[È uscito pochi mesi fa, per l’editore francese L’Harmattan, Milan (1955-1965) La capitale du miracle économique italien entre littérature et cinéma di Graziano Tassi; ne riproduciamo il capitolo dedicato ai grattacieli nel cinema degli anni Sessanta. Ringraziamo l’editore e l’autore]

Lo sviluppo verticale della città, fortemente presente nella rappresentazione del nuovo spazio urbano dell’inizio degli anni 60, partecipa attivamente alla struttura drammaturgica di alcune opere del periodo e riveste un’intensa carica simbolica.

I due grattacieli più utilizzati e rappresentati dagli artisti sono il grattacielo Pirelli e la torre Velasca. Tuttavia, ritroviamo anche, nel film di Carlo Lizzani La vita agra (1964), la torre Galfa.

Ne La notte (1961), il grattacielo Pirelli non ha, in apparenza, alcuna funzione drammaturgica. In effetti, i personaggi del film non intrattengono con questo grattacielo nessun legame diretto. Tuttavia, il Pirellone apre il film di Michelangelo Antonioni. Diventa quasi un personaggio a tutti gli effetti che, dall’alto, come una nuova divinità, regna e osserva con indifferenza la città in costruzione e i suoi abitanti. Dà la tonalità generale al film, ci avverte che stiamo per entrare in uno spazio dominato dal capitalismo e dall’impresa moderna. Uno spazio che, tuttavia, conserva ancora alcune tracce del passato.

Nella prima immagine del film vediamo un edificio liberty della fine del diciannovesimo secolo accanto al Pirellone. Questo fotogramma contiene in sé l’idea generale del film: il tempo che passa, la fine di un’epoca e l’emergenza di una nuova era.

Il film racconta la storia di una coppia che non ha saputo resistere ai cambiamenti che il tempo ha portato al loro rapporto coniugale. Allo stesso tempo, è la storia di uno scrittore in crisi, rappresentante di una classe intellettuale che è stata spudoratamente sedotta e comprata dal capitale e dagli imprenditori del miracolo economico, come il Ghilardini del film che cerca di assumere Giovanni Pontano, scrittore di successo, proponendogli uno stipendio invidiabile per occuparsi delle relazioni pubbliche e della redazione della storia della sua impresa.

Dopo questa immagine, nella quale il vecchio e il nuovo coesistono, comincia la celebre carrellata verticale, dall’alto verso il basso, sui vetri del grattacielo che riflettono la città in costruzione che si propaga a macchia d’olio.

Questa sorta di discesa agli inferi ci accompagna con una lenta, apparente calma all’interno della vita di una metropoli che, come possiamo constatare durante la passeggiata urbana di Lidia Pontano, la moglie di Giovanni, è caratterizzata dal rumore (la musica di Giorgio Gaslini è qui straordinaria  perché, da una parte, evoca il suoni dissonanti della città e, d’altra parte, si mischia con naturalezza ai rumori della strada e dei cantieri), da una folla anonima e affrettata, da degli incontri fugaci  e superficiali e soprattutto da un’architettura razionale che ha perso una qualsiasi scala umana e diventa quindi completamente estranea all’uomo. La città, in effetti, nei film di Antonioni, diventa spesso uno spazio inospitale, dove regna l’incertezza e l’inquietudine.

Il grattacielo Pirelli si carica quindi, ne La notte, di una forte funzione simbolica e partecipa allo svolgimento dell’azione del film soltanto in un modo molto implicito. Non è il caso della torre Velasca ne Il vedovo (1959) di Dino Risi.

Nel film di Dino Risi, la torre Velasca rappresenta un elemento drammaturgico fondamentale per la costruzione dell’intrigo. La coppia formata da Alberto Nardi e Elvira Almiraghi abita in uno dei nuovi appartamenti lussuosi che si trovano negli agli ultimi piani della torre. Inoltre, è attraverso il sabotaggio dell’ascensore del grattacielo che Alberto Nardi spera di sbarazzarsi per sempre di sua moglie. In realtà sarà lui a trovare la morte nelle interiora del grattacielo.

Alberto Nardi è l’esempio perfetto dell’antieroe della commedia all’italiana. È cinico, codardo, fanfarone, opportunista, seducente a suo modo. Ha un’amante che copre di promesse intenibili. È proprietario di un’impresa di ascensori sull’orlo del fallimento e non può neanche più pagare i suoi dipendenti. Ha probabilmente sposato Elvira per interesse visto che è una ricca ereditiera appartenente alla grande borghesia capitalista milanese. Elvira è molto intelligente, molto abile negli affari, in grado di gestire perfettamente il proprio patrimonio. Dopo anni di matrimonio, disprezza apertamente suo marito, considerandolo un incapace, una nullità negli affari, denigrando continuamente le sue disastrose iniziative imprenditoriali. Lo chiama Cretinetti e rifiuta assolutamente di fargli un ennesimo prestito per salvare la sua ditta d’ascensori.

