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Per la modernità dell’arabo: intervista ad al-Mabkhout

Profumo forte, camicia a maniche corte, Shukri al-Mabkhout mi si presenta sorridente, cordiale, disponibile di fronte a ogni domanda, ma fermo non appena si tocca una questione che gli sta a cuore. Al-Mabkhout è una personalità di rilievo in Tunisia: è il rettore dell’Università di Manouba, la prima università di Tunisi, è un rinomato intellettuale e nel 2015 ha vinto l’International Prize for Arabic Fiction con L’Italiano, il suo romanzo d’esordio. In Italia lo ha portato la casa editrice E/O, che si è impegnata a farsi vetrina dei romanzi in lingua araba premiati di anno in anno, e il Festivaletteratura di Mantova è stato per me l’occasione di incontrarlo di persona, dopo essermi appassionato alla storia di Abdel Nasser, giovane tunisino che vive in prima persona tutti i traumi della storia tunisina tra anni Settanta e Novanta. Una storia che evidentemente allunga la sua ombra anche sul presente della Tunisia: e infatti al-Mabkhout ha già annunciato che questo romanzo avrà un seguito che porterà Abdel Nasser, detto “l’italiano” per la sua bellezza, fino ai giorni nostri.

L’italiano intreccia storia privata e storia pubblica, l’impegno politico e le vicissitudini sentimentali di Abdel Nasser, ma anche il putsch con cui Ben Ali nel 1987 spodestò Habib Bourghiba, il primo presidente della Tunisia, rimasto al potere per trent’anni. Trent’anni lungo i quali le promesse della rivoluzione, che aveva permesso al paese di proclamarsi indipendente dalla Francia (1956) e di destituire la monarchia, si erano a poco a poco trasformate in nostalgici ricordi. Nella società raccontata da al-Mabkhout la retorica libertaria e democratica del regime tenta di camuffare una prassi quotidiana caratterizzata dal sospetto reciproco, dal timore di infrangere regole non scritte e da una moralità profondamente condizionata dai dogmi religiosi. E Abdel Nasser, che si forma nelle lotte politiche della sinistra universitaria e si afferma poi come giornalista culturale in uno dei quotidiani più fedeli al nuovo regime di Ben Ali, porta inscritte le contraddizioni del suo paese. Non nega che il suo romanzo abbia anche un carattere autobiografico, al-Mabkhout, che è cresciuto nella Tunisia degli anni Ottanta e ha visto infrangersi anche le aspettative di cambiamento che il nuovo presidente aveva portato con sé. Abdel Nasser è in qualche modo il suo alter ego e da lui vorrei cominciare.

Abdel Nasser è un personaggio eccezionale: molto impegnato in politica, conosce perfettamente le dottrine politiche, e specialmente quella socialista; comprende molto bene le esigenze delle donne della sua nazione, anche se a livello amoroso sembra perdere parte di questa consapevolezza; è un abile giornalista e un letterato molto colto. Questo suo carattere le permette di affrontare in maniera diretta molti aspetti della storia e della società tunisina. Cosa o chi le ha ispirato questo personaggio?

Beh, i personaggi di un romanzo si costruisco poco a poco, ma io sono partito da un’immagine complessiva. Quello che sapevo era che sarebbe stato un uomo di sinistra e che doveva essere disincantato; ovvero, questo tipo non avrebbe potuto portare a compimento la sua quête, la ricerca dei suoi valori intellettuali e morali non sarebbe andata a buon fine. L’idea essenziale, all’inizio, era farne una metafora della sinistra tunisina. Perché la questione, all’inizio, riguardava il perché la sinistra tunisina, dopo la rivoluzione, non avesse preso il controllo della situazione. Per ripercorrere la storia della sinistra tunisina a partire da questo personaggio bisognava però dare una forma a questa idea sul piano finzionale e romanzesco. Così è nato Abdel Nasser, che doveva essere un personaggio ricco, con diverse aperture. Non piatto, perché non rappresenta solo le idee e i valori di sinistra. Doveva essere un tipo umano, puramente umano; non solo il prodotto di una meccanica.

