Che «il confine tra fantascienza e realtà sociale è un’illusione ottica» è una delle frasi di Donna Haraway capaci di fare ritorno più spesso alla mente di chi ne ha letto i lavori, forse perché nella sua apparente stranezza svela qualcosa che in questo momento si trova, se non proprio davanti agli occhi di tutti, sotto la pelle di molti: non siamo che un groviglio di carne e di protesi, una mostruosa galassia organizzata attorno a nodi materiali e immateriali e regolata da tecnologie sempre “nuove” e progettate per invecchiare quasi subito. In tempi di rinnovata passione per le distopie femministe, in cui si torna a parlare di post-umano proprio mentre una serie come Stranger Things – che negli anni Ottanta probabilmente ci avrebbe spaventati a morte – non fa che rassicurarci, leggere o rileggere Donna Haraway può restituirci un minimo di prospettiva nel guardare a come siamo cambiati.
L’impatto delle teorie di Haraway sul discorso post-umano è stato definito dirompente, qualcosa che non sarebbe stato possibile lontano dai luoghi in cui si è formata, ha vissuto, ha lavorato. A metà strada tra San Francisco e Los Angeles, a un passo dalla Silicon Valley, la produzione di Haraway è stata elaborata quasi per intero nella casa di Healdsburg, dove ha vissuto per tanti anni insieme ai suoi compagni umani e non umani. Lei stessa lo ha confermato in un’intervista a Thyrza Nichols Goodeve: «Ciò che mi piace, o che più conta per me, è il complesso e contraddittorio insieme di caratteristiche che definiscono la California. La California è tecnologica, urbana, rurale, naturale, alternativa, convenzionale, tutto insieme». Il suo percorso sembra impensabile per un paese come il nostro, sempre impegnato a tenere separati tra loro i saperi: una laurea in zoologia e filosofia al Colorado College, studi incentrati sulla filosofia dell’evoluzione e poi un dottorato in biologia a Yale nel 1972, con una tesi sulle metafore utilizzate dalle teorie scientifiche che sarebbe evoluta nel suo primo libro dedicato all’organicismo – Crystals, Fabrics, and Fields.
Ma è con la pubblicazione del suo Cyborg Manifesto – uscito per la prima volta nel 1985 sulla Socialist Review e successivamente pubblicato in volume insieme ad altri saggi nel 1991 – che Haraway apre la strada a nuove modalità narrative, con esplicite contaminazioni provenienti dalla fantascienza femminista e dalla cultura cyberpunk.
I soggetti in gioco qui sono “cyborg”: ibridi di carne e protesi elettroniche, organico e inorganico, carbonio e silicio. Adesso il concetto di corporeità non è più inscritto nel dualismo cartesiano, ma diventa costrutto post-metafisico, una sfida ad affrontare la complessità del presente. Che non esistono corpi sacri di per sé, non profanabili, Haraway lo ripete infinite volte. «Meglio cyborg che dea», scrive nel Manifesto, dalla contaminazione non c’è salvezza. Le reti informatiche, i robot programmati per raggiungere lo spazio, i feti e i cervelli riprodotti sugli schermi da ecografie e risonanze magnetiche fanno ormai parte del nostro immaginario, che ci piaccia o meno. Gli anni Ottanta sono iniziati, siamo già nel sottosopra.
