Esce, a un anno di distanza dal precedente, il nuovo romanzo di Vanni Santoni: L’impero del sogno (Mondadori). Dopo un lavoro in bilico tra saggistica e narrativa (La Stanza Profonda, Editori Laterza) – che trattava il concetto di immaginario nel mondo del gioco di ruolo avanzando tra le altre l’ipotesi di una sovrapponibilità della complessa finzione ludico-interpretativa alla realtà dei rapporti interpersonali nel mondo dei giocatori – l’autore decide ancora una volta di assumere un punto di vista privilegiato dal quale poter parlare di immaginario.
Lo fa questa volta ricorrendo a un’architettura favolistica, quella che fa ampio uso delle funzioni di Propp (tra i tanti, tantissimi riferimenti presenti nel libro non può proprio mancare infatti quello esplicito a Morfologia della Fiaba), modernizzata secondo il canone sempre più diffuso e apprezzato – nel nostro immediato contemporaneo – dell’ironia metastrutturale. E ricorrendo a un dispositivo narrativo, quello della proporzionalità tra l’ordinamento di esistenza di un mito e l’intensità della devozione a esso che ha nel Gaiman di Sandman e American Gods uno dei suoi più eminenti utilizzatori.
Ma procediamo per gradi. Il libro è diviso in due parti, la prima delle quali segue alternatamente le vicende del ventunenne Federico Melani nel suo paesino del Valdarno – luogo di cui dice di soffrire la staticità, tra i conflitti con una famiglia che gli rimprovera grossomodo di essere disamorato e inerte, un’università nel vicino capoluogo che egli non ha voglia di frequentare, un gruppo di amici che non apprezza del tutto e il rimpianto per una ragazza che l’ha lasciato – e un sogno sempre più vivido che continua notte dopo notte, sul quale “il Mella” – come è conosciuto dai coetanei – inizia a indagare.
Intanto il sogno lo conduce in un palazzetto dei congressi, palazzetto dove scopre di essere un membro della rappresentanza degli umani in una conferenza che ospita una sorta di diorama, accuratamente diviso per delegazioni, degli archetipi junghiani prodotti dall’inconscio collettivo e personalizzati, in un certo senso, dall’applicazione di un filtro di coscienza da parte del protagonista: dai draghi ai sapienti, dai massoni agli antichi dei, dagli scienziati alle streghe, tutti si sono riuniti in quel luogo per rivendicare il privilegio di educare una bambina la cui nascita avviene al centro della sala, davanti agli occhi di tutti, in questa sorta di evento zero di un potenziale nuovo mondo.
La prima osservazione da fare è che il Mella è un personaggio che già esisteva nell’universo santoniano e – come da lui dichiarato e come diviene presto evidente durante la lettura – L’impero del sogno non si inscrive soltanto nella sua continuity, ma ha in qualche modo l’ambizione di fondarne parte dei legami basali, in particolare quelli tra i suoi primi lavori fantasy e le opere che riguardano la “gioventù del Valdarno negli anni Novanta”, di cui la sopracitata Stanza Profonda è l’ultima rappresentante.
La seconda osservazione è che la separazione di questa prima parte in capitoli reali e capitoli di sogno – senza dubbio un’operazione rischiosa – tiene bene soprattutto in virtù dell’abilità di Santoni di troncare al momento giusto le indicazioni su quello che sta succedendo nella “finzione della finzione”; la sua bravura nel lasciare sempre il lettore a secco delle giuste informazioni, la sua capacità – insomma – di costruire i cliffhanger. Anche il meccanismo per il quale dopo pochissimo cominciamo ad essere interessati solamente al sogno, perché davvero nella vita del protagonista non succede niente, funziona piuttosto bene in virtù del fatto che il protagonista è chiaramente un portale, una singolarità nodale del metatesto: quelli che sono cliffhanger per noi lo sono anche per lui, che sta vivendo il sogno come il racconto a capitoli di un libro che si interrompe di continuo – e desidera esserci sempre più invischiato, sempre di più, e arriva a mangiare palline d’oppio e a fare altre stronzate di questo tipo pur di dormire più ore al giorno – esattamente così come la noia dei capitoli di mezzo per noi lettori è la noia mortale che deve provare il povero Mella durante la sua vita. Insomma: l’immedesimazione, in questo senso, funziona.