Ad esempio, tu hai detto prima che, nonostante lui abbia dei valori progressisti, il suo rapporto con la donna non è all’altezza di questi valori: ecco, in questo suo comportamento non c’è una meccanica. Possiamo avere le idee che vogliamo, ma in realtà, da qualche parte, siamo prigionieri del nostro patrimonio culturale, dei nostri riflessi, della nostra psicologia – che è fragile: questa esitazione esprime il fatto che le idee, anche quelle straordinarie e nobili, nella realtà prendono un’altra dimensione, che mostra questa esitazione dell’uomo.

È per questa ragione che Abdel Nasser rappresenta la sinistra, rappresenta una generazione, la mia generazione. Ma soprattutto – ed è la cosa più importante – in questo personaggio io ho cercato di esprimere, come posso dire…, l’aspetto umano che condiziona il rapporto tra un ideale e la realtà, questo avanti-e-indietro che alla fine dei conti conosciamo bene. Come diceva il cantante: a vent’anni vogliamo fare la rivoluzione, ma a sessanta è la realtà che ci cambia. Beh, Abdel Nasser arriva fino a trent’anni, ma sta continuando a cambiare. Dico continuando perché voglio continuare a seguirlo in altre tappe della sua vita.

Sì, può essere un’impressione corretta, ma allo stesso tempo, il semplice fatto che Abdel Nasser possa esistere in questa cultura supposta conservatrice e antica è già un indizio importante del cambiamento che tocca la società. Perché non è più una società chiusa, unidimensionale. La società che ho dipinto nel romanzo è una società diversificata, e Abdel Nasser rappresenta un volto di quella società.

Inoltre quello che vediamo come fallimento di Abdel Nasser fa parte di una dinamica culturale, sociale e politica. C’è un certo pessimismo nel romanzo, ma, se guardiamo bene, non si tratta proprio di pessimismo: infatti vengono mostrati i contorni di un processo che non ha portato a compimento a cosa? agli ideali di Abdel Nasser? Ma la società in realtà cambia: Bourghiba era politicamente morto ed è arrivato Ben Ali, e con lui è nata una nuova speranza, anche se portava dei dubbi con sé (come mostra il personaggio del caporedattore del giornale, esitante sulla posizione da prendere). Abdel Nasser esprime quindi questa incertezza, questo va-et-vient della società tunisina di un’epoca che non è così lontana.

Infatti, quello che viviamo oggi, in questa fase di transizione, non è poi molto diverso. Ma la cosa più importante che io volevo fare con questo romanzo capire e mostrare come le persone vivono durante una fase di transizione da un regime vecchio e uno nuovo. Questo era il tema principale. Le fasi di transizione, come diceva Gramsci, sono i momenti in cui ci appaiono i fantasmi, gli spettri, che portano speranze e portano paure.

Non voglio forzare questa lettura perché il mio non è un romanzo ideologico. Non siamo più all’epoca del realismo socialista e non è questa la mia scelta. Per me il romanzo deve dire la verità, che non è necessariamente la realtà: ma è l’essenziale in questa realtà complessa. E la verità consiste in quello che sentivamo in quel momento storico, cioè una specie di blocco, anche dopo l’arrivo di Ben Ali.

Per raccontare la transizione dalla dittatura di Bourghiba al regime di Ben Ali ho letto che si è ispirato ai cambiamenti che hanno toccato la Tunisia tra il 2011 e il 2o12. Tra le cosiddette “primavere arabe” oggi possiamo dire che la rivoluzione tunisina è quella che ha portato a una situazione abbastanza stabile a livello sociale e politico – almeno in rapporto a quello che è accaduto in paesi come la Libia e l’Egitto. E però rimane uno scarto tra la normalità e la serenità che si trova nella Tunisia di oggi e invece il clima di silenzio e sospetto che si respira nella società che si racconta nel vostro romanzo.

Sai, la domanda che mi sono posto all’inizio – perché la sinistra non è riuscita ad arrivare al potere dopo la rivoluzione – è legata al tempo della scrittura; ma il tempo del romanzo è un altro, più o meno ventitré anni prima. In primo luogo sono ritornato alla storia recente della Tunisia per un motivo semplice, perché il periodo della transizione verso il regime di Ben Ali e quello della cosiddetta post-rivoluzione sono entrambi fasi storiche molto intense, piene di avvenimenti e di novità. E scrivere un romanzo significa anche, in qualche modo, contemplare i cambiamenti. E non era facile assorbire tutte queste sfumature, mentre si viveva il periodo della transizione. Questa è la prima cosa che bisogna prendere in considerazione.

