La vita segreta, di Andrew O’Hagan, è appena uscito ed è già un bestseller. Ed è logico e giusto, quasi ovvio che sia così. Il sottotitolo – Tre storie vere dell’èra digitale – non serve che a dimostrare questa ragionevolezza: il pubblico, e non solo quello appassionato e specialistico, vuole capire cosa sta succedendo, cosa davvero si annida in questa astratta, selvaggia mutazione di codici che chiamiamo «èra digitale». Lo sentiamo tutti: il mantice della Storia che cigola, il cambio di paradigma, l’inafferrabilità concettuale che connota ogni transizione epocale. Anche chi fatica a mandare un’email sotterraneamente intuisce che ad ogni spostamento tecnologico ne corrisponde uno culturale, che non necessariamente gli è simmetrico. Ogni tecnica ha dietro di sé un certo tipo d’uomo che la inventa e anche – più tardi – un certo tipo d’uomo che la usa.
Andrew O’Hagan, narratore e giornalista scozzese, viene incontro a questa esigenza con un libro brillante e spregiudicato, diviso in tre storie, tre lunghe sequenze narrative: Lo scrittore fantasma, dedicato a Julian Assange – con cui l’autore è stato a lungo a stretto contatto come ghost-writer; L’invenzione di Ronnie Pinn, che documenta l’esperimento, compiuto dallo stesso O’Hagan, di costruire un’identità digitale fittizia; L’affaire Satoshi, un ritratto di Craig Steven Wright, colui che probabilmente – sotto il nome di Satoshi Nakamoto – ha inventato il bitcoin, la moneta virtuale delle transazioni del deep web. In sé, il libro è ottimo: è eccezionalmente documentato, ha ritmo ed esattezza, una prosa puntuale e tenace, spavaldamente razionalistica, il timbro autobiografico non molla un istante la lucidità giornalistica, il dovere del testimone. Informa come un reportage e appassiona come un romanzo. Qui sta però il principale, (in)felice paradosso di La vita segreta: le ragioni che ce lo fanno giudicare un bel libro risultano le stesse con cui possiamo ritenerlo un libro fallito. O meglio: un libro che manca il suo obiettivo implicito, un libro che non esaudisce la sua promessa.
Proviamo a spiegarci. Due dei tre racconti di questo libro sono ritratti. In un testo che ha l’ambizione – fin dal titolo – di raccontare l’altra faccia, la tenebra del web (la citazione che O’Hagan riprende dal canto VI dell’Eneide, dove la Sibilla parla dell’Ade, è forse il punto più bello del libro), ci ritroviamo davanti una breve galleria di vite parallele del web, uomini che hanno rivoluzionato il mondo tramite la Rete e qui ci si presentano in mutande, esposti nelle loro fragilità, incagliati nelle beghe umane. Ciò che la Rete sembra voler azzerare, cioè il corpo, O’Hagan lo rimette brutalmente sul bilanciere: le nevrosi, i difetti, le contraddizioni sotto il suo zoom scrupoloso diventano macroscopiche, livide, disturbanti. Tanto il ritratto di Assange – di cui viene enfatizzato il narcisismo, l’indole capricciosa ed egotica, il furore paranoico – quanto quello, più in chiaroscuro, di Wright sono pezzi di letteratura che ricordano il miglior Carrère. Ma è (quasi) tutto qui: nonostante quel tutto sia comunque molto.
Il libro di O’Hagan si ferma al di qua del nuovo paradigma, non s’inerpica nel groviglio degli avvenimenti – li riporta, sì, ma non li racconta mai davvero, limitandosi a descriverne gli attori, a trasformare insomma quello che poteva essere il romanzo storico del presente nel suo molto più tradizionale contrappasso psicologistico. Nel fedele rispetto del canone umanistico novecentesco, anche O’Hagan non riesce a staccarsi dall’uomo come lo conosciamo, dalla puntigliosa definizione del singolo come somma delle sue caratteristiche, illuminazione delle zone in ombra di una biografia. Valgono sinteticamente per questo libro le parole che lo stesso O’Hagan usa per descrivere Robert MacGregor in L’affaire Sathoshi: «Un eroe romantico alla Turgenev, la cui personale realizzazione è eternamente ostacolata da un segreto accecante, e che rivela se stesso non nell’azione, ma a parole». Viviamo una situazione di paradosso culturale, in cui il retroscena ci è più familiare di ciò che accade sul palcoscenico. La vita segreta espone e riproduce questo paradosso, senza però risolverlo né superarlo.
