Questo testo è stato scritto in occasione della presentazione del XIII Quaderno di poesia italiana contemporanea, lo scorso maggio, alla libreria Assaggi di Roma. Insieme al curatore Franco Buffoni e ad alcuni dei poeti erano presenti, con l’autrice, Guido Mazzoni e Maria Grazia Calandrone.
Il Quaderno italiano di poesia contemporanea diretto da Franco Buffoni segnala, come ogni due anni, l’emergere di una nuova generazione di poeti. Questo mi fa pensare anzitutto a un’idea che nell’introduzione all’antologia Parola plurale, di oramai dodici anni fa, Andrea Cortellessa mutuava da Antonio Prete: la coesistenza e la concomitanza di poeti appartenenti a diverse generazioni entro il medesimo arco temporale. Donde la scelta degli otto curatori di quell’antologia non ancora troppo invecchiata (degli oltre 60 poeti radunati, all’incirca una quindicina sono quelli effettivamente già sommersi o del tutto scomparsi) di censirli a partire dal floruit e non dall’appartenenza anagrafica: si rimarcava in questo modo l’evidenza che nello stesso ambito letterario convivessero autori nati in anni diversi e in alcuni casi molto distanti, e che quelli più vecchi non andassero considerati dei “sopravvissuti” ma pienamente calati nella loro epoca. Così era accaduto tra i Sessanta e i Settanta, in cui Montale era stato contemporaneo di Balestrini, anche se li dividevano quasi quarant’anni all’anagrafe (nato nel 1896 l’uno, nel 1935 l’altro), con tutto ciò che tale coabitazione implicava in termini formali, di stile, di reciproche influenze e di adeguamento ai tempi, se i poeti, foscolianamente e sanguinetianamente, ne ricevono la qualità.
Il floruit, dunque, ovvero l’emersione del poeta nel campo e non la classificazione in rapporto alla sua data di nascita. I Quaderni si regolano in modo non dissimile, almeno a considerarli nella lunga durata, e da 26 anni accompagnano l’emersione della miglior poesia contemporanea, con alcuni poeti che hanno riconfermato nel tempo la loro appartenenza di aerea (Stefano Dal Bianco, Guido Mazzoni, Maria Grazia Calandrone, per citarne un campione esiguo, rispetto ai tantissimi antologizzati) e altri che hanno invece intrapreso in modo più deciso ed esclusivo la via della narrazione (tra cui Emanuele Trevi, Mario Desiati e Flavio Santi, che in questo Quaderno è prefatore di uno dei poeti). In ogni caso, a sfogliare i Quaderni, quello che sorprende è che ogni autore vi si presenti come pienamente maturo: dei poeti che verranno si rendono da subito visibili le marche di stile, al punto che spesso il primo libro autonomo o almeno una sua ampia sezione è da lì che viene (vale per la sottoscritta con Stagioni, per Guido Mazzoni con alcune poesie de I mondi e in altri casi). E tanto che, in realtà, come ha sempre ricordato Buffoni, il Quaderno si può considerare una raccolta di sette libri, più che un’antologia di poesia. Per me e la mia tornata, quella del Decimo, uscito nel 2010, fu una festa (eravamo quasi tutti esordienti) e l’occasione di un vero e proprio tour in giro per l’Italia: ci ritrovavamo a ogni presentazione in formazione completa o quasi, nascevano o si consolidavano amicizie, si producevano rivalità o antipatie, com’è inevitabile in ogni consorzio umano. Rispetto a quella generazione di “inquadernati”, il XIII Quaderno segna una svolta, a mio parere, che definisce effettivamente la qualità di questi tempi: i poeti sono sempre molto individuati e caratterizzati, alla maniera degli altri Quaderni, ma al tempo stesso hanno dei tratti comuni che li collocano in quell’area che si è sempre più precisata e definita, negli ultimi anni, come lirica (o neo-lirica) contemporanea. A leggere Franca Mancinelli e Daniele Orso, ad esempio, anche se la prima predilige le forme più libere, sconfinando nella prosa, e il secondo ha una metrica più rigida (terzine addirittura), si sente un’aria di famiglia a livello di costruzione dell’immagine, prima che di uso della lingua e di scelta del genere. Le cose sono viste, conosciute, avvicinate secondo un’idea che direi classica (se non regressiva) e anche se ci sono i telefoni (in Orso, e addirittura le chat, in Claudia Crocco) o le macchine e i motori (in Mancinelli), il mondo è non già un orizzonte tecnologico, cibernetico o post-umano e nemmeno ormai una foresta di simboli: alberi, fiumi, torrenti, colli, sole, sentieri, erba, tane, rastrelli, spighe, innaffiatoi, interni rurali sono l’ambiente fisico di questa poesia (ambiente reale, direi, se alcuni degli autori vivono effettivamente nei paesi e non in una metropoli).