La seconda è che mentre scrivevo il romanzo ho scoperto, proprio costruendo il mio mondo romanzesco, molte somiglianze perché io stesso ho vissuto quel periodo di transizione – come se la storia della Tunisia fosse una storia a spirale. Quindi si riprendono dei conflitti precedenti e li si ritrova dopo la rivoluzione. È stato magnifico per me perché – e questo non lo dicono gli storici – il romanzo mi ha permesso di vedere meglio la realtà della attuale post-rivoluzione attraverso la realtà di quella fase storica.

La questione delle somiglianze tra quelle due fasi storiche, invece, richiede un po’ di tempo onestamente. Dopo sei anni, la rivoluzione non è ancora terminata, ci sono ancora molte cose che cambiano, alcune sono impercettibili; non abbiamo più le grandi paure che sono arrivate subito dopo la rivoluzione, ma non si sono neanche realizzati quei grandi cambiamenti che i tunisini sognavano. È complicato, serve del tempo per vedere e anche per criticare quel che è già successo. Poi, per quanto riguarda la stabilità che la Tunisia ha trovato rispetto agli altri paesi dove si sono verificate guerre civili e putsch militari, beh, è vero, ma non è niente di gratuito. Questo non è successo perché la Tunisia è un’eccezione nel mondo arabo, ma perché la Tunisia aveva un patrimonio civile che viene dal XIX secolo. Anche l’Egitto ce l’ha, è vero; ma qui c’è uno Stato nazionale che non ha permesso quell’amalgama tra politica e apparati militari che si è verificato invece in Egitto. Questo è molto importante. Ad esempio in Libia non c’era uno Stato. Anche in Siria c’era un legame inscindibile tra il partito Ba’th, l’apparato statale, i militari e le caste: tutto all’interno regime. Quindi tutto questo poteva esplodere da un momento all’altro. Il nostro problema, in Tunisia, invece, era che lo Stato era legato al partito: il fatto che il partito sia caduto, però, non ha portato con sé anche il crollo dello Stato. E questo è stato una garanzia per gli sviluppi della rivoluzione.

E poi ti dico una cosa che ti stupirà: il popolo tunisino non è un popolo rivoluzionario. È un piccolo popolo omogeneo che ha conosciuto nella sua storia molte invasioni: i Romani, i Vandali e tanti altri. Ma ha saputo, grazie alla sua fragilità – è un paese molto fragile nel cuore del Mediterraneo – preservare una certa coerenza. Non era un popolo guerriero; è un popolo bon vivant, che si crede migliore degli altri, ma questo non lo rende radicale. Ed è un fattore decisivo.

Non voglio fare paragoni, ma se si dessero delle armi in mano ai tunisini, loro non si ucciderebbero mai tra di loro, questo è certo, perché non hanno questa abitudine né nella loro formazione psicologica collettiva e storica, né nella loro realtà. E allora, cosa vuole un tunisino? Come un italiano, vuole vivere bene, godere della vita, avere una stabilità, essere libero. E sa bene che tutto questo non può averlo attraverso le armi e la violenza. Per questo è un popolo tranquillo, che cerca la pace e anche a livello di dibattito politico, non esprime niente, ma solo discussioni che si trovano dappertutto nel mondo e che non sono specifiche di questo paese.

In effetti mi sembra di vedere diverse somiglianze con l’Italia…

Certo. Forse hai dimenticato che siamo entrambi mediterranei e che gli italiani formavano la più grande comunità in Tunisia. E hanno lasciato la loro traccia; ad esempio nella cucina. Ora avete il problema dell’accoglienza, perché dal Maghreb tanti vogliono venire in Italia per lavorare, ma un tempo erano gli italiani che volevano venire in Tunisia per lavorare. E non lo dico per diplomazia, ma parlo perché c’è una realtà storica. La Tunisia a un certo punto avrebbe potuto essere italiana, poi il tentativo italiano è stato in qualche modo frustrato e per questo motivo l’Italia ha conquistato la Libia e la Francia l’ha lasciata fare. Ma la frustrazione era dovuta al fatto che la più grande comunità in Tunisia era quella italiana. Alla fine, tra Tunisia e Italia non sono che 40 kilometri. Si tratta praticamente dello stesso spirito.

©Festivaletteratura

Il suo romanzo è anche un romanzo d’amore e sulle donne. C’è il rapporto tra Abdel Nasser e Zeina, ragazza bellissima, che affascina il protagonista con la sua intelligenza, che la porta a essere temuta prima dalle le organizzazioni politiche studentesche per la sua capacità di mettere in crisi il pensiero altrui, e poi dall’accademia tunisina quando prova a farsi largo sfidando tutte le convenzioni culturali e sociali.
Ma ci sono anche tante altre figure femminili, che si legano ad Abdel Nasser secondo rapporti sentimentali di vario tipo: donne che si distinguono o per la loro volontà di emancipazione dalla tradizione, o perché provano a sovvertire dall’interno i vincoli morali e religiosi – come la moglie dell’imam lalla Jnina – o, ancora, perché a questa tradizione aderiscono integralmente. Tutte queste donne però ci vengono sempre restituite attraverso lo sguardo maschile.

L’italiano è in qualche modo la biografia romanzesca di un personaggio e ha come filo conduttore la vita di Abdel Nasser. Ed è del tutto normale che ogni cosa sia filtrata dal suo sguardo. Inoltre, in primo luogo, la funzione delle donne in questo romanzo è d’essere lo specchio di questo personaggio. Ce ne sono molt, lalla Jnina, Najla’, Zeina e tante altre; e tutti questi personaggi femminili sono diversi, e lo sono scientemente, per far apparire i complessi di Abdel Nasser, i suoi veri comportamenti, i suoi problemi in quanto uomo, che porta una ferita narcisistica dovuta al fatto che l’imam ha tentato di violentarlo quando era bambino. Si forma così un effetto caleidoscopico, che mostra attraverso le donne volti diversi di Abdel Nasser.

Ma c’è anche un’altra cosa: non dico che queste donne rappresentino “la donna tunisina”, però ognuna di loro ha una visione diversa della propria liberazione in quanto donna, ed è una liberazione legata essenzialmente al corpo. Perché credo che i nostri problemi siano intimamente legati al corpo; fino a che non riusciremo a superare la rappresentazione simbolica del corpo di matrice arabo-musulmana e tunisina non potremo dirci liberi. E vale anche Abdel Nasser. Alla fine dei conti, il suo problema non sono le sue idee o il suo approccio alla realtà. Abdel Nasser è qualcuno che ha provato a liberare la società; ed è una cosa straordinaria. Ma il fatto che abbia questa ferita nel corpo pone una questione filosofica: è possibile liberare una società quando si è a propria volta non liberati? E perché – nonostante le sue idee aperte e progressiste, Abdel Nasser non è un personaggio liberato? Perché porta una ferita dalla propria infanzia – se la si vuole considerare una ferita: perché alla fine non è stato realmente violentato, ma sono stati due o tre tentativi di aggressione. Non è il caso di Zeina, che ha conosciuto l’incesto, che è una cosa ben più pericolosa, sul piano psicologico e della formazione della personalità, per la difficoltà di convivere con questa ferita profonda. Quello su Abdel Nasser è stato un semplice tentativo, e ne è derivata una reazione che secondo qualcuno è sproporzionata. Ma in realtà non lo è, perché non c’è una meccanica legata alla quantità dell’aggressione in relazione alla reazione, come nel caso del famoso battito d’ali di una farfalla. Quindi, per tornare alla domanda, si tratta di personaggi che permettono l’uno all’altro di vedersi e permettono al lettore di guardarli nella loro realtà.

Prendi Zeina, che è un personaggio combattivo, attraente, ricco, complesso: anche a lei è successo che mentre si stava costruendo come personaggio è riuscita a vedersi. A un certo punto ha detto ad Abdel Nasser: «tu sei l’unico a cui ho aperto l’archivio delle mie sofferenze». Ecco, questo è importante. Parlando del suo corpo, delle sue ferite, lei ha fatto una sorta di terapia – alla maniera freudiana, perché parlando lei capisce se stessa. Quindi io ho provato a estendere questo problema psicologico al suo rapporto con la politica. Anche questa dimensione psicologica, tremendamente intima, per me rappresenta un’interrogazione politica, e non solo psicologica e individuale. È un unico sistema simbolico, profondamente intricato.

Ci accorgiamo che la liberazione delle donne dalla loro segregazione passa per il loro corpo. Si ritrovano nel romanzo molte scene d’amore, molto esplicite, anche se filtrate attraverso una proliferazione di similitudini e immagini metaforiche, che prendono ispirazione dal mondo animale, vegetale o minerale. È per questo che il romanzo ha rischiato di essere censurato negli Emirati Arabi Uniti al momento della consegna del premio che avete vinto, il Booker Arab?