Funziona invece solo a tratti il linguaggio, soprattutto all’inizio, per la quantità estenuante di descrizioni, particolareggiate nei dettagli dell’abbigliamento, nei colori, nelle forme:
Una voce sgradevole, gracchiante, che mi arriva in faccia come un cencio sabbioso, rimbalza per la sala, per la grande, enorme sala riunioni col suo tavolo ovale di proporzioni innaturali, venti, trenta metri di diametro, e a parlare è un vecchio, o meglio un uomo sui cinquanta ma messo proprio male, scavato, con in testa un copricapo bulboso, nero, fuori proporzione, tunica e barba pure nere, e scapolari istoriati. Alla sua sinistra e alla sua destra due figuri simili a lui: uno con occhiaie belle marcate e cappello da monsignore; l’altro con dei baffacci ispidi, un dente d’oro e il turbante, sempre nero.
E subito dopo, ancora:
A parlare è di nuovo lui: quando si è cambiato? Non più in bianco, ora ha su una camicia azzurra un filo consunta e un trench beige sopra una giacchetta frusta, grigio petrolio. Anche l’aspetto fisico sembra diverso, capelli un po’ più radi ma più in ordine, viso più regolare ma un po’ più pallido… Mi fa l’occhiolino. Ricambio con un cenno. Alla sua sinistra, un uomo tutto gallonato, come un ammiraglio o un generale d’aviazione, con dei minacciosi occhiali neri…
E così per molto tempo, in un affastellarsi di figure – quelle dei delegati – che non rimangono mai impresse per i molti attributi estetici che ad esse sono conferiti, ma anzi sono in questo modo rese confuse e più complicate da afferrare, per poi magari ancorarsi alla memoria grazie a una battuta di dialogo, grazie a un movimento o a un’azione. Descrizioni precise quanto sterili, quindi, che potevano forse essere liquidate in poche righe.
E un timbro che nel complesso non ho sentito dotato di una sua identità precisa – questo a differenza del precedente lavoro di Santoni –, un timbro a volte sciatto e un po’ sommario, a volte pomposo oppure ultra-riferito; certamente questo contrasto fa parte del gioco di filtri ironici e citazioni che l’autore ha deciso essere l’involucro congruo per il suo progetto di scrivere una storia su uno specifico immaginario (variabilità di tono quindi, la presenza di voci che vengono dai ricordi, un po’ tutto un universo uomo) , una scelta condivisibile che lascia però l’impressione che ci siano momenti in cui diventa ingestibile, in cui non riesce ad adempiere al suo compito di soddisfare un palato che cerca anche una bella scrittura, e allora infastidisce e non fa ridere, e corre il rischio di stancare anche – come stancano le cose che per funzionare devono sempre essere interpretate in un’ottica più ampia.
vedo un apparato muscolare spiegato a voce dall’istruttore di una palestra a Buenos Aires e la pelle strappata a un martire a Costantinopoli e degli organi espiantati a un cadavere per lo stupore e il disgusto di studenti di anatomia a Utrecht, vedo un sistema cardiovascolare camminare sulla 68a tavola di una versione alternativa e quasi del tutto identica all’originale di Watchmen; vedo un bambino di tre anni che tocca un termosifone spento, bianco e un filo scrostato, e dice «mamma, ho tre anni?» e sono io.
Discorso a parte vale invece per i dialoghi, sempre semplici ed evocativi, spesso divertenti, capaci di tirar fuori un personaggio con poche battute e testificare – anche più del flusso in prima persona – le variazioni d’animo del protagonista. Sono, insieme alla costruzione dell’intreccio, il vero motore che traina l’inizio del libro.