Diffrazioni
Nella prima versione del suo saggio Situated Knowledges, Haraway suggerisce di abbandonare l’occhio ciclopico e totalizzante della ragione patriarcale e riprendere in mano la visione come strumento dal quale non possiamo prescindere per elaborare una oggettività che definisce situata. In gioco qui ci sono i nostri occhi organici e inorganici: questa complessità caratterizza il nostro punto di vista come soggetti incarnati. Si tratta di includere nel nostro campo ottico anche le tecnologie di visualizzazione più avanzate, nessun concetto di oggettività può permettersi di tralasciare l’integrazione delle protesi nei vissuti. I microscopi elettronici, i dispositivi digitali, le tecniche di visualizzazione satellitare, le apparecchiature intelligenti partorite dall’ingegneria medica contribuiscono così a una complicata cartografia del vivente. Dalle galassie alle strutture cellulari, i nostri occhi bionici sono dappertutto e a diversi livelli di complessità ci permettono di conversare con la materia. Un’ottica diventa una politica di posizionamento, per questo la conoscenza del vivente non può più avvenire attraverso una visione riflessiva, ma esige un tipo di processo diverso e dialogante, la diffrazione. Haraway ci suggerisce di comprendere la metafora ottica a partire da ciò che avviene nella materia: «Quando la luce attraversa le fenditure, i raggi si spezzano. E se dall’altra parte c’è uno schermo che registra ciò che accade, hai una testimonianza del passaggio dei raggi di luce sullo schermo. Non abbiamo quindi una riflessione, ma la registrazione di un passaggio» spiega sempre nell’intervista a Goodeve.
Persino “essere femmina”, ci fa notare Haraway nel Manifesto, sembra non costituire più un legame univoco ed essenziale tra le donne. Mentre le reti di collegamento tra gli abitanti del pianeta si fanno multiple e complesse, la donna “si disintegra nelle donne”. La sfida per i femminismi diventa allora quella di dar vita a una tecnoscienza che sia adeguata alla transizione in corso – da una società tutto sommato ancora organica e industriale a una informatica e polimorfa che rischia di trasformarsi in un nuovo sistema di dominio. Una delle espressioni di questa sfida è sicuramente la figura che in Modest Witness, forse il suo testo più noto degli anni duemila, Haraway chiama “testimone modesta del nuovo millennio”. Una utente-scienziata continuamente sospettosa delle realtà e delle finzioni coinvolte nella nuova rete, capace di rileggere le narrazioni della scienza moderna e i feticci della tecnoscienza contemporanea. La mappatura del genoma umano fornisce un valido esempio di questo feticismo. Per Haraway il sequenziamento del Dna rappresenta una codifica del testo sacro della vita, la doppia elica diventa sinonimo di “vita stessa”. Il gene come vincolo di proprietà si trasforma in fonte di valore, rimpiazzando organismi, esseri umani, e non umani. Da relazione dinamica tra agenti, diventa una cosa, ed è proprio in questo modo che assume le sembianze del feticcio.
Classificazioni
Parlare di “natura” e di “cultura” come fossero dimensioni separate non è più possibile, ed è in corrispondenza della soglia naturculturale, che Haraway posiziona il discorso sulla parentela e sull’affinità. Le classificazioni non sono che tecnologie semiotiche, vulnerabili al cambiamento materiale del mondo vivente, dobbiamo prenderne atto, ci dice nei suoi lavori più recenti. Così, la gerarchia di categorie tassonomiche proposta da Linneo a metà settecento – basata su genere, famiglia, classe, ordine e regno – che considerava le specie come entità pure protette da una sorta di involucro naturale, ha dovuto fare i conti con la teoria evolutiva di Darwin sulla trasformazione e sulla stabilità delle specie, e quest’ultima, a sua volta, si va integrando con la teoria genetica conducendo alla conclusione che la mutazione genetica stessa sia un mutamento evolutivo. Qualcosa di molto simile, ricorda Haraway, è accaduto per la classificazione degli elementi chimici: se fino al 1940 l’elemento con il numero atomico maggiore compreso nella tavola periodica era l’uranio, quando Seaborg e i suoi colleghi crearono i primi elementi transuranici, la tavola dovette accogliere elementi con numero atomico più alto, come il plutonio, poi ampiamente impiegato sia nel settore militare che nel settore