Beh, innanzitutto è per colpa della stupidità della censura araba. Il libro è tutt’ora censurato in Kuwait, ma allo stesso tempo è in vendita in Arabia Saudita.

Ascolta, questa faccenda ha due aspetti: in primo luogo è diventato impossibile proibire un libro nell’epoca digitale. Il mio libro, ancora prima di vincere il Booker Arab, era già stato “piratato” e messo su internet, quindi si poteva e si può scaricare da qualsiasi dispositivo. Quindi il fatto di censurarlo non ha alcun senso.

In secondo luogo, per quanto riguarda gli Emirati, io ho conosciuto il censore e ho conosciuto anche la donna che ha impedito la distribuzione del libro, era un membro della famiglia dell’emiro. Abbiamo parlato tutti e tre e mi sono reso conto che era semplicemente stupida. In un paese estremamente aperto come gli Emirati, qualcuno, un burocrate, nella solitudine del suo ufficio ha deciso di proibire un romanzo. Che è stato proibito per qualche giorno, e poi nel giro di 2-3 ore la situazione si è sbloccata.

E poi, ancora, di certo il romanzo non è pornografico. Ma si è costruito attraverso un lavoro immaginifico, che passa per qualche scena funzionale, di certo non gratuita, perché una scena d’amore non è interessante se è scritta per semplice gusto – eppure molti critici (giornalisti!) arabi hanno trovato il romanzo pornografico, e questo mi stupisce personalmente. Non è per niente facile scrivere un romanzo autobiografico, richiede delle competenze che io non ho di per me. Ma è rivelatore di una cosa: quel che ho voluto dire circa la libertà dell’individuo, che è intimamente legata alla libertà del corpo – per la donna e per l’uomo allo stesso modo, perché è un rapporto dialettico in ogni caso – è qualcosa di vero, e per questo ha toccato i lettori.

Forse, qualche volta, prevale una tendenza a leggere troppo tra le linee del testo, per immaginare quello che non c’è; ma questo è dovuto anche alla scrittura, che in un certo senso è anche “cinematografica”, visuale, e spinge quindi a sentire e vedere qualcosa di scandaloso, che però non c’è.

Vorrei ritornare sull’aspetto politico e storico del romanzo. Nella ricostruzione della Tunisia degli anni Ottanta e Novanta si capisce quale sia il suo punto di vista, anche se rimane nascosto dietro la voce del narratore. E vorrei chiederle se questo tipo di narrazione, molto versata sull’analisi storico-sociale, intende rivolgersi prevalentemente a un pubblico tunisino e arabo o a un pubblico europeo, per far capire cos’è successo in quegli anni in Tunisia e come si è arrivati alla situazione di oggi.

Dunque, lo stesso pubblico tunisino non conosce bene questo periodo. O meglio, molti lo hanno vissuto, con i suoi avvenimenti e i suoi cambiamenti, ma non se ne ricordano. Altri sono nati dopo quegli anni e per loro si tratta di una straordinaria lezione di storia. Una volta, durante un incontro pubblico, una ragazza mi ha detto “«io sono nata dopo il 1987 [l’anno del colpo di stato di Ben Ali, ndr], ma quello che ho scoperto in questo romanzo è straordinario». Beh, straordinario per lei; ma quel giorno ho capito che il mio romanzo aveva un sapere storico da presentare. Non la storia che fanno gli storici, ma una storia romanzata, e non era nelle mie intenzioni. Io ho parlato solo di qualche episodio, qualche avvenimento storico, giusto per dare un contesto al lettore, a qualsiasi lettore, perché non sapevo se il romanzo sarebbe stato tradotto. E non ho neanche pensato a scrivere per gli arabi. Ho scritto un romanzo per me, ecco, o per i tunisini al massimo. Non avevo idea né del premio, né delle traduzioni che lo hanno seguito. Volevo semplicemente allestire questo mondo finzionale e dare qualche punto di riferimento storico al lettore per ricostruire la vita in quell’epoca. La vita intellettuale e all’università, per esempio: a quell’epoca c’erano diverse tendenze politiche che ho provato a ricostruire. E tutto questo la gente l’ha vissuto, ma non se ne parla. Alla fine, l’essenziale è che la storia si è imposta su di me, anche se io non avevo intenzione di scrivere un romanzo storico.

