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È difficile inquadrare in maniera appropriata la figura di Joyce Carol Oates. E non basta dire che si tratta di una delle autrici più prolifiche del XX secolo, con più di cinquanta libri scritti, altri undici dietro pseudonimo, e di centinaia di racconti, poesie, opere teatrali, storie per bambini e saggi. Neanche la quantità riesce a restituire il calibro letterario di una delle principali interpreti della letteratura americana contemporanea. La malleabilità del suo stile non ha mai disdegnato di cimentarsi in diversi generi: dal romanzo drammatico, alla detective story senza dimenticare il gotico. La difficoltà per i critici sta nell’incasellare una tendenza tutta singolare, in grado di plasmare il genere a seconda delle esigenze della storia.
Un’idea del peso letterario della Oates la si può avere con i quattro volumi dell’epopea americana appena pubblicata dal Saggiatore. Quattro storie indipendenti legate tra loro da un unico intento: restituire il ritratto del sogno americano lungo un decennio facendo attenzione ai significati e agli sconvolgimenti che questo comporta per le giovani generazioni. Qui cercherò di individuare un progetto letterario mastodontico che porta lo stile inconfondibile della Oates: ricorrerà uno sguardo neutrale e mai storicamente critico, una prosa lenta e ricca di descrizioni che veicolerà, in modo innovativo, temi innervati nella letteratura americana.
Il giardino delle delizie: le origini
Il giardino delle delizie (traduzione di Francesca Crescentini) è il primo capitolo della quadrilogia. Tutto inizia dal lavoro nei campi: una digradante discesa nel mondo di soprusi, sfruttamento e spettacoli paesaggistici il cui fascino estatico contrasta con le fatiche umane. Le tappe in Arkansas, in Florida, in South Carolina e nello stato di New York compongono una geografia dell’America proletaria che, soprattutto nella prima parte, condivide la potenza delle immagini di John Steinbeck.
Nelle lande dolorose dove persino l’amore è un sentimento più orientato alla soddisfazione istintiva, si sviluppa la storia della famiglia Walpole. Carleton è il capofamiglia e la voce narrante del primo capitolo: un fiero lavoratore plasmato dal suo tempo i cui capisaldi vitali non vanno oltre il possesso del denaro e il dovere di padre:
Poter pensare Ho un libretto di risparmio era già abbastanza, perché era vero, nel gruppo di bastardi derelitti su quel camioncino Carleton era certo di essere l’unico con un conto in banca, custodito dalla First Savings & Loon Bank di Breathitt, Kentucky.
Proprio con Carleton Joyce Carol Oates compone una prima versione deviata, ma forse predominante al tempo, dell’identità americana e la rende virale anche per le generazioni successive. La differenza economica e lo stato sociale, da soli, elevano Carleton rispetto agli altri e in tale processo di ascensione non c’è posto per la moralità. Sarà proprio il temperamento dell’uomo, soggetto a violenti attacchi di rabbia, a spezzare il legame speciale con la figlia Clara. La fine di Carleton – una fine magistrale e lirica che ricorda la tragicità e il mistero dei racconti di Flannery O’Connor – segna anche la conclusione di uno stile in grado di cambiare completamente registro nella seconda parte.
I capitoli di Clara, Lowry e Swan abbandonano il ritmo e la contemplazione del lavoro nei campi per trasformarsi nella velocità del boom economico. Si abbandonano i paesaggi rurali per addentrarsi nella sporcizia, nel fumo dei tubi di scappamento, nel lavoro con il sogno di farsi da sé. È come se l’ambiente agisse sui personaggi, non schiacciandoli con la maestosità dei campi coltivati ma donando loro spazi angusti dove sperimentare la solitudine e il pieno controllo delle proprie emozioni. Essere artefici del proprio destino, tuttavia, Joyce Carol Oates lo declina con l’assoluta libertà che vira, paradossalmente alle origini. Clara, infatti, riuscirà a riscattarsi socialmente, ma le meccaniche di un amore complesso e a tratti disturbante con Lowry la riporteranno, seppur in modo diverso, alla brama di una vita agiata, in un freddo calcolo di un amore conveniente. L’impalcatura sociale e politica del romanzo sgretola il sogno americano sotto le sue contraddizioni.
