Qualche anno fa, in occasione della mia laurea triennale, la mia ragazza di allora fece un meraviglioso cartellone raffigurante La scuola di Atene di Raffaello, sostituendo ai visi dei personaggi dell’affresco i volti dei miei maggiori idoli, da Agatha Christie a John Dickson Carr, da Dario Argento a Sergio Leone. Al centro, al posto di Aristotele e Platone, troneggiano rispettivamente Massimo Boldi e Christian De Sica.
Credo sia inevitabile partire da qui. Negli anni che passammo insieme, questa fu sostanzialmente l’unica concessione che fece riguardo la mia, apparentemente insana, passione per il cinepanettone. D’altronde, in un paese eccessivamente politicizzato, incapace di leggere qualcosa senza i filtri dell’ideologia, che non può ridere se dall’altra parte della barricata non ci sono la satira impegnata di Guzzanti o l’intellettualismo di Moretti, la vita di noi appassionati può essere molto dura. Visto come emblema della società berlusconiana, tendenzialmente di destra, il cinepanettone è considerato un prodotto volgare, privo di valore estetico, diseducativo e anti-intellettuale, rivolto principalmente a un pubblico incolto e ignorante.
Non ha molto senso fornire qui le coordinate storiche di questo sotto-genere cinematografico. Sia sufficiente dire che la storia del cinepanettone abbraccia buona parte della produzione di tre registi – Carlo Vanzina, Enrico Oldoini, e Neri Parenti – che si snoda dall’inizio degli anni Ottanta ad oggi, ovvero i trentacinque anni che intercorrono tra il meraviglioso Eccezzziunale…veramente (1982) di Carlo Vanzina e quel complesso e baroccheggiante pastiche curato da Paolo Ruffini che è Super Vacanze di Natale (2017). Ha senso, invece, tentare di restituire la giusta complessità a un fenomeno degno d’interesse, e non solo per chi si occupa di sociologia. Attraverso la maschera della farsa triviale, il cinepanettone – e soprattutto un certo tipo di cinepanettone, come vedremo – mostra il vero volto di un’Italia che è sempre esistita, ma che il nostro cinema ha a lungo preferito nascondere. Al posto di un approccio meramente storico, preferisco quindi applicarne uno analitico, per quanto le mie modeste capacità di studioso di tutt’altri argomenti mi permettono. Occorre partire dal presupposto che questo fenomeno cinematografico ha raggiunto una tale popolarità e longevità, ed è diventato negli anni talmente significativo, in negativo, per la cultura italiana che, come spiega Alan O’Leary nel fondamentale Fenomenologia del cinepanettone (2011), uno studio dell’argomento appare ormai necessario.
Il punto di partenza è rappresentato dal problema della paternità, che affligge anche larga parte della commedia all’italiana. Perché, per capirci, Amici ahrarara (2001) è dei Fichi d’India e non di Franco Amurri? Perché Sole a catinelle (2013) è di Checco Zalone e non di Gennaro Nunziante? Perché un Vacanze di Natale qualunque (tanto sono tutti uguali, no?) è di Boldi o/e De Sica e non di Neri Parenti? D’altronde, nessuno si sognerebbe di dire che Roma città aperta (1945) è di Aldo Fabrizi. La regia, insomma, quando si parla di commedia all’italiana, semplicemente non conta. Peccato che invece, soprattutto per ciò che riguarda il cinepanettone, sia di vitale importanza. Se infatti la vita di questo sotto-genere ruota attorno alle vicende di tre registi – Vanzina, Oldoini, Parenti – è difficile pensare a tre personalità più differenti sotto il profilo artistico.
Il cinema di Oldoini è, se possibile, ancora più televisivo di quello di Vanzina, ma anche decisamente più frammentato, nonché destrorso, maschilista e razzista. E per questo decisamente più credibile. Un film come Anni 90 (1992) – che Paolo Mereghetti definisce «uno dei punti più bassi del nostro cinema» – è emblematico. Caratterizzato da un intento sociologico – otto scenette ambientate a Milano per descrivere la fenomenologia del maschio italiano – il film colpisce per lo squallore dei personaggi, la morale posticcia, e soprattutto il razzismo dilagante. La scena in cui l’intervento di uno sprovveduto psicologo del Telefono Blu, interpretato da Ezio Greggio, contribuisce solamente a peggiorare le violenze di un genitore, qui Nino Frassica, sul figlio, è di rara cattiveria. Un episodio delle cosiddette ‘Pubblicità Regresso’, inoltre, venne considerato talmente offensivo e razzista che fu escluso dal film, e di esso si conosce solamente l’ambientazione, in cui un gruppo di africani comandati da Greggio è impegnato a lavorare la terra. Oldoini non mira a fare satira di costume come Vanzina, ma alcuni suoi film, pur largamente insufficienti da un punto di vista tecnico, sono un orribile ritratto dell’Italia rampante pre-Tangentopoli e risultano, almeno per quelli capaci di arrivare alla fine, persino disturbanti.