In più, il romanzo non è propriamente un romanzo storico, nel senso che… prendiamo per esempio la scena che si svolge nel giorno in cui Ben Ali ha preso il potere di Bourghiba, il 7 novembre 1987 – è il capitolo 7, ma è un caso…: nel momento in cui il protagonista esce di casa, con Najla’, e cerca di capire cosa sia successo… tutto questo è un’altra storia, che nessuno ha vissuto, anche se tutti l’hanno vissuta, al tempo stesso. Perché la notte del putsch, Abdel Nasser viveva una sorta di angoscia, non sapeva cosa sarebbe successo… era anche una metafora della storia della Tunisia.

Tutto questo per dire che anche quando ho parlato della Storia, l’ho fatto in modo finzionale, romanzesco, pur dicendo la verità. Molto spesso la fiction dice la verità. Ad esempio, io racconto che nel giorno del colpo di stato, il giornale è uscito prima di mezzogiorno, ma storicamente, invece, il giornale ufficiale, «La Presse», è uscito alle due o alle tre del pomeriggio, in due pagine, per celebrare l’avvenimento. Questo è un fatto storico: tutte le persone che hanno vissuto il 7 novembre, hanno visto quel giornale. Mentre il resto, Abdel Nasser, il caporedattore, sono tutti elementi della finzione. Quindi è come un gioco, tra l’allusione alla Storia e la riscrittura della Storia.

Oggi ci sono molti scrittori arabi che hanno lasciato il loro paese d’origine e che talvolta provano anche a scrivere in un’altra lingua, in francese, in inglese…

…anche in italiano!

Si ha l’impressione che questi diventino scrittori arabi che scrivono per gli occidentali, per gli europei o gli americani. C’è una differenza, secondo lei, tra chi scrive per gli arabi e chi scrive per gli occidentali? Oppure c’è una sola letteratura araba, che alla fine arriva dove deve arrivare?

È una domanda complessa. Perché quando io parlo di letteratura italiana, io intendo la letteratura scritta in lingua italiana, e quando parlo di letteratura araba, intendo quella scritta in lingua araba. Questa è la norma, diciamo. D’altra parte, se un librario mette un libro scritto in italiano da un algerino come Amara Lakhous nello scaffale della letteratura algerina… è un problema. La stessa cosa vale per gli scrittori arabi.

C’era tuttavia una questione storica. Il tempo del colonialismo ha fatto sì molti giovani non conoscessero l’arabo: e da lì è nata quella che chiamiamo la letteratura maghrebina in lingua francese. Oggi, prerò, si tratta di una scelta, perché c’è una nuova nozione, quella della «letteratura-mondo». Si tratta di una scelta, e quello che io rifiuto categoricamente è un discorso come quello di Kamel Daoud, per il quale l’arabo è la lingua degli uomini di Stato e dei religiosi. Ma non è vero, è la nostra lingua. E in ogni caso, la nostra lingua non è il francese, perché noi siamo stati colonizzati dai francesi. E questa presa posizione significa mettere tutto ciò che è scritto in arabo in secondo piano, come se fosse una lingua imbevuta di religione e di idee tradizionaliste, mentre per affrontare il nuovo bisogna scrivere in francese. Ma non è vero. Il mio romanzo non è un romanzo religioso, e non sostiene il “discorso del potere”.

Questa posizione ideologica non è necessariamente fondata sull’ignoranza, ma vuole – come nel caso di Daoud – darsi uno statuto presso l’altro, presso colui che ha paura dell’Islam, che ha paura di questo mondo e di questi giovani radicalizzati effettivamente pericolosi. Ebbene cosa vuole comunicare? Anche io sono moderno; anche io difendo la libertà, sono contro il fanatismo, il radicalismo, il jihadismo. Non solo tu perché parli in francese e scrivi in francese. Quindi è un po’ come un ex-colonizzato che parla al colonizzatore nella lingua che questi gli ha imposto. Prendi ancora Kamel Daoud: lui ha scritto un romanzo molto bello (Il caso Meursault – ndr), che io apprezzo molto; ma non apprezzo il fatto che lui mette me, in quanto scrittore arabofono, dall’altra parte della barricata, quindi insieme ai fanatici, ai terroristi. Non è un atteggiamento onesto.