Il giardino delle delizie è stato composto tra il 1965-1966 e ha subito una totale revisione da parte dell’autrice nel 2002: «era come se avessi cosparso di benzina tutto quello che mi circondava e avessi acceso un fiammifero e le fiamme che ne sono follemente scaturite erano, in qualche modo, il combustibile del romanzo e il romanzo stesso». Qui la combustione non fa parte di un processo inesorabile di oblio, ma è la sostanza stessa che lega la Oates alle sue opere. Se anche ammette l’influenza del trasferimento a Detroit alla fine degli anni Sessanta, in un periodo tumultuoso, riconosciamo una sorta di autobiografismo latente che Joyce Carol Oates non sublima con la freddezza di un resoconto storico ma con un’intera finzione.
I ricchi: memoir di una famiglia americana
È nei Ricchi (traduzione di Grazia Bosetti, Valeria Gorla, Camilla Pieretti, Sara Reggiani) che viene portato a compimento il cortocircuito tra realtà e finzione che accompagnerà l’epopea americana. L’intero romanzo è l’opera postuma di Richard che ripercorre i ricordi d’infanzia e rivela un morboso attaccamento alla madre. Il tono dei Ricchi è molto diverso dal Giardino: mancano le suggestioni legate ai luoghi e agli ambienti e ha la forma di un memoir. L’evoluzione della vita nei campi è l’agiatezza della vita nei sobborghi, ma la sensazione di costante insoddisfazione e inevitabile infelicità non abbandona mai i protagonisti.
Gli spostamenti della famiglia nei sobborghi di New York racconteranno la verità dietro l’apparenza di lusso e fama, all’interno dei cocktail party, nella fierezza delle famiglie bianche e benestanti. Proprio nella famiglia l’autrice individua il nucleo della società che genera onde di propagazione di un declino dalle tinte più ampie. La famiglia si sfalda in tante piccole coscienze, una per ogni persona che ne fa parte, una per ogni volto da celare all’altro. Un’operazione simile Joyce Carol Oates la farà con Una famiglia americana (il Saggiatore, traduzione di Vittorio Curtoni), il più valido dei romanzi realisti dell’autrice. Qui il piccolo Judd narra l’apice e il declino della famiglia Mulvaney dopo un tragico episodio di stupro di cui è vittima la sorella. L’evento farà riemergere rancori, verità e rabbia in una famiglia sempre rispettata da tutti. L’intento del narratore è comporre «Un album di famiglia che mia madre non ha mai tenuto, uno di quelli che dicono l’assoluta verità. Il genere di album che nessuna madre tiene», non una confessione, ci tiene a precisarlo perché una confessione implicherebbe qualcosa che è stato celato e mai rivelato. L’espediente letterario aiuta a chiarire che una delle verità possibili, vera e propria ancora di salvezza per il clima di ansie e vergogne, è una storia.
Similmente, i Ricchi presenta rapporti famigliari disfunzionali: l’assenza delle dinamiche di padre-figlio; l’identità celata della madre, figura ingenua e tragica mai arresa alla possibilità di trovare la propria indipendenza di donna – una scrittrice trovatasi sola a fronteggiare l’élite letteraria di soli uomini – affettuosa ma distratta con il figlio. Le donne di Joyce Carol Oates accettano l’oppressione ma reagiscono a modo loro e non risultano mai completamente innocenti. La loro educazione si priva delle tutele famigliari per un approccio basato sul trauma dell’esperienza. È vero anche per molti dei personaggi della Oates, ma quelli femminili hanno una potenza nascosta che, in alcuni casi, rende repressiva la loro influenza. Non a caso nel Giardino e nei Ricchi i figli delle donne protagoniste non si sentiranno mai all’altezza delle aspettative delle madri, una sindrome edipica di Amleti moderni portata alle estreme conseguenze. Il dubbio che attanaglia i giovani americani nei romanzi della Oates è l’essere eredi di un mondo di caos, privo di valori o non essere all’altezza di una moralità che non gli appartiene. Le loro ambizioni romantiche, la stabilità a cui anelano, rivivono nei Ricchi attraverso lo stratagemma di un romanzo nel romanzo.