Quanto detto vale comunque solo fino al cambio di ritmo, che avviene quando siamo ormai oltre la metà della prima parte.
La tensione narrativa si alza, e questo succede principalmente per l’acquisizione di una posta in gioco: la scoperta che agire nella maniera sbagliata nel sogno – un sogno che il Mella scopre essere forse condiviso anche da altre persone, persone reali – potrebbe comportare persino morire nella realtà. Ecco che il mondo ordinario diviene straordinario. Siamo entrati in una seconda fase, quella in cui realtà e finzione si intersecano:
di un senso di predestinazione che mi viene da quell’energia nuova, da quella nuova decisione verso la realtà (oddio, “realtà”…), ecco un crocicchio, e in mezzo non manca il tombino che mi aspettavo.
In realtà – come sopra è anticipato – i due mondi sono destinati a diventare uno solo; prima, però, il protagonista deve essere chiamato a superare le sue debolezze, facendosi carico di una sfida che va oltre le sue possibilità: assumersi la responsabilità della bambina su cui ogni delegazione presente nel palazzo dei congressi vuole mettere le mani.
Qui inizia il vero viaggio dell’eroe, costruito in maniera piuttosto classica tra varchi delle prime soglie (i monacielli, poi gli spiriti dell’interstizio, per arrivare infine ai draghi, tutti mostri da combattere) e mentori inconsapevoli (una delle ragazze che sarebbero dovute essere con lui parte della delegazione), abilità specifiche e uniche dell’eroe (il suo provenire dal mondo dei giochi di ruolo e dei giochi di carte, dei libri fantastici e dei film di genere, il fatto di conoscere il territorio dei suoi stessi sogni, il fatto di appartenere alla prima vera generazione di videogiocatori) e difetti fatali (per uno che ha problemi con il diventare adulto mica male come sfida ritrovarsi improvvisamente con una figlia).
Un’attenzione così estrema per gli step di evoluzione della fabula volta alla riproposizione quasi maniacale di meccanismi canonici del genere fantastico – e vedremo come sia, questa, l’operazione più interessante nonché il pilastro del fitto sistema di risonanze del romanzo – che spinge Santoni a ricorrere a una funzione varco obbligata: la catabasi. E, nell’ottica della sopra citata continuity, nell’ottica delle comunanze tematiche – l’immaginario e i suoi motori, l’immaginario e i suoi derivati – tra questo e il precedente romanzo, la discesa del Mella non sarebbe potuta che avvenire nella Stanza Profonda. Il Mella maltollera la Stanza Profonda, e in qualche modo odia il master voce narrante del romanzo precedente, tuttavia – in cerca di un suo vecchio manuale che possa dargli uno spunto per sognare un’arma adatta a sconfiggere dei draghi – è spinto a interrompere una sessione di gioco.
Per comprendere l’importanza simbolica di questo evento, che è una sorta di punto di discontinuità, un limite non asintotico all’interno della retta fino ad allora continua degli eventi esterni, basti pensare che esso è anche il punto di convergenza tra La Stanza Profonda e L’impero del sogno (nel primo la stessa scena è anche presente, ma raccontata dal punto di vista del master, l’altro narratore).
Uscito dallo scantinato, manuale alla mano, pronto ad affrontare nuovamente i suoi sogni, il Mella trova una realtà che non è più la stessa: avviene infatti da lì una scossa nei piani di sogno e realtà, piani destinati a coincidere perfettamente, per consentire al protagonista di attraversare la fattualizzazione ambientale dei riferimenti che – tutti uniti – costituiscono un immaginario, il suo.
Qui Santoni comincia a togliersi i primi sfizi: ora che il sogno è più vivido che mai, prende l’immaginario del Mella e se ne serve per fare un po’ di “pornografia”.