Il rancore che prova Alberto nei confronti di sua moglie è perfettamente comprensibile. Capiamo, nonostante i suoi odiosi difetti, la sua frustrazione, la sua volontà di mostrare agli altri che anche lui, romano e d’origine modesta, può essere all’altezza dei grandi capitani d’industria milanesi.

Così, la torre Velasca, nel film di Dino Risi, rappresenta la grande borghesia capitalista milanese, la classe sociale alla quale Alberto vorrebbe appartenere ma che gli è proibita.

Vediamo perfettamente il valore simbolico che la torre acquisisce nella sequenza d’apertura del film. Fatto abbastanza inabituale all’epoca, il film comincia con una breve sequenza che precede i titoli di testa. È notte. Alberto passeggia in una strada di Milano in compagnia del marchese Stucchi, un nobile decaduto che adesso lavora come ragioniere nella sua impresa. Il breve dialogo tra i due personaggi, nella sua perfetta concisione, pone gli elementi essenziali per lo sviluppo dell’intrigo del film. La frustrazione di Alberto, la sua volontà di emancipazione, il suo cinismo, l’oppressione esercitata da sua moglie sulla sua persona, la sua mancanza di rispetto e la morte annunciata. Tuttavia, ironia della sorte, sarà proprio Elvira Almiraghi a diventare vedova e Alberto Nardi la vittima del proprio stratagemma.

Al termine di questo corto dialogo, i due personaggi (ripresi attraverso una carrellata in piano medio mentre camminano) e la cinepresa si fermano. Il titolo del film appare sullo schermo e, mentre i titoli di testa cominciano a scorrere, la cinepresa fa una panoramica verticale, dal basso verso l’alto, sulla torre Velasca che domina così i due personaggi mentre si dirigono di spalle verso l’entrata.

La torre Velasca, con la sua struttura di cemento, sembra così minacciare i due personaggi e, in particolare, Alberto Nardi. Diventa il simbolo di una classe sociale che non soltanto si rivela impenetrabile per il protagonista ma che causa persino la sua perdita finale.

Ne Il vedovo, il grattacielo ha quindi una funzione drammaturgica ben precisa e, allo stesso tempo, si carica di una funzione simbolica molto intensa.

È anche il caso della torre Galfa nel film di Carlo Lizzani La vita agra, tratto dal romanzo omonimo di Luciano Bianciardi. Nel romanzo, come nel film del resto, il torracchione simboleggia senza nessun dubbio il potere schiacciante dell’economia capitalista. È la sede dell’impresa responsabile della morte di 43 minatori a Portolongone, un paesino toscano. Il protagonista del romanzo si reca quindi a Milano per schierarsi efficacemente a fianco della classe operaia e per far saltare in aria il torracchione.

Tuttavia, non porterà mai a termine la sua missione. Si lascerà intrappolare nella vita milanese, nella sua indifferenza, nella sua inutile frenesia, nei suo obblighi economici. Lavorando come traduttore, troverà rifugio in una specie di individualismo anarchico fondato su un erotismo libero e scanzonato che si configura come una breve anticipazione della morte.

Così, nel romanzo di Bianciardi, il protagonista non soltanto non porta a termine la sua missione ma non riesce neanche ad avvicinarsi al torracchione e ancor meno e entrarvici. Non è il caso nell’adattamento di Lizzani.

La versione cinematografica di La vita agra è globalmente fedele allo spirito critico e contestatario del romanzo. Tuttavia, esistono delle differenze abbastanza importanti per quanto riguarda l’intrigo. Per esempio, Luciano Bianchi (il nome del protagonista del film) è assunto, poi licenziato e, alla fine della storia, riassunto dall’impresa la cui sede voleva far saltare in aria. Ha quindi l’occasione di entrare, fisicamente e simbolicamente, all’interno del ventre del nemico.

Il grattacielo della ditta CIS appare per la prima volta allo schermo quasi all’inizio del film. È ripreso dal basso e l’immagine è accompagnata da un motivo sonoro tipico dei film di fantascienza. Durante il film, questo motivo sonoro l’accompagna ogni volta che compare allo schermo (5 volte), sempre ripreso dal basso per sottolineare, da una parte la sua schiacciante carica simbolica e, d’altra parte, per ricordare allo spettatore, e al protagonista, le ragioni della sua presenza a Milano.

E proprio Luciano Bianchi che introduce e presenta per la prima volta il grattacielo. Il personaggio è ripreso in piano medio frontale e si rivolge direttamente allo spettatore con le seguenti parole:

Io ero venuto a Milano per questo. Questo torracchione è alto esattamente 112 metri, 21.000 metri quadrati di superficie abitabile, 673.000 tonnellate di cemento e acciaio, 12.000 metri quadrati di vetro e cristalli. Vi siete mai chiesti quanto tritolo ci vorrebbe per farlo saltare in aria? Io sì, e un anno fa, con delle idee precise in testa, entravo per la prima volta nel ventre del nemico.