Nella poesia, come nella narrativa contemporanea (penso a opere recenti come L’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio o Borgo vecchio di Giosuè Calaciura), la realtà è sorprendentemente resa attraverso un immaginario che arresta lo sguardo a un orizzonte naturale, di sicuro non tecnologico e meno che mai informatizzato (anche se poi i versi ormai cominciano tutti con le maiuscole – probabilmente come impone word, più che per scelta deliberata). L’io è sempre molto centrato e il suo autoriflettersi determina una configurazione degli eventi in termini di accadimenti soprattutto interiori, quasi nel vuoto di fatti (penso alle guerre, ai migranti, a un orizzonte anche solo latamente politico). Per converso, se prendo le poesie di Mancinelli in cui compaiono motori e macchine e le paragono alle Osservazioni di Nathalie Quintane (ottimamente tradotte e divulgate da Michele Zaffarano), in cui il massimo dell’evento è il gomito che esce fuori dal finestrino quando si viaggia (quella che Jean-Marie Gleize ha chiamato la littéralité), registro che in quelle non vi è alcuna concessione all’epica del minuto e dell’insignificante e piuttosto un’identificazione del sé con l’inanimato, come nota Antonella Anedda accostando la poesia sull’abbandono di Mancinelli all’opera di Sophie Calle. Nemmeno si può parlare di disturbo, intoppo della percezione, senso profondo dello choc: anche quando le cose invecchiano, decadono, muoiono, c’è sempre la visione pacificata della tradizione lirica a riconfigurare se non l’idillio, un’alterità extraumana complice o solidale. E poco importa che, come scrive Flavio Santi nell’introduzione a Orso, convivano i Baustelle e Fortini in questo Quaderno e finanche nello stesso autore: la matrice è assolutamente classica, classica è l’idea di come si debbano vedere le cose, come vadano sistemate in un componimento, rese in versi e partecipate. Se poi si sconfina, è in effetti alla canzone pop che si guarda, non alle forme poetiche della ricerca contemporanea. Non distantissimo da questa temperie è Antonio Lanza, che predilige arcaismi e invenzioni verbali di impronta dantesca (magari di un Dante ripassato da Caproni: «la città affocata», «lei appietrata», «piàcciati entrare intera nel mio canto») e recupera, effettivamente, un’idea poematica nella scansione ebdomadaria dei componimenti e nel luogo-simbolo di Etnapòlis (il centro commerciale in cui si ambientano i suoi versi). La nota stonata, la sorpresa, il desinit in piscem è Jacopo Ramonda, che con la dedica ad Andrea Inglese della seconda sezione rende esplicito il debito con i Prati e in generale con la tradizione della «prosa in prosa» (prosa «dopata», dice Buffoni nell’intervista a Fahrenheit, citando Valerio Magrelli): squarci di realtà minuta, accidentale, con la ricorrenza dei nomi che occhieggia la narrazione, senza però la prigionia della trama e il miraggio del romanzo (nota Umberto Fiori nell’introduzione che dove Fabio Volo scriverebbe un romanzo – per le masse, Ramonda si affida alle «ragnatele», ovvero ai frammenti di una «condizione desolatamente comune»), miraggio che ha finito peraltro col contagiare, negli ultimi anni, tutti gli autori di «prosa in prosa» o quasi. Se nella seconda parte della raccolta di Ramonda c’è quindi un’influenza diretta di Inglese, nella prima la dominante è broggesca (dalle Avventure minime di Broggi, cioè), con gli interni coniugali, le separazioni, l’incomunicabilità, i cliché. Il mondo è di nuovo uno scatto mosso, sfocato, non un’asserzione, nella cosiddetta post-poesia o nel genere de-genere, ed è questo un momento importante di tangenza tra le due aeree (quella lirica e neolirica e quella della ricerca o post-lirica), lo dichiarino o meno gli autori e consuonino o meno i linguaggi.
Aggiungerei una postilla che è anche una domanda per i poeti (e non solo quelli del Quaderno, evidentemente): se, come mi pare e come già mostrava in qualche modo Parola plurale, la neoavanguardia dà i suoi frutti nel ’71, e cioè dieci anni dopo l’uscita dei Novissimi e vent’anni dopo la stesura delle prime poesie di Laborintus, ovvero dal momento in cui la sua influenza poteva dirsi pienamente attiva perché gli altri poeti, ad esempio Pasolini e Montale, cambiavano modo di scrittura (nel caso specifico, pubblicando Trasumanar e Satura), la poesia di ricerca nell’orizzonte contemporaneo non è ancora effettivamente operante o non pienamente penetrata a livello tanto di forme che di linguaggi (a partire dalla destituzione del primato di quello verbale e dalla compresenza e ibridazione di visivo, sonoro, installativo nel testo presentato comunque come poetico)? I modelli più o meno dichiarati dalla maggioranza degli autori, in questo Quaderno, non sono infatti né i coetanei, per tornare al discorso di partenza, e nemmeno transgenerazionalmente i contemporanei (penso a Carlo Bordini o a Guido Mazzoni), ma piuttosto i poeti “andati” o i “sopravvissuti”, da Montale a Luzi a Sereni, con qualche sporadica incursione (ad esempio in Stefano Pini e Crocco) nella poesia che scrive oggi Milo De Angelis: dunque l’orizzonte, a parte il cantautorato, resta interamente lirico. Col sospetto che l’ancoraggio alla lirica sia in realtà un portato non di questi ma di tutti i tempi poetici, o perlomeno dell’ultimo cinquantennio, se valeva già per la neoavanguardia, stando ai detrattori, l’accusa di reprimere le valenze comunicative ed emotive a vantaggio della “verifica permanente”. Se non a questo, ai prossimi Quaderni (e “inquadernati”) l’onere della risposta.