Non è un caso forse che il più audace e sperimentale dei tre racconti, L’invenzione di Ronnie Pinn, sia anche quello più breve, schiacciato com’è nel mezzo fra gli altri due. Il testo racconta l’esperimento – perfettamente riuscito – di costruire un’identità digitale del tutto nuova a partire dai dati anagrafici di un giovane deceduto trent’anni prima. Il nome di Ronnie Pinn diventa progressivamente il punto di raccoglimento di tutti quei dati che, per la Rete, costituiscono un «io». O’Hagan si affaccia qui in uno degli aspetti più specifici dell’èra digitale, ovvero una radicale ambiguità gnoseologica, in cui le nozioni di senso a cui siamo abituati dovranno subire un ripensamento: è un mondo dove non solo, come lui stesso scrive, «la verità ha più facce di un dado», ma dove una verità può legittimamente essere contemporaneamente vera e falsa. È questo che distingue infatti una verità in Internet da una verità di Internet: la verità di Internet, per esistere, non ha bisogno di presenza (l’essere, per dirla con Heidegger, le è accessorio), ma solo di riconoscimento, di passaggio, di relazione. La «singolarità» – concetto fondamentale degli studi sull’intelligenza artificiale fino a un decennio fa – non le interessa più; l’unicità del singolo è un miraggio umanistico. Il suo fondamento non è l’essenza ma la connessione, la capacità di collegamento tra momenti diversi di un oggetto perennemente dinamico. Che possa dirsi “individuo” solo un essere in carne e ossa potrà presto perciò, perché no, diventare un pregiudizio del tutto irrilevante, lì dove il web risulta già ora affollato di döppelganger (il solo Facebook ne certifica una base di almeno 83 milioni), molti dei quali regolarmente dotati di indirizzo email, accesso bancario, account social, numero di previdenza sociale, denaro, relazioni, commerci, la cui esistenza è tanto immateriale quanto effettiva. Da un punto di vista umanistico e vagamente religioso come il nostro, non esistono; ma nel nuovo paradigma digitale, essi sono soggetti distinti e perfettamente funzionali. Fantasmi, sì: declinazioni, scomposizioni, dettagli di persone “reali” che assumono vita propria, costruiscono vite possibili, biografie potenziali, itinerari autonomi, flussi d’identità e di opinione tracciabili, riconosciuti, quindi legittimi. Sulla base di quale antropologia potremo dunque considerarli “non veri”?
Sono domande in cui O’Hagan s’inoltra raramente, se non per rapide suggestioni o brevi balenii. Leggiamo in Lo scrittore fantasma:
Durante la rivoluzione egiziana del 2011 Hosni Mubarak tentò di spegnere la rete di telefonia mobile del paese, un servizio fornito dalla compagnia telefonica canadese Nortel. Julian [Assange, ndr] e i suoi penetrarono nei server della Nortel e si scontrarono con gli hacker ufficiali di Mubarak per mandarne a monte il tentativo. La rivoluzione proseguì.
Per la stragrande maggioranza di noi una battaglia campale, che decida le sorti di una rivoluzione, che tuttavia non si svolga nella realtà fisica ma sul web, è qualcosa di tanto appassionante nell’immagine quanto impenetrabile nella sua fattualità. L’allegoria ci affascina, ma ci abbandona sulla soglia. È in brani come questo che affiora il libro che La vita segreta forse poteva essere e non è. Vorremmo che il romanzesco penetrasse nel congegno, decrittasse il geroglifico e ce lo restituisse come storia. Il lavoro di O’Hagan ci lascia invece nel dubbio che siano, quegli uomini così umani, così mortali – così fisici, quasi a contrappeso delle proprie inafferrabili creazioni – loro stessi la metafora di ciò che li ha cambiati e che sta cambiando noi. Il dubbio che quella spaventosa nevrosi mista a narcisismo che in loro vediamo implodere non sia un’eccezione ma una profezia, il segno premonitore di un destino antropologico, di una nuova fisionomia umana. E forse quell’hic sunt leones che O’Hagan continuamente segnala sulla sua carta geografica significa (anche) questo: non c’è strada della tecnologia, né della letteratura, la cui ricaduta ultima non sia il disegno di un volto umano. Quest’animale che vediamo mutare dentro il tempo, che cambia la pelle e non sappiamo cos’è, siamo noi.
Andrew O’Hagan, La vita segreta. Tre storie vera dell’èra digitale, Adelphi, Milano, 2017, pp. 222, € 22