Turbative siderali è il libro d’esordio di Giovanni Ibello, giovane poeta del 1989. Diviso in tre sezioni, il libro è costruito intorno a due nuclei principali: da un lato, il mondo naturale, vegetale e animale, e dall’altro invece quello metropolitano di una Napoli livida, solitaria e travolta. E proprio lo sguardo che Ibello riserva al mondo naturale, con le sue tinte accese e la crudezza delle immagini, è emblematico della poetica dell’autore, e ci riporta alla mente alcuni esiti del primo Gottfried Benn, quello di Morgue, per intenderci. I fiori, gli alberi, e soprattutto i numerosi animali di questa poesia, sono tutti attraversati da un grido, sono abitati da una forza distruttrice. Sono animali mutilati, corrosi, presi per sempre nello stesso turbine rovinoso che trascina con sé gli esseri umani, e ne sono anzi la prefigurazione. Vi sono infatti «carcasse di poiane» in cui si scorge l’anticipazione della propria caduta; gatti e topi spezzati da un rantolo; e poi «maiali sgozzati | riversi su di un fianco». Riconosciamo in queste immagini non tanto la perizia logica di un correlativo oggettivo, quanto piuttosto la furia panica che spacca da dentro il respiro degli esseri, restituita senza mediazioni, ma mediatrice di conoscenza. Da quella crepa avvertiamo il rombo sordo delle potenze elementari, l’agitazione che squassa la materia, e ne traiamo un’intuizione sulla natura dell’essere, che è attraversato da una frattura, da un vuoto di cui la poesia deve dare conto: «non scrivo di silenzio, ma di vuoto».
Di tanto in tanto, sapido palliativo, l’amore giunge ad allentare questa stretta; ma forse è una trappola, e l’amore stesso non fa altro che esacerbare il conflitto, in virtù della violenza corporea, dell’urgenza sessuale che porta con sé, come la sua ferita immedicabile…
E poi, su tutto e dietro a tutto, inafferrabile e cinerea, arcaica e neomelodica, la città, Napoli, che non si presenta mai come insieme organico, ma sempre nelle sue parti disaggregate: un muro sbreccato, colpito dalla folgore degli anni; il marciapiede dove pulsa la ferita della bestia accasciata; l’auto spersa tra i casermoni dove si consuma il dramma di solitudine dell’uomo; la gigantografia di Maradona che ci parla di una perdita e di una nostalgia più remote, originarie. È come se un sisma avesse colpito il mondo di Ibello, e il poeta cercasse ora i due pezzi di cemento che combaciano, due fili di ferro da cui lavare via il sangue, quello versato dal cuore inerme delle cose.
Questa Napoli dal «sole nero» reca in sé, come incisa nelle sue vene sulfuree, «la lesione tellurica del buio», la stessa che sancisce il destino delle creature che la abitano. E lì, in quella faglia dei muri e delle strade, in quella furia elementare di cui ogni essere è perimetro ed epicentro, è scritto il nostro nome, «nell’aroma sulfureo della rena, nell’eco greve dei suoi spazi». È una guerra che si combatte tra gli elementi, al fondo inaccessibile delle cose, di noi. È la forza terremotante di Polemos – «padre di tutte le cose» secondo Eraclito – a reggere le sorti degli esseri. Nella tremenda consapevolezza che la vita di cui siamo chiamati a rispondere sembra affiorare da un buio senza causa, senza meta e senza origine:
Il tuorlo magmatico dell’alba
si sgretola nei cardi.
È questo il destino dei corpi:
le amnesie lunari
la lesione tellurica del buio.
Mai nessuno
ci ha chiesto di essere vivi.