Mentre leggo questo passo, questa resa delle impressioni infantili mi colpisce per la sua bruttezza, ma lasciamola stare. L’esperienza c’è, la realtà c’è, come raggiungerla? Tutto quello che scrivo si trasforma in una bugia semplicemente perché non è la verità.
L’osservazione in nota di chi scrive rivela una metaletterarietà che nella Oates suggerisce continuamente l’ancoraggio dei suoi personaggi alla realtà. Tutte le illusioni e i racconti di Richard bambino esauriscono nella confusione dei ricordi e delle promesse non mantenute. Quindi quanta realtà può esserci nelle illusioni infantili e quindi nel memoir stesso? Richard farà di tutto per convincerci che la sua è una “vera” operazione letteraria includendo persino capitoli interi con le recensioni che il «New York Times» o l’«Atlantic» avrebbero scritto del libro. Eppure durante la lettura continuerà a tornarci in mente una sua confessione iniziale: «Dev’essere perché la storia che devo raccontare è la mia vita, è sinonimo della mia vita». E sappiamo che il sinonimo è solo un significato parziale, una variante del significato che intendiamo.
Loro: l’innocenza americana
La nota dell’autrice si apre con un ricordo: l’incontro tra Joyce Carol Oates, docente all’università di Detroit, e una sua alunna, Maureen Wendall. Loro ha avvio con la premessa di essere basato sulle vicissitudini di Maureen, con una sensazione definitiva che l’autrice descrive così: «Questo è il solo genere di fantasia che sia reale». Il terzo capitolo dell’epopea americana ha la forma di una cronaca famigliare che nasce dalla violenza e attraversa parte della vita di Loretta e dei suoi figli, Maureen e Jules. La violenza endemica, sociale e razziale non è mai fine a se stessa ed è uno dei temi ai quali l’autrice sovrappone la lente politica. Un valido esempio nei lavori successivi della Oates sarà Il maledetto (Mondadori, traduzione di Delfina Vezzoli), il «primo romanzo gotico postmoderno», come lo ha definito Stephen King. Nei primi anni del Novecento una misteriosa maledizione colpisce la famiglia Slade, una delle più importanti della cittadina di Princeton. In quello che non si sa se essere soprannaturale o ossessione collettiva, in un clima di continui rapimenti e aggressioni, la Oates orchestra una narrazione moderna applicando le suggestioni del gotico. Il vampiro che più volte si farà avanti come ipotesi soprannaturale ricalca l’immagine politica originaria del mostro. Prima di essere una creatura affascinante la sua natura parassitaria è ricondotta al tramonto dell’aristocrazia e, in particolare, all’avvento della mescolanza di sangue e privilegi con classi meno abbienti.
Tornando però ai Ricchi l’aristocrazia wasp, affrescata nel suo tragico splendore, è adagiata nei privilegi e resta pressoché indifferente al risultato politico degli eventi storici, convinta di poterne controllare le sorti. La scarnificazione del sogno americano avviene con un graduale declino del mito del self-made man e della conquista del west: le ricchezze fini a se stesse e il cambiamento che disconosce l’identità originaria.
Sarebbe diventato ricco, ma soltanto per navigare nelle sue ricchezze. In primo luogo avrebbe sistemato la famiglia per liberarsene, agile e scaltro, e allontanarsi galleggiando su quell’oceano che era l’America, attraverso l’intera America, fino alle praterie del Midwest e alle Montagne Rocciose sulla costa Ovest, dove si celava il futuro dell’America, in attesa di persone come lui. Avrebbe potuto cambiare nome. Avrebbe potuto cambiare aspetto in cinque minuti. Avrebbe potuto modificare se stesso e diventare qualsiasi cosa.