L’interno del ventre del nemico è rappresentato come uno spazio à metà strada tra la fantascienza e l’incubo burocratico kafkiano. Luciano vi entra, la prima volta, per offrire i suoi servizi e per potere vedere il Presidente dell’impresa. I colloqui con le varie segretarie avvengono attraverso diverso schermi, telecamere di sorveglianza e strumenti bizzarri. Quello che ne esce è una totale disumanizzazione dei rapporti interpersonali e una forte impressione di assurdità poiché le procedure automatizzate non sembrano avere alcun senso pratico, se non addirittura essere completamente incomprensibili.

Lo spazio interno del capitale si presenta così come una sorta di labirinto nel quale si nasconde un Presidente invisibile, inaccessibile, nel quale l’individuo deve conformarsi a delle regole in apparenza razionali, efficaci, moderne ma che, in realtà, si rivelano spesso assurde e inutili.

Luciano Bianchi, nonostante tutto, è assunto per collaborare, in quanto redattore, al giornale aziendale. Non ha molto da fare ed è licenziato dopo qualche settimana per scarso rendimento. Cerca di trovare, senza successo, un lavoro di traduttore ed è, alla fine, riassunto dall’impresa CIS per occuparsi, questa volta, di pubblicità.

Il suo lavoro consiste a trovare degli slogan idioti per dei prodotti alimentari di cattiva qualità. Contro ogni aspettativa, si rivela particolarmente dotato per questo tipo di lavoro. La CIS gli chiede allora di trovare uno slogan per la pubblicità di un detersivo. La sua missione è di trovare una parola originale che sostituisca l’ormai troppo utilizzato e banale “bianco”. Riesce quindi a scovare la parola “virginale” che diventa allo stesso tempo il nome del detersivo. Il successo è immediato e Luciano sale rapidamente di grado fino ad avere il privilegio di prendere un aperitivo al bar della CIS, all’interno del grattacielo, con il Presidente.

Luciano si lascia sempre di più sedurre dal capitale. Sembra abbandonare i suoi ideali di giustizia sociale e rinunciare a un’idea di cultura e di letteratura come forme di contestazione. Al contrario, la cultura, la poesia sono ormai al servizio della pubblicità.

Se il capitale è in grado di comprare tutto, d’inglobare la cultura e di metterla al servizio della società dei consumi, l’intellettuale contestatario non ha più ragione di essere. Luciano è parte integrante dell’impresa. Alla fine del film, nella penultima sequenza, lo vediamo ancora una volta con il Presidente. Luciano vuole fargli una sorpresa. Si trovano in un appartamento di fronte al grattacielo della CIS. Si dirigono verso la finestra e Luciano comincia il conto alla rovescia. Alla fine del conto, il grattacielo si illumina, dei fuochi d’artificio lo decorano. Il nome dell’impresa appare scintillante in cima alla torre.

Il Presidente si congratula con Luciano. Lui, l’intellettuale di provincia che era venuto a Milano per vendicare 43 minatori, lui che voleva mettere la sua cultura al servizio dell’emancipazione della classe operaia, diventa l’artefice del trionfo del capitalismo. Il grattacielo diventa di fatto inattaccabile, invincibile, visto che se anche dovesse davvero esplodere, rappresenterebbe una formidabile occasione di profitto per l’impresa che l’ha assicurato per il doppio del suo valore.

Nell’ultima sequenza del film, Luciano Bianchi, si trova davanti a Tarcisio Liberati, un amico minatore al quale aveva promesso di far saltare il torracchione. Tarcisio è arrivato a Milano per Natale con la moglie del protagonista. Porta con sé una grande valigia che si potrebbe credere piena di esplosivo. Non è il caso. Nell’appartamento di Luciano, apre la valigia e ne estrae due fagiani. Il film si chiude con i pensieri di Luciano:

«Lo so, lo so, caro Libero cosa pensi. Ma tanto non sarebbe servito a niente, sai. Nessuno ci avrebbe capito, perché troppi ancora credono ai miracoli. La verità è che l’unico vero miracolo economico lo fece quello che moltiplicὸ pani e pesci e diede da mangiare alla gente gratis, in allegria».

Il film che comincia come una solenne incazzatura finisce come un’immensa delusione. La gente, come gli intellettuali impegnati, accecati dalle seduzioni e i miraggi del miracolo economico, ha completamente abbandonato una qualsiasi speranza di cambiamento sociale portatore di ideali di uguaglianza, di solidarietà e di giustizia. Paradossalmente, il solo vero rivoluzionario resta Gesù con i suoi veri miracoli, gratuiti, allegri, a destinazione di tutti.

La penultima immagine del film è un triste paesaggio urbano di periferia al crepuscolo. È probabilmente il solo orizzonte possibile che aspetti l’umanità: una grigia, fredda e brutta civilizzazione urbana, fondata sul consumo, il potere capitalista e l’indifferenza verso il prossimo.


 

tassiGraziano Tassi, Milan (1955-1965). La capitale du miracle économique italien entre littérature et cinéma, L’Harmattan, Paris 2017, 292 pp. 29€