Nel saggio dedicato a Piergiorgio Bellocchio, contenuto in Soli e civili (Edizioni dell’asino, 2011), Matteo Marchesini sosteneva che oggi un giovane intellettuale si trova in imbarazzo nel discriminare a livello estetico tra le varie contraffazioni e i pochi originali messi sul mercato culturale; da qui il ruolo prezioso dell’autore dei «Quaderni piacentini» come fratello maggiore dall’illuminante senso critico. In tale direzione False coscienze (Bompiani, 2017) è un titolo che si adatta perfettamente al tema, a patto di partire proprio dalle mistificazioni interiori di critici ed intellettuali stessi. Ciò che anche nel romanzo Atti mancati (Voland, 2012) caratterizza il «frustrato, donchisciottesco, impaziente, dispersivo» protagonista, Marco Molinari, giornalista e romanziere in crisi, a cui la propria vita sembrava aver «tolto l’audio all’esperienza», cosicché la sua opera consisteva in un barare solo di parole. E Bernardo Pagi, palese controfigura di Alfonso Berardinelli e maestro dell’autore, ricorda ancora una volta quanto il contemporaneo ceto colto di massa si pasca di surrogati e quanto il romanzo, su cui Marco continua ad arrovellarsi, sia ormai prevalentemente «un genere editoriale». Anche nelle belle poesie raccolte in Cronaca senza storia (Elliot, 2016) il motivo del “collaborazionista” culturale, che assapora la «liscia servitù», dell’«essere a metà / tra astuta scimmia e strano polemista» ritorna fortemente: «Non essere la scimmia che trasforma / la materia in parole, / le parole in giudizi, ammicchi o smorfie». A fronte della problematica dedizione al lavoro culturale sta, minacciato dalla stessa letteratura e ugualmente dall’inautenticità, il rapporto di coppia; ad apertura di raccolta:
La fantasia è una realtà sfregiata,
l’amore un bisogno di umiliare.
Perfette la scissione, le metà:
da adesso vivere è solo ingannare […]
Solo la malattia dell’ex-fidanzata, che in Atti mancati inopinatamente ritorna a Bologna, con l’idea che «tutto deve essere detto», può in parte rompere il mondo «asettico», sciogliere l’atteggiamento febbrile e pigro, i nodi irrisolti nel passato del protagonista. Tornando al libro di oggi, False coscienze, si tratta di tre racconti che completano la precedente e variegata produzione di Marchesini spaziante dai romanzi agli scritti per ragazzi, dalle poesie alla critica letteraria per la quale è forse più noto. La comunanza del luogo, Bologna appunto, già satireggiata in Una città fatta a pezzi (Pendragon, 2010), non solo sfondo ma brodo di coltura di tutti questi intellettuali post-laureati e post-dottorati, nonché dello stile riflessivo in prospettiva di scavo, spesso mordace ma del tutto pulito nella lingua, garantisce tuttavia una solida coerenza. Il primo racconto ci conduce all’inaugurazione della casa di una giovane coppia che si sta per separare. Anche Dario, il protagonista e narratore, è l’intellettuale dalla «lucidità fredda», che notomizza sé e le figure che gli stanno intorno, di cui registra parole e gesti sempre un poco recitati e parodici: «volontà primordiale e ostinata di credere che quello che sto vivendo non sia mai la realtà vera». Così, con i vecchi amici per nulla risparmiati, tornano a parlare del loro vecchio idolo, Patrucco, comico televisivo contraffattore, e dei Patrucco della cultura italiana: Severino per la filosofia, Scalfari per i maestri del pensiero, Scurati per lo scrittore impegnato etc.
Se qui si balla tristemente sul Titanic di coppia che va affondando, il secondo racconto entra più decisamente nella satira: B. Lojacono è uno dei redattori di una rivista di neolaureati; il più silente, che incuriosisce il narratore come un mistero assolutamente vuoto, insondabile come ogni «abisso d’imbecillità». Eppure sarà lui il prescelto dal comune maestro Bordiga, docente universitario che anima, al modo di Celati, un suo cenacolo: una sottile beffa del creatore, che però al modo dei classici dell’orrore, non controlla più la sua creatura. Lojacono, in un mondo che, come detto, non distingue più geni da patacche, sarà pubblicato come romanziere da una importante casa editrice, diverrà subito consigliere comunale di centrosinistra, si presume tra non molto anche accademico. Su tutti i giovani, impauriti, intellettuali spira del resto l’aria della contraffazione, a partire dal Maestro che teatralmente recita l’ascolto, impone uno stile dalle parole false, «infantili e succose», di cui l’assoluto clone è in fondo il più innocente con i suoi ripetuti «imprescindibile».
Marchesini si sofferma sempre sul linguaggio: in Atti mancati il gergo post-paninaro di Lucia, per esempio; nel primo racconto il gergo amicale («carica»; «illegale» per pessimo esteticamente), nel terzo (La voce del coniglio appunto) la «lingua verbosa e inappagata» del protagonista e della sua ex, che mima, bamboleggiando, una relazione sentimentalmente estenuata e infantile. Insomma quello che, con la poesia Il patto, si potrebbe definire «il mostro / dell’idioletto». La voce del coniglio, l’unica narrazione nella più distante terza persona, potrebbe darsi come presupposto delle precedenti, mettendo in scena il furibondo Edipo del consueto intellettuale con la Madre Magna Scrofa, «statuaria, solenne, bellissima a suo modo». Ottima dialettica, prepotente nella personalità e super lavoratrice di casa, è ora anziana e malata di Parkinson; i lunghissimi (anche per il lettore) scontri verbali con il figlio, sempre più violenti, conducono allo scontro fisico in cui ha la peggio.
I racconti, che hanno il notevole pregio della diagnosi delle figure di un ceto contemporaneo, oltre che quello mai nascosto dello smascheramento morale e fortiniano di sé, tramati come sono dall’ossessione del falso e dalla sorveglianza autoinflitta, scontornano a nuovo la figura gaberiana del “bloccato”. Un’amara dichiarazione d’impotenza forse ormai soltanto travestita con l’eccesso di coscienza. Resta tuttavia qualche perplessità sulla resa narrativa degli inganni e dei compromessi che élites, per il resto ormai isolate, spartiscono ormai con tutta quanta la società. Soprattutto nell’innesto sul corpo del racconto, riflessivo e satirico, ben in linea con le figure dei protagonisti, di finali un poco forzati. Pare infatti che l’autore soffra l’impasse del proprio personaggio e del racconto (in realtà, come detto, perfettamente conchiusi nel subliminare ipercritico di stampo saggistico), sovraimponendo un gesto violento – nel primo racconto è l’ovvia tensione del non detto che viene scaricato su un tanghero di passaggio –, una scena ad effetto (l’altra madre, quella di Lojacono, scoperta dal gruppo), o ancora un surplus di malattia, come pure in Atti mancati, per risolvere la vicenda. Si sfocia così per paradosso nel romanzesco; proprio quella piegatura proficuamente ripudiata dall’autore e che viceversa accompagna l’attuale persistente preminenza, nell’editoria italiana, del racconto di imitazione americana. Le chiuse, incisive eppure sfumate, di tante poesie, che si avvalgono, e discrete nascondono, quel po’ di eccesso che sta nella rima, potrebbero in tal senso indicare una migliore strada.