Il sogno della libertà donata dalla ricchezza dipinge atmosfere ingenue per chi come Jules e Maureen non ha la più pallida idea di come procurarselo e di come usarlo. Inquinerà persino l’amore che all’interno dell’epopea americana è più un contratto anaffettivo con un’egoistica valutazione di vantaggi. La consacrazione di tale libertà avviene – come ho già detto per Il giardino delle delizie e I ricchi – attraverso la violenza fisica e morale e la contemplazione ricca di fede. Accade a Jules quando sarà alle dipendenze di un disgraziato benefattore e accadrà a Maureen quando si prostituirà per accumulare denaro e fuggire («Al centro stesso dello sconosciuto c’era il denaro che lui aveva e che le avrebbe dato… pensava soltanto a questo»).
Strutturandosi come un romanzo famigliare Loro dimostra l’equilibrio e la potenza della scrittura della Oates. È in grado di addentrarsi in ogni personaggio, sfumare i contorni di personalità che si plasmano con azione e reazione al mondo che li circonda. Mi riferisco alla finzione del reale che l’autrice mantiene lungo tutto il romanzo. Il lettore è coinvolto in una sospensione della sua realtà per addentrarsi in un’altra che solo alla fine scoprirà essere falsa.
A volte mentre scrivo, quando sono più assorta e catturata dalla scrittura, fino a diventare ansiosa, mi ritrovo a immaginare che quanto sto inventando sia in qualche modo “reale”; se riesco a risolvere il mistero del romanzo avrò risolto un mistero della mia vita.
Così Joyce Carol Oates parla del suo scrivere nel memoir autobiografico I paesaggi perduti (Mondadori, traduzione di Katia Bagnoli). Flannery O’Connor si riferiva al mistero dello scrittore come a una rivelazione di cui poteva essere consapevole o meno. L’entità del mistero della Oates è da rincorrere proprio all’interno dell’epopea in uno stratagemma estetico che mescola continuamente l’esperienza di vita e la finzione costruita da essa. L’espediente assomiglia a quanto fatto da autori come Roth, Auster o Doctorow che hanno incluso i loro nomi all’interno dei romanzi, ma non ha le stesse finalità. Non è una trovata postmoderna, ma una dichiarazione vera e il meno autoreferenziale possibile per riportare la potenza degli anni Sessanta. I libri della Oates si pongono al confine tra la storia letteraria e quella reale: c’è sempre un racconto di finzione ma la Storia vera e propria è continuamente presente, che sia in un ambiente o nell’indole di un personaggio. Le storie della Oates sono la storia delle persone di cui non avremmo mai letto nelle cronache del tempo.
E questo benché non ci si possa mai aspettare una verità letterale nel reame del romanzesco. Quando ci avviciniamo al campo dell’immaginazione, dobbiamo ammettere che la realtà inizia a deformarsi: anche quello che è «reale» sarà trasformato in qualcosa di strano e composito, altrimenti l’artista non lo ha fatto davvero suo.
Il paese delle meraviglie: da quanta memoria è composto un americano?
Nascevano dalla terra su un’immensa distesa di stenti e fatiche, con la consapevolezza di riscattare ricchezze, un giorno, ne Il giardino delle delizie. Raccontavano l’illusione di una vita che ha deluso tutte le aspettative dei padri ne I ricchi. Nascevano e cadevano di nuovo, dalle fattorie ai quartieri residenziali, assaporando solo per poco la vertigine del denaro in Loro. E, infine, Il paese delle meraviglie, il capitolo conclusivo dell’epopea americana che raggiunge l’apice di un periodo magmatico come gli anni Sessanta.
Si apre con una rottura violenta: lo sterminio di un’intera famiglia da parte di un padre. L’unico sopravvissuto e protagonista sarà Jesse, alle prese con l’aspirazione di risorgere dalle ceneri della povertà. Troverà dimora in una facoltosa famiglia il cui padre è un medico che fa del suo mestiere una dottrina etica e filosofica. Il dottor Pedersen è un padre assente se non per rispondere ai suoi doveri economici, un marito spietato, misogino e indifferente.