energetico nucleare civile. Il problema vero, alla fine del secondo millennio, però, sorge proprio nel momento in cui il concetto stesso di evoluzione viene rinegoziato come processo storico situato non solo all’interno di una stessa specie, ma tra specie diverse. In un mondo in cui anche un pomodoro e un batterio diventano “parenti”, il movimento evolutivo per Haraway è da ricondurre proprio all’inaspettato incontro tra specie, come ci svela in Modest Witness a proposito delle cavie da laboratorio e ci racconta minuziosamente più tardi in When Species Meet. C’è bisogno di rivedere ed estendere i confini delle vecchie categorie, ma anche di connettere il piano epistemologico a quello politico e sociale: per uno scenario “trans” serve un sistema di pensiero che superi l’immaginario basato sull’inconscio edipico. «Dobbiamo chiederci cosa accade quando le specie si incontrano, perché una volta che ci siamo incontrati, non possiamo più essere gli stessi»
Le figurazioni proposte da Haraway che si muovono in questa direzione sono molteplici: oltre al “cyborg” e alla “testimone modesta”, il “metaplasma”[1], il “trickster”[2], il “coyote”, il “vampiro”, la “mixotricha paradoxa”, la “FemaleMan©”, l’ “OncoTopo™”, i “compagni di specie”. Si tratta di immagini che attraversano il sistema tradizionale di categorie – razza, genere, sesso, classe, specie – contribuendo all’elaborazione di una epistemologia naturculturale del vivente. Le illustrazioni di Lynn Randolph che negli anni le hanno accompagnate fanno parte a pieno titolo di questa transizione.
Coevoluzioni
Tuttavia Haraway rinuncia a classificare la materia di per sé, le sue immagini parlano di un’analisi delle relazioni e dei legami che coinvolgono la materia. Le figure che ci propone sono infatti tutte metafore del confine, della contaminazione, della trasformazione di categoria. In parte semiotiche, in parte materiali, hanno la capacità di tenere insieme le diversità, di spiegare la molteplicità ponendosi fuori dalle semiotiche della rappresentazione. Ecco che si tratta di diffrazioni, attraverso cui sperimentare nuovi legami parziali. La storia diventa così non più una questione di evoluzione ma di co-evoluzioni e non soltanto tra specie ma anche tra diverse parti dello stesso organismo. Per usare altre parole, i “compagni di specie” di Haraway, non sono solo i cani o i gatti – i cosiddetti pet del mondo anglosassone di cui Haraway ci aveva raccontato appassionatamente nel suo Companion Species – ma anche i primati, le scimmie, le piante, le rocce, la flora intestinale batterica, il sistema immunitario.
La coevoluzione richiede una definizione più ampia rispetto a quella normalmente definita dai biologi. Per Haraway, ad esempio, è impossibile immaginare la storia dell’influenza senza il concetto di coevoluzione tra uomini, suini, polli e virus.
Situarsi in una dinamica coevolutiva significa anche fare spazio alla visione di quello che non è ancora accaduto. Partire dalla ferita e tendere alla rigenerazione piuttosto che alla rinascita, un processo simile a quello che avviene nelle salamandre.
Per queste, racconta Haraway nel Manifesto «dopo una ferita, come per esempio la mutilazione di un arto, c’è una rigenerazione che comporta la ricrescita di una struttura e il recupero di una funzione, con la possibilità costante di una gemellazione o di altre strane produzioni topografiche al posto della mutilazione. L’arto ricresciuto può essere mostruoso, doppio, potente. Siamo stati tutti feriti in profondità. Abbiamo bisogno di rigenerazione, non di rinascita».
A vederla così, ci sarebbe davvero da chiedersi qual è il confine che passa tra una salamandra e un demogorgone, la ragazzina dalla testa rasata e un topo modificato geneticamente per curare il cancro.
[1] In linguistica, per “metaplasma”, o “metaplasmo”, si intende una trasformazione all’interno di una parola tramite i meccanismi fonetici di addizione, soppressione, fusione o spostamento. Tuttavia, il termine indica anche in ontologia la sostanza cellulare presente nei tessuti connettivi.
[2] Haraway riprende questa figura dalla letteratura popolare, si tratta di un personaggio ibrido, metà animale e metà umano che si fa beffa della storia contribuendo a creare altre verità, e altre possibilità. La figura del coyote, nella cultura indigena nordamericana è un esempio di trickster.