Il corpo, in questo caso, è quello ingombrante del grande Massimo Boldi. In Natale sul Nilo (2002), Boldi, generale dei carabinieri, ha un improvviso attacco di diarrea durante un tour delle piramidi e, dopo essersi liberato in una piccola alcova, inizia a srotolare quella che ritiene essere carta igienica fornita dal suo aiutante, interpretato da Biagio Izzo. All’improvviso però, la cinepresa, oltrepassando il muro che divide l’alcova dall’esterno, mostra che la carta igienica è in realtà costituita dalle fasce che avvolgono l’ultima mummia conservata intatta nelle piramidi, che il generale riduce inconsapevolmente in cenere di fronte allo sguardo impietrito della guida turistica. Questa gag squisitamente fisica racchiude tutto l’anti-intellettualismo del cinema di Parenti, che profana tramite il corpo e il più volgare dei suoi bisogni primari la Cultura alta, archeologica e museale. Alan O’Leary scrive magnificamente che questa scena «tirerà su il morale a tutti quelli che, almeno una volta, sono stati trascinati in un museo contro la propria volontà».
È proprio grazie al trionfo del corpo umano, deformato fino all’eccesso, che la comicità di Parenti assume quei toni surreali, grotteschi e ai limiti del fantastico che caratterizzano il cinepanettone, e che sono contrariamente assenti sia in Vanzina sia in Oldoini. Quello di Parenti, letto attraverso le chiavi della farsa triviale, è un mondo cinematografico cinico e nichilista, in cui i confini tra buoni e cattivi sono ormai ridotti ai minimi termini, e non c’è più alcuna speranza di redenzione, e dove tutto è ineluttabilmente votato all’autodistruzione fisica e psicologica. L’universo di Vacanze di Natale 95 (1995) è apocalittico, schizofrenico e cupo; i personaggi, mossi esclusivamente da bisogni primari, non fanno altro che compiere azioni deplorevoli, o allo scopo di soddisfare tali bisogni, oppure al fine di rimediare alle malefatte compiute. De Sica, giocatore compulsivo, è costretto a svendere la moglie, Kelly, a un ex amico dopo una tremenda sconfitta a poker, mentre Boldi, del tutto incapace di gestire la precoce sessualità della figlia Marta, quattordicenne, interpretata da Cristiana Capotondi, finisce per privilegiare il divertimento sfrenato ai doveri di padre. Il finale è esemplare: un anno dopo, sempre a Natale e sempre con figlia e moglie al seguito, Boldi e De Sica si ritrovano in aereo. All’improvviso, però, i due sembrano prendere coscienza di una condizione umana dalla quale non si può sfuggire – Kelly è e sempre sarà null’altro che una moglie pedante, mentre Marta ha semplicemente sostituito un idolo sessuale (Luke Perry) con un altro (Brad Pitt) – e così decidono di scendere velocemente dall’aereo. Nella sequenza finale, i due celebrano la loro natura sostanzialmente infantile con un liberatorio gesto dell’ombrello rivolto all’aereo in decollo che rappresenta la fine di ogni possibile speranza in un mondo che non sia solo capace di ripiegare costantemente su sé stesso.
Vacanze di Natale 95 è il film che consacra per la prima volta la coppia Boldi-De Sica, ed è il miglior lavoro di Parenti, insieme a Merry Christmas (2001) e, soprattutto, Natale sul Nilo. Quest’ultimo, uscito nel 2002, ha rappresentato ciò che Il grande silenzio (1968) di Corbucci e Il grande racket (1976) di Castellari hanno rappresentato rispettivamente per lo spaghetti-western e il poliziottesco, ovvero il punto più alto e al contempo la pietra tombale di un intero sotto-genere cinematografico. Natale sul Nilo è il trionfo del frammentario, privo di costruzione logica, a tratti del tutto privo di senso – Bruno Arena trasformato in un cammello sancisce la definitiva trasformazione dell’uomo in animale – in cui la sfilacciate vicende dei Fichi d’India non fanno altro che disgregare la trama rendendola del tutto insignificante. De Sica gigioneggia, teatrale ed enfatico, mentre Boldi è quasi metafisico, e sopperisce con la sua genialità mimica alla totale mancanza di battute. Ma è il finale, ancora una volta, depositario del messaggio crudo e nichilista di Parenti. La figlia del generale Ombroni, che aspira a fare la valletta televisiva contro il volere paterno, finirà per avere la meglio, diventando letterina, e forse ripercorrendo le vite di tutte quelle soubrette televisive che finiscono con lo sposare un calciatore e fare un calendario. Dopo aver definito il generale Ombroni un uomo «inutile», Fabio Ciulla alias De Sica, arrancando pietosamente sulla sabbia del deserto, se ne esce con un laconico «Quando il grande burattinaio chiama…».
Se il cinepanettone sia clinicamente deceduto è difficile dirlo, anche se la povertà di film come Poveri ma ricchissimi (2017), in cui un De Sica di maniera è spalleggiato da attori del tutto inadeguati come Enrico Brignano, e l’operazione di Ruffini sembrano indirettamente testimoniarlo. Super vacanze di Natale, in cui il comico toscano costruisce un nuovo film a partire da vecchi spezzoni sembra fatto apposta per resuscitare il genere, ma utilizzarne le ceneri finisce solamente per glorificare il passato. L’età avanza, e la difficoltà di vedere ancora insieme una delle più grandi coppie del cinema italiano incute un certo timore a quelli che, come noi, non perdono mai la speranza. Noi continueremo ad aspettarli come sempre, come si aspetta l’amore che ci ha dato tanto ma ci ha anche fatto molto soffrire, per il quale non si sono persi appetiti e desideri e al quale non potremmo mai, in nessun caso, dire di no.