Avete mai tirato giù un drago d’oro con due missili da un elicottero da guerra del futuro? Be’, lasciate che ve lo dica: sono soddisfazioni. Guardarlo sfracellarsi a terra dopo l’esplosione, lasciare un solco di un centinaio di metri prima di fermarsi, carcassa squarciata e fumante, su un mucchio di rocce rosse…
Questo in fin dei conti è almeno parte di quello che ci aspettiamo da un’opera del genere: che permetta al lettore – a questo punto immedesimato – di poter godere di qualche scena in cui si sente onnipotente, momenti che cercano i fruitori di videogame, che cercano i fruitori di giochi di ruolo, momenti in cui la macchina immaginativa accelera a frizione abbassata, per il gusto di vedere il rumore che fa. E sinceramente, trovo in questo genere di passaggi un profondo senso di rispetto per il lettore, un piacere e una consapevolezza, anche, e quindi una dedizione sanguinale; una manifesta chiarezza di intenti.
Ecco, da questo momento tutto comincia a funzionare diversamente. Perché la storia assume dinamismo, certo, ma principalmente perché si realizza il sistema di risonanze che rappresenta l’elemento più riuscito del libro.
Lo spazio della narrazione diventa di altro tipo proprio in virtù della sovrapposizione: innanzitutto è uno spazio dai connotati reali; in secondo luogo è uno spazio di sogno, in cui molto può accadere. È chiaro come questo “molto” abbia bisogno di alcune leggi, per non scadere nel troppo, e canalizzando gli sforzi del lungo preambolo che è la prima parte Santoni ne stabilisce due.
Innanzitutto, lo rende sensibile e dipendente dalle credenze nutrite dalla gente (appunto, Gaiman), in modo tale da rendere il protagonista in grado di affermare «Le strappo di mano il volumetto. Un libro da mercatino di paese, Edizioni Gnosis, Guida agli Oggetti Magici, Misteriosi & Inspiegabili in Italia & nel Resto del Mondo» e riferirsi al contempo a un compendio di oggetti concreti e funzionanti, che possiedono statuto di realtà, che posseggono dei poteri; una vera e propria guida del giocatore. Parliamo di uno spazio dove è possibile tracciare un percorso che attraversa – in infinitesima parte certo, ma la attraversa – una mappatura del fantastico in Italia, perché una determinata leggenda è reale in base a quanta gente ci crede, e in base all’intensità con cui lo fa.
In secondo luogo chiarisce che la sua costruzione – una costruzione intesa come sempre in corso d’opera, mai definitiva – è quella tipica di un campo auto-indotto: la regola del nuovo mondo di questa seconda parte è che il protagonista è il primo artefice di ogni trasformazione; i pensieri e le impressioni del Mella donano un “certo colore” a ciò che succede. La stessa Livia non perde occasione per ricordargli che lui è l’artefice dello spazio nel quale si muovono come della gran parte degli agenti che lo popolano; un po’ come se gli archetipi junghiani emettessero onda e questa onda generasse interferenza con lui.
Questa consapevolezza, del protagonista, di essere il principale generatore del flusso nel quale è immerso, convoglia nella voce narrante ogni passaggio metanarrativo e fertilizza la scrittura della possibilità di un’ironia funzionale e funzionante; è l’ironia sulla consapevolezza della struttura nella quale si è inseriti – accadimento sempre al confine tra divertissement e tragedia – cioè della consapevolezza di essere tutto e niente. Acquistano una forza particolare, così, frasi come: «lui che viene come respinto verso il muro dalla sua sola aura, senza neanche essere sfiorato dalla punta, cos’era, Ushio & Tora?».
