attardati in una dialettica avanguardistica, dall’altro guardano – nei casi più felici – direttamente al futuro), Cornali mostra di aver assorbito la variegata esperienza del Novecento come un fatto naturale, e soprattutto senza traumi edipici. La presenza in alcuni testi di modelli novecenteschi altissimi, inevitabili (e perciò in qualche misura trasversali) come Montale e Luzi è pacificamente dichiarata dall’autore stesso nelle note, accanto a quella di classici assoluti come Dante, Ariosto e Manzoni. Un modello cronologicamente e geograficamente più vicino, individuato da Scaffai, è Fabio Pusterla, e forse nelle accensioni più liriche un tenue e addomesticato ricordo di De Angelis, come intuiva Pontiggia per la prima silloge. Ma anche simili numi lombardi, la cui presenza è in qualche misura inevitabile in un poeta così geocaratterizzato, non paiono certo avere stritolato Cornali con alcuna angoscia dell’influenza.
In ogni caso, Cornali non offre rivoluzioni stilistiche, e non tenta l’invenzione di una lingua o di una metrica nuova. Per rientrare nella metafora d’apertura, non fa certo cucina molecolare. Allo stesso modo non sperimenta con le misure estreme: i suoi testi sono sempre contenuti nella singola pagina, né si contraggono mai a una misura brevissima, epigrammatica. La sintassi è perfettamente regolare – non solo mancano, prevedibilmente, le fratture devastanti tipiche della scrittura avanguardistica, ma anche quelle perturbazioni meno invasive (ellissi, anacoluti, sospensioni) a cui la modernità ci ha abituati. I limiti del testo sono ben marcati (non c’è mai l’impressione del frammento, del ritaglio, del campionamento da un discorso più lungo); non è raro che le poesie cerchino di aprirsi e soprattutto di chiudersi su immagini icastiche (“e danzando scuotono la terra”), su una battuta in discorso diretto (“Torna, è già tardi, ti prego, / ritorna”), in ogni caso con una cadenza finale riconoscibile. L’ultimo verso o l’ultima parola può anche essere isolato graficamente, specie quando si vuole rafforzare iconicamente un senso di solitudine (“e poi lasciato solo, solo // solo”, “dalle finestre aperte entrava la musica / di un concerto in piazza // io ero sempre più lontano”). La metrica è a base tradizionale ma anch’essa poco vistosa (rari gli endecasillabi solenni e ‘cantabili’). Insomma, sotto ogni rispetto uno stile pulito, fin troppo misurato, che non crea tensioni o frizioni.
Fra i libri interessanti letti di recente, un attaccamento così radicato e problematico al proprio territorio (in quel caso veneto) si è visto in Traviso di Alberto Cellotto (Prufrock spa 2014), che tuttavia – certo memore del conterraneo Zanzotto – puntava su una estrema formalizzazione e concentrazione linguistica, di sapore latamente avanguardistico. Più vicine per indole e procedure formali sono casomai certe cose del già citato Bocchiola, ad esempio in Mortalissima parte (Guanda 2008), dove il riaffioramento del passato (lontanissimo o recente) dalle cicatrici del paesaggio può davvero ricordare i migliori testi di Cornali. In Cellotto si trova però una sintesi più essenziale (e dunque più ermetica); in Bocchiola, un montaggio più intricato. Cornali ha invece un piglio disteso, descrittivo e narrativo; svolge più linearmente i suoi motivi, dichiara più trasparentemente la sua poetica. Nella disposizione affettiva se non nella lettera dello stile, può ricordare il bolognese Nader Ghazvinizadeh, che a dispetto delle origini esotiche è uno dei più ispirati e affezionati interpreti del paesaggio padano in particolare e provincial-italiano in generale. Anch’egli forte del dono di passare in scioltezza dalla memoria culturale al dettaglio più concreto e viceversa, Ghazvinizadeh è però poeta più spontaneo e giocoso, sia nel timbro generale, sia negli specifici procedimenti associativi ed elencativi che ricordano il futurismo ludico e rustico di un Govoni. La poesia di Cornali è al confronto meno immediata – più calcolata, posata, seri(os)a per quanto spesso soffusa di (auto)ironia.
Il rischio che corre è casomai quello di suonare relativamente didascalico (comprensibile in chi per mestiere è διδάσκαλος – docente di materie umanistiche), al limite compiaciuto per le eleganti strizzate d’occhio erudite. Le note esplicative che Cornali ha apposto ai suoi testi consentono di verificare lo spunto dotto, la memoria letteraria o la curiosità di storia locale da cui occasiona buona parte delle poesie. Né mancano, a impreziosire la trama dei testi, reminiscenze di un immaginario classico (naiadi, coribanti) che paiono sgorgare più dalla cultura dell’autore che dalle concrete suggestioni dei luoghi. Da possibili accuse di pedanteria Cornali si salva, comunque, per i toni dimessi e per la palpabile dimensione etico-affettiva a cui le allusioni storico-letterarie sono strumentali. In ciò si avvicina e tuttavia si differenzia sottilmente, ad esempio, dalle composizioni del poeta doctus Federico Italiano, dove la smagliante erudizione umanistica dell’autore ha un ruolo molto più centrale, l’iperletterarietà è esibita e tematizzata, e il nesso fra questa e gli affetti personali o le preoccupazioni sociali è risolto con trovate brillanti ma a tratti macchinose.
Per approfondire questo lato del nostro poeta conviene prendere un’ultima imbeccata dalla nota di Scaffai, dove opportunamente si ricorda che in Cornali “la memoria ancestrale […] trapassa però sempre nella memoria individuale”. Con commossi ricordi familiari si apriva infatti la prima raccolta e si chiude questa; ma non è tanto nelle dediche più esplicite che si percepisce la forte dimensione (inter)personale della poesia di Cornali, quanto nella trama linguistica diffusa. In questo poeta così abile a dissimulare e oggettivare il sentimento nel paesaggio circostante, è a ben vedere notevolissima la presenza delle forme pronominali e verbali di prima e seconda persona singolare – le forme, dunque, del dialogo – nonché di prima plurale. Un tu è presente in buona parte dei testi (anche senza contare il caso particolare della prosopopea di ‘Valmarina’), più o meno altrettanto frequente dell’io, e spesso compresente a questo; sovente appare un noi che a seconda dei casi può rappresentare la somma di chi parla e del suo interlocutore (o interlocutrice), oppure essere la voce di una comunità più ampia. C’è dunque in filigrana come la trama di un romanzo sentimentale privato, lasciato però nell’ombra delle allusioni (non si ha la certezza che il tu sia sempre la stessa persona, e non sia a volte un espediente retorico). Non è questa la sede per discutere se questo canzoniere possa essere portato in primo piano con più convizione, reso più perspicuo, o se al contrario sia un elemento accessorio che potrebbe definitivamente sparire dietro il paesaggio. Ammesso che non sia proprio la capacità di tenere in equilibrio i due versanti con affabile medietas il vero segno distintivo di questo poeta dalle seduzioni sornione.