L’America è benedetta da Dio. L’America è tutti gli uomini, tutta l’umanità benedetta da Dio e che spinge verso l’esterno, sempre verso l’esterno nell’ambire a un altro mondo, ambiamo a essere assimilati a Dio in un’essenza protoplasmatica superiore… Sebbene molti di noi qui riuniti siano spaventati dal futuro, io credo che dovremmo sapere che gli Stati Uniti sono una nazione unica nel suo genere, benedetta e potente, e che essa non può essere conquistata, non nel corso della nostra vita o in quella dei nostri figli… Gli Stati Uniti hanno qualcosa di magico. I nostri sono tempi magici…
Nel sermone qui riportato il dottore mostra tutto l’orgoglio americano, quella sensazione euforica di essere artefici del proprio destino in una terra promessa. Lo stesso fanatismo e superomismo che ripone nella sua professione: l’essere il custode della vita altrui con il desiderio di controllarla, da giudice imparziale, lo porta alla conclusione di occupare lo stesso posto di Dio. Tale sfondo politico spunterà solo a intermittenza nella vita di Jesse ma la determinerà in maniera permanente.
Il paese delle meraviglie è il libro più politico dell’epopea e, a detta della stessa Oates, il più difficile da comporre: nel periodo tra la fine del romanzo e la sua pubblicazione è stata necessaria una riscrittura dell’inizio e della fine. Joyce Carol Oates considera «l’esuberanza cinetica» della sua opera come una narrazione senza fiato, «travolta in quel vortice dell’esistenza che è la nostra condizione umana». Il paese delle meraviglie risente, infatti, di lunghi periodi vuoti e privi d’interesse, in cui la vita di Jesse procede placidamente. L’ossessione per la realtà della composizione è tale da far creare i dettagli anche più insignificanti di una vita intera, completa. Riprendendo quanto aveva scritto Maureen nel libro precedente: «Lei disse: “La letteratura dà una forma alla vita”. Ricordo molto bene che lo disse. Che cos’è la forma? Perché dovrebbe essere migliore di come la vita si svolge, di per sé?». La missione letteraria del romanzo per la Oates è rispondere canzonando Maureen ed è raggiungere la forma totalizzante dell’esperienza stessa. Ecco perché i personaggi prendono la stessa tridimensionalità del soggetto di un’autobiografia e prevalgono sullo sfondo. Non ci sarà nessuna arringa politica o esplicita metafora del tumulto culturale degli anni Sessanta. Lo intuiremo dalle lettere della figlia di Jesse, scappata nel sogno hippie, e lo capiremo quando l’attualità s’imporrà nei commenti scanzonati delle cene signorili. L’uccisione di Kennedy è uno sconvolgimento in grado di scuotere le fondamenta stesse della famiglia di Jesse. Le incursioni, quasi brutali, degli eventi storici riveleranno quanto anestetizzata sia la vita del protagonista. Nel corso del romanzo Jesse traccia un arco ascendente dal rifiuto delle origini verso una carriera di medico. Il raggiungimento di un’identità socialmente riconosciuta lo priva, però, di una personalità. L’alienazione è la versione distorta del sogno americano: un disconoscimento tale del sé interiore che fa prevalere quello esteriore.
Un individuo senza memoria non è nessuno così come un romanziere. Nella visione della letteratura della Oates la memoria personale è ancorata alle proprie opere, tale che l’una non potrebbe esistere senza l’altra.
Il romanzo realista della Oates è costituito dalla memoria e dall’avvicinarsi all’altro, un processo empatico tale da produrre personaggi sempre diversi e straordinariamente reali. E l’epopea americana porta alle estreme conseguenze il mondo di una gioventù americana in declino, senza la forza necessaria per reagire. I personaggi tragici ed eternamente malinconici di John Cheever qui compaiono in una versione più spietata, che elimina ogni romantico lirismo senza possibilità di redenzione.
È un’America feroce e sincera quella della Oates che si compone di una parola rigorosa e perfettamente plasmata sulle donne e sugli uomini che racconta. L’inventiva stilistica e la trasversalità di prospettive e linguaggi eliminano il pregiudizio dei generi letterari e creano un modo di raccontare inconfondibile.