Credo ci sia bisogno di vedere che esiste tutto un mondo arabo che è diverso da quello che vediamo in televisione o di cui leggiamo sui giornali. Altrimenti il rischio è quello della mistificazione, di un’omologazione, che finisce per identificare l’Islam con il radicalismo.

E vorrei aggiungere qualcosa, sempre in questo senso. Persone come Kamel Daoud – ma ce ne sono molti altri – sono persone che credono che chi scrive in lingua araba sia già nell’autocensura. Innanzitutto questo è falso. E poi, di cosa abbiamo bisogno, oggi, nel mondo arabo-musulmano? Abbiamo bisogno di un movimento di modernizzazione forte, che sposi i valori universali, i diritti dell’uomo, individuali e collettivi. Se non lavoriamo sulla lingua araba per esprimere la modernità, lo spirito dei Lumi, non saremo mai moderni. È una conditio sine qua non. Il francese non è mica sempre stato una lingua che accetta i valori umani: c’è stato bisogno di un lavoro. E così per l’italiano. Un lavoro sul linguaggio, per spiegare e trovare le parole giuste, per costruire questa modernità. La modernità non sono gli oggetti, in qualsiasi lingua.  E tu hai un intero popolo, 350 milioni di persone, che parla arabo: e cosa fai con loro? Gli fai imparare il francese di Kamel Daoud?

Un’ultima domanda. Lai scrive su un blog, marginalia, e quindi ha scelto di abbracciare la fida del web. Crede ci sia un effettivo vantaggio nell’utilizzare la rete e i social network per il lavoro culturale e letterario, in rapporto a quella che è la tradizione cartacea della letteratura?

Mah, sì. Io scrivo anche tre volte al mese articoli di opinione o presentazioni di libri su un giornale online che si chiama al araby e che è molto rispettato e diffuso nel mondo arabo. Tuttavia, onestamente, io resto un po’, come dire… classico. Per me questi sono dei supporti.  È vero che talvolta il formato giornalistico sul web cambia, ma io non sono un giornalista; io intervengo come intellettuale, scrittore o accademico, per parlare della cosa pubblica. Quindi, questo vincolo non mi riguarda che per gli articoli di opinione, che sono come piccoli biglietti per me. Bisogna rispettare le regole del genere e della scrittura, certo, ma quello che constato, sull’altro versante, è che scrivere su questo sito dà un’accessibilità maggiore e in certo senso incredibile a dei testi che se si pubblicassero solo su giornali cartacei non andrebbero molto lontano. Ora, invece, si può comunicare con persone di tutto il mondo, attraverso questo strumento. Quindi forse è il futuro, ma in questo momento io mantengo un rapporto strano. Mi piace ancora sentire l’odore della carta, sono un po’ romantico….

E poi, un’altra cosa vorrei sottolineare e riguarda la televisione, che non può formare una persona dal punto di vista culturale. Questa per me è diventata una convinzione. Quando guardiamo una trasmissione televisiva, non apprendiamo molto perché siamo passivi. Leggendo un libro, invece, siamo necessariamente attivi, perché leggere è un atto di ri-creazione. Questo è importante, e vale anche per la lettura sul web. L’altissimo numero di questi siti, però, pone un problema. Come fare la scelta di cosa leggere, come porre un filtro, come distinguere il buono e il cattivo? Per me il libro rimane il punto di riferimento, perché lo si può scegliere. E chi scrive sul libro ci può aiutare a farci un’idea. Sul web invece i siti sono troppi e non riusciamo a capire cosa leggere, cosa vale e cosa no.

Questo però è un problema tipico della cultura digitale…

Sì, serve un filtro, che però non è la censura. Si tratta solo di capire chi sono le persone che scrivono cose interessanti. Prendi per esempio la Francia, visto che io sono anche francofono. Oggi un utente sa che un determinato sito è rinomato e affidabile, e che un altro invece prende solitamente delle posizioni critiche in una determinata questione: è la dimostrazione del fatto che forse, poco a poco, si arriverà a gestire questa situazione. Nel mondo arabo abbiamo di fronte una straordinaria fioritura di spazi digitali e siamo ancora in una fase di transizione.


 

Shukri al-Mabkhout, L’italiano, Edizioni E/O Roma 2017368 pp. 18,50€