Oggi, alle ore 18, cominciano gli incontri di presentazione dei finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2018, alla BIblioteca Tiraboschi. Ogni giovedì Adriana Lorenzi intervista gli autori dei libri candidati alla vittoria. Si comincia con Alessandra Sarchi, La notte ha la mia voce (Einaudi 2017). Sulla Balena Bianca, ogni giovedì, la recensione del libro presentato. Qui il calendario degli altri incontri. 


 

La prima tentazione, una volta concluso La notte ha la mia voce di Alessandra Sarchi, è quella di abbandonarsi a una riflessione morale – o moralistica – sulla disabilità, sulla sofferenza, sulla dignità di un’esistenza menomata. È normale, trattandosi del racconto autobiografico di chi, a un certo punto della propria esistenza adulta, a causa di un disgraziato incidente d’auto, ha perso l’uso delle gambe. La voce che narra ripercorre la propria esperienza di riabilitazione, il modo in cui ha preso confidenza con il proprio nuovo corpo: la frustrazione e la rabbia, l’abbandono al risentimento e l’inconscia accettazione di un perenne senso di inferiorità, e poi la scoperta di una strada alternativa, tracciata da chi ha avuto in sorte la stessa disgrazia, ma ha deciso di affrontarla con una diversa disposizione.

Di fronte a questo racconto, che mostra come la vicinanza dei propri cari – un compagno e una figlia piccola – e la lucidità ragionativa non siano sufficienti a farsi una ragione dell’accaduto, ma al contrario lo rendano ancora più doloroso perché più consapevole; ecco, di fronte a questo genere di racconto la tentazione è quella di interrogare innanzitutto se stessi, non come lettori, ma come individui, come persone chiamate a guardare questi fatti, ad assimilarli. E allora la mente ci porta altrove, ci conduce a ritroso con la memoria a quegli episodi in cui la nostra falsa coscienza ci ha mosso a compassione di fronte a una persona in carrozzina, ce l’ha fatta avvicinare nel sentimento ma allontanare nella vera comprensione. La testimonianza della sofferenza ci impone con urgenza morale una ricognizione del nostro vissuto, per verificare in maniera quanto più possibile severa le nostre mancanze, la nostra indifferenza, la nostra insensibilità, e in definitiva le nostre colpe di fronte a chi è stato più sfortunato, con quella stessa insistenza e con quella stessa ricorsività ossessiva con cui la protagonista di La notte ha la mia voce sente il bisogno di misurare la distanza tra il prima e l’ora, ma anche di rimarcare la falsità, l’ipocrisia e infine la nostalgia implicita nello sguardo degli altri.

«A volte la nostalgia la vedevo negli occhi di chi mi aveva conosciuto prima, come se nell’iride potesse affiorare il contorno di una figura precedente cucita alla memoria».

E però, La notte ha la mia voce non è una testimonianza autobiografica, ma è un romanzo. O meglio è anche una testimonianza autobiografica, ma in forma di romanzo, e in quanto tale va letta; frenando il nostro bisogno di espiazione, oppure affrontandolo, ma sempre mettendolo in relazione con le strategie narrative, le scelte strutturali e le opzioni stilistiche che hanno spinto Alessandra Sarchi a dare questa forma al suo racconto. È una questione di onestà e correttezza, di fronte al tentativo di trasformare sì un vissuto in esperienza condivisa, ma anche in letteratura. E in particolare in quel tipo di letteratura che si confronta con ciò che troppo spesso, con una brutta perifrasi, viene definito indicibile, il dolore assoluto, il male definitivo.

«Molto di quello che era successo là dentro era indicibile, lo lasciavo ingarbugliare in un angolo della testa, un groviglio di pena e vergogna, ma indicibile era diventato anche il mio corpo presente e futuro».

Fin da Violazione, il suo esordio romanzesco, Alessandra Sarchi ha messo a punto un linguaggio preciso, capace di muoversi con disinvoltura tra lessici specifici differenti, riuscendo a coniugare il dettaglio analitico con una composizione chiara e coinvolgente. Può risultare significativo osservare come allora, sotto la superficie di un romanzo incentrato su piccoli abusi edilizi e grandi speculazioni ambientali, si celasse un racconto che indaga senza pietà la violenza animalesca che regola i rapporti umani. Per questo, in un romanzo dalla trama molto più articolata e ampia di La notte ha la mia voce, molte delle pagine più belle finiscono per trovare un perno nella descrizione degli stati fisici, nella più profonda interpretazione dell’avvicendarsi delle percezioni o, ancora, dell’alternarsi di stati di veglia e d’insensibilità, come nella scena su cui si apre il romanzo, che vede uno dei protagonisti riprendere coscienza dopo una notte tormentata, in cui il suo corpo ha assimilato la notizia delle morte del padre e ora prova a reagire in maniera confusa; o come nella bellissima pagina che descrive lo stupore provato da una donna nel vedere i movimenti sgraziati, precari, apparentemente inconsci di una bambina ritardata:

«Insensibile al dolore. Eppure quelle gambe si muovono, stanno dritte, sostengono il peso del corpo, lo fanno avanzare nel cammino, addirittura saltare, anche se con poca grazia. Sono vive ma non sentono.
Non sentono, come sembrano non sentire gli alberi, l’aria, le pietre, i minerali, tutto ciò che non grida e non si turba ogni volta che viene prelevato, inquinato, distrutto. Avviene ogni giorno, in silenzio».

Acquistano un valore particolare queste parole, alla luce di quest’ultimo romanzo autobiografico. Lì, il narratore sottolineava qualcosa di primitivo, di stupefacente e provocatorio nell’uso delle gambe da parte di quella bambina; qualcosa che richiama ciò che in La notte ha la mia voce spinge l’io narrante a definire «la consapevolezza delle gambe dritte e solide» come «una specie di orgoglio di esistere», un sentimento innato, che trascende la coscienza, la lucidità mentale. Un sapere congenito che però, nel caso dell’esperienza di chi racconta, viene improvvisