[Da poco è in libreria Lo spirito della fantascienza (Adelphi), romanzo postumo scritto da Roberto Bolaño negli anni Ottanta: per certi versi può essere considerato un prodromo al grande monumento di 2666, senz’altro è un altro tassello che va a comporre l’immensa architettura narrativa che fu l’opera dello scrittore cileno. Per l’occasione, abbiamo intervistato la traduttrice di Bolaño in Italia, Ilide Carmignani.]


Chi ha visitato la mostra che nel 2013 il CCCB di Barcellona ha dedicato a Roberto Bolaño (Archivio Bolaño. 1977-2003) si è trovato di fronte un quaderno con scritto sopra El espíritu de la ciencia-ficción. La targhetta sotto la teca diceva che si trattava di un romanzo inedito, e i sussulti di frenetica curiosità non sono mancati. Ora finalmente lo possiamo leggere nella tua traduzione. Cos’ha significato per te ritrovare di nuovo le parole di Bolaño?

Anch’io a Barcellona ero rimasta molto incuriosita, e incuriosita è dir poco, da questo come dagli altri inediti. Se c’è un piccolo lutto da elaborare ogni volta che finisci di leggere un libro che ti piace, puoi immaginare quanto è grande quel lutto se non l’hai letto, ma tradotto, e ci hai vissuto dentro mesi o anni della tua vita. Se poi nei libri di un certo scrittore abiti ormai felice da oltre un decennio, puoi capire con che tristezza guardi alla fine delle opere da tradurre, anche perché un lettore può rileggere ma un traduttore non può ritradurre, o forse sì ma dopo decenni, chissà. Comunque, un paio di anni fa mi è arrivato in gran segreto da Adelphi un pacco con dentro le fotocopie dei dattiloscritti originali di quattro inediti, perché scrivessi le schede di lettura, e così ho avuto modo di togliermi la curiosità per Lo spirito della fantascienza, e anche per Sepulcros de vaquerosPatria e Comedia del horror en Francia, adesso tutti pubblicati in spagnolo da Alfaguara sotto il titolo del primo.

Lo spirito della fantascienza mi ha subito colpito per la sua freschezza: l’energia vitale che si sente scorrere nei Detective selvaggi è qui ancora più intensa. Il romanzo è del 1984, Bolaño è vicinissimo a quel nucleo autobiografico messicano che ispira i grandi romanzi della maturità. Linguisticamente ha già trovato la sua voce e domina a perfezione la pagina in tutte le sue infinite declinazioni: dialoghi, descrizioni, monologhi interiori… Traspare fortissima un’esperienza poetica ricca e compiuta; l’infrarealismo illumina spesso la scrittura come una tempesta elettrica nel cielo notturno, per usare un’espressione dell’autore. Dal punto di vista della costruzione narrativa – forse perché, come ha detto lui stesso, da ragazzo si è dedicato solo alla poesia – dovrà fare invece ancora un po’ di strada prima di toccare i livelli di estrema raffinatezza dei romanzi della maturità. Certo, Lo spirito della fantascienza è anche un inedito. E comunque il vero lettore di Bolaño si muove nella sua opera come se fosse un unico grande romanzo, l’andamento rizomatico a livello di testo e la struttura a frattale a livello di macrotesto vanificano l’esigenza del plot, di cui forse siamo tutti un po’ stanchi dopo decenni di gialli anche fuori dal giallo, insomma di meccanismi perfetti ma proprio per questo insopportabilmente artificiosi.

Comunque, per rispondere finalmente alla tua domanda, io che ho iniziato a tradurre Bolaño dalla fine, da 2666, cioè dal grande capolavoro della maturità che per di più è un libro scritto, per così dire, con un piede nell’oltretomba, davanti allo Spirito della fantascienza ho provato una strana sensazione di tenerezza, come quando qualcuno che adesso conosci molto bene ti mostra una sua foto da ragazzo e c’è già tutto l’uomo là dentro, con in più la forza del futuro davanti, e ti dispiace non averlo conosciuto prima.

carmignani

Lo spirito della fantascienza è costruito con forme testuali diverse: lettere, un’intervista, un racconto dentro un’intervista, e così via. Da un punto di vista del registro linguistico, come vengono gestite le differenze fra queste parti? E, soprattutto, cos’hanno comportato per il lavoro di traduzione? È una questione che, immagino, per te si è già posta con le varie inflessioni e dialetti messicani o cileni e non solo, in 2666 e altre opere: con qualche differenza?

Il ventaglio espressivo è amplissimo in effetti, ma in traduzione si tratta semplicemente di seguire Bolaño, di mettere i piedi nelle sue orme, attrezzandosi nel caso in cui non si domini un certo campo, penso ad esempio alle relazioni medico legali dei femminicidi in 2666 che mi hanno costretto a far rivedere tutto, appunto, a un medico legale (il dottor Stefano Pierotti, uno che va a convegni internazionali sugli schizzi di sangue, lo ringrazio ancora una volta qui). Per le varianti dello spagnolo purtroppo non ci sono molte soluzioni, i dialetti italiani non si usano più perché sarebbero stranianti all’orecchio del lettore contemporaneo, così cosmopolita; nei casi più drammatici si risolve il problema con un piccolo scarto diastratico o con un prestito, anche se in traduzione è sempre difficile generalizzare. Le lettere, forse paradossalmente perché sono molto letterarie, non hanno offerto particolari ostacoli, eccetto qualche piccola ricerca sulla fantascienza. L’intervista è in realtà un dialogo nel più puro stile dell’autore. E anche la parte narrativa, dopo aver tradotto tanti altri romanzi di Bolaño fra cui I detective selvaggi, che è così vicino allo Spirito della fantascienza, non presentava difficoltà inedite, tranne forse, questo sì, una maggiore “noncuranza”. Mi spiego meglio: il Bolaño maturo dice più volte di rimpiangere il coraggio che aveva da giovane, quando scriveva poesia senza tener alcun conto del lettore, insomma senza preoccuparsi non dico di piacere ma nemmeno di essere capito (e io, dopo aver tradotto Tre, posso testimoniare che è vero). Ecco, nello Spirito della fantascienza questo coraggio c’è, e ovviamente si manifesta soprattutto nelle parti più liriche e surreali, dove in effetti l’interpretazione ha richiesto particolare cura, anche se davanti a qualunque pagina di Bolaño a me tremano sempre un po’ le vene e i polsi. Ricordo, ad esempio, il primo giro per il DF in sella a una moto o le allucinazioni di Jan o l’incontro con Laura: «Erano reali (voglio dire, meravigliosamente reali) solo i sorrisi di Laura dall’altra parte della stanza, sorriso da meteorite, mezzo sorriso calante, sorriso insinuato, sorriso di collega e di fumo, sorriso di coltello a serramanico in un’armeria, sorriso pensieroso e sorriso che s’incontrava col mio, ora sì, senza pretesti: sorrisi cercati, sorrisi che cercavano».

Hai citato la tua traduzione delle poesie di Bolaño, e in particolare del volume Tre (Sur, 2017). Se non sbaglio, è in arrivo anche il secondo dei suoi tre libri poetici, I cani romantici, sempre per Sur (peraltro, la poesia che dà il titolo al volume mi commuove ogni volta, e spero che anche il mio cagnolino Artù sia un “cane romantico”). Considerando il tuo lavoro di traduzione sia delle poesie che dello Spirito della fantascienza e al di là delle ovvie differenze, hai notato particolari elementi di convergenza o divergenza fra il Bolaño poeta e il Bolaño prosatore?

Sì, a primavera è in arrivo da Sur I cani romantici, puoi dirlo al tuo Artù, che in spagnolo si dice Arturo, come Belano, ma questo secondo me lo sapevi già.

Credo sia difficile tracciare una linea netta fra il poeta e il narratore. Innanzitutto la poesia di Bolaño è in versi sciolti, non c’è misura metrica, non c’è rima; c’è un ritmo, una musicalità più che percettibile, che però ritroviamo anche nel fraseggio della prosa. Una delle sezioni di Tre è costituita addirittura da prose poetiche, la Prosa dell’autunno a Gerona appunto, perché pur mantenendo una trama piuttosto ermetica e codici espressivi tipici della poesia, non ha nemmeno i versi sciolti, gli a capo; qua e là può ricordare una sceneggiatura cinematografica. E anche L’università sconosciuta offre numerosissime prose poetiche.