Il riferimento di Ushio & Toria è del narratore, che poi è il protagonista, ed è un riferimento che fa parte di un immaginario – il suo – che gli si è concretizzato davanti, perché se non ne facesse parte non potrebbe, per le regole del nuovo mondo, accadere; ma al contempo è anche un riferimento dell’immaginario dell’autore, perché l’immaginario del protagonista dev’essere certo un sottoinsieme al massimo improprio di quest’ultimo. Abbiamo quindi un personaggio che interpella la struttura del libro nella forma impermanente di quello specifico accadimento, ogni volta che interpella se stesso riguardo all’accadimento stesso. Ciò in un discorso sull’immaginario in cui due ragazzi – che a loro modo, entrambi, rifiutano la realtà – cercano di proteggere questa sorta di divinità bambina che macina riferimenti per trasformarli in immaginario, cercano cioè di mettere in salvo un dispositivo generatore di senso da chi? Dall’immaginario, cioè dal senso stesso. Che poi è quello che li rende, in quanto personaggi, possibili.
Solo in virtù di questo cortocircuito intorno all’immaginario risulta giustificabile l’elevata quantità di citazioni, apparenti esercizi di esibizionismo che invece diventano elementi di struttura. E solo in virtù di questo guadagnano grande forza ironica gli “spiegoni” diretti sulle prese di coscienza del protagonista, come quello – in discorso diretto – clamoroso nel finale, o come alcuni precedenti più ridotti, che assumono la forma di cronaca da parte del protagonista dei momenti morfologici in cui si trova (ora sto uccidendo mio padre, ora ho acquisito consapevolezza, etc.).
Ecco quindi che il notevole esercizio di risonanza di Santoni è un fiume circolare che sgorga dall’immaginario per sfociare nell’immaginario; è d’obbligo domandarsi quindi: quali sono i suoi connotati?
Per tornare all’immagine dell’insieme dei riferimenti dell’autore che contiene l’insieme dei riferimenti del protagonista – e quindi lo spazio delle coordinate nel quale egli si muove –, non esiste una demarcazione netta tra l’interno del secondo e la parte restante del primo, proprio come non c’è demarcazione tra la base interna e quella esterna in una bottiglia di Klein, o per meglio dire in qualsiasi punto tu ti trovi non sai mai se sei dentro o sei fuori; senza dubbio è possibile fare una distinzione tra i riferimenti più chiaramente letterari (e sono espliciti tra gli altri Calvino, Borges e Bolaño), quelli alla cultura video-ludica e dei giochi di ruolo, che senza dubbio aprono a un mondo che almeno in Italia è narrativamente poco esplorato e infine quelli al territorio e alla sfera del “vivere sociale”.
È interessante notare come nell’universo di Santoni questi elementi traggano forza l’uno dall’altro, siano la conseguenza l’uno dell’altro, e come il Mella incarni bene il prototipo del ragazzo alla deriva in una dimensione, quella della provincia, che comincia a diventare sempre più debole al paragone con la disponibilità di svaghi immaginativi che il mondo mette a disposizione. Il Mella, e così anche il narratore della Stanza Profonda, sono un po’ una versione alfa dell’adolescente del ventunesimo secolo, che sommerso dagli stimoli non può più nominare la realtà, e per questo perde di vista la differenza tra la vita “digitale” e quella fisica.
Si potrebbe parlare ancora a lungo di questo libro, ma credo di essermi dilungato abbastanza. Mi limito ad attestare l’intelligenza con la quale L’impero del sogno plasma una struttura comunicativa moderna e molto in voga (è il caso ad esempio di un eccellente prodotto animato quale è Rick & Morty) al servizio della scrittura di Santoni, scrittura che – tuttavia – potrebbe forse essere più centrata e consapevole. Questo non inficia la riuscita di un prodotto ambizioso e carico di passione, un romanzo godibile su più livelli, adatto a chi cerca la complessità di una costruzione raffinata tanto quanto a quelli che vorrebbero solo rendere un po’ più italiano il sogno di volare, come in Harry Potter, a bordo di una macchina volante.
Vanni Santoni ce lo permette, e a bordo di una Golf GTD sulla Toscana fino ad atterrare a Firenze, che mi sembra molto importante. In fondo è solo (urban) fantasy.