La poesia di Bolaño, inoltre, ha spesso un andamento narrativo. I temi sono gli stessi della prosa. Si attinge a piene mani, in forme più o meno mediate, a materiale autobiografico; del resto l’autore fin dall’inizio rivendica il legame inseparabile fra vita e letteratura, e fra etica ed estetica. Nel manifesto infrarealista si legge: «La nostra etica è la Rivoluzione, la nostra estetica la Vita: una-sola-cosa». Per esempio, in un’altra sezione di TreLos neochilenos, si racconta di un viaggio nel Nord del Cile: una band parte con un camioncino scassato, nel più puro stile on-the-road, e va a suonare in locali di quarta categoria prima nel Norte Chico, poi nel Norte Grande. Sono tutti uomini e a un certo punto conoscono una giovanissima prostituta, in bordelli che sono «l’inferno delle puttane», e la portano via con loro. Sembra una traduzione intraletteraria della parte finale dei Detective selvaggi. Considerazioni simili si potrebbero fare per Lupe e La francese e altre composizioni dei Cani romantici.

Come nella prosa, non manca nei versi la letteratura fatta di letteratura. Per esempio nella terza e ultima parte di Tre, Bolaño incontra in sogno un gran numero di scrittori, fra cui l’amato Perec bambino, e Perec bambino compare anche alla fine dello Spirito della fantascienza, quando sventa il duello all’ultimo sangue fra Isidore Isou e Altagor in un quartiere sperduto di Parigi.

Forse si possono trovare analogie fra poesia e prosa anche come tecniche di composizione. L’immagine centrale di Prosa dell’autunno a Gerona è il caleidoscopio, che con le sue rifrazioni diventa metafora dell’intero testo. Il protagonista è ora un tu ora un lui, come se il tu fosse oggetto di frammentazione, rifrazione, allontanamento; di conseguenza la voce narrante suona ora un io, ora un narratore esterno. È come se il soggetto fosse scisso in due e raccontando se stesso raccontasse anche un altro. Torna alla mente la tecnica narrativa dei Detective, dove tutti raccontano la vicenda dei due protagonisti dal proprio punto di vista. Comunque, queste sono solo piccole cose che ti attraversano la testa traducendo.

Dici che sono piccole cose che ti attraversano la spirito della fantascienzatesta traducendo, ma la possibilità di notarle è preziosa, visto che si tratta di uno di quei (rari?) casi in cui avere una maggiore consapevolezza delle quinte di un testo non ne diminuisce l’aura ma aumenta l’ammirazione per quel testo e il suo autore o autrice. Bolaño è senza dubbio uno di quei casi. Mi torna in mente quello che Gertrude Stein scrive ne L’autobiografia di Alice Toklas: non conosci veramente un quadro finché non lo hai spolverato e non conosci veramente un testo finché non lo hai trascritto. Potremmo tranquillamente dire invece che non conosci veramente un testo finché non l’hai tradotto…

La pensava così anche Italo Calvino: «Tradurre è il vero modo di leggere un testo: credo sia già stato detto molte volte; posso aggiungere che per un autore il riflettere sulla traduzione di un proprio testo, il discutere col traduttore, è il vero modo di leggere se stesso, di capire bene cosa ha scritto e perché». Peccato che Bolaño non c’è più, avrei tanto voluto parlare con lui. Mi accontento di parlare con chi l’ha conosciuto, come le redattrici di Anagrama, a Barcellona, che non combinavano nulla quando lui andava a trovarle in casa editrice perché passavano la mattinata a farsi raccontare film, o una collega canadese che se l’è trovato accanto a una cena e ha discusso con lui tutta la sera sul modo migliore di tradurre in inglese carajo (io non ve lo traduco ma in italiano inizia con la c e finisce con la o), oppure la moglie Carolina a una festa di minimum fax, davanti Torino piena di luci che si specchia dentro il Po e nelle orecchie la musica di quando eravamo ragazze e lei incontrò per strada un tipo con gli occhiali e i capelli spettinati da un vento invisibile.

Stai finendo di tradurre Il labirinto della solitudine di Octavio Paz per i Meridiani Mondadori. Nello Spirito della fantascienza, Jan Schrella – alias Roberto Bolaño – dice «i coglioni fanno la coda alle conferenze di Octavio Paz». Lo perdoni? 

Certo che lo perdono. Bolaño, se fosse vissuto, avrebbe chiamato coglione anche chi faceva la coda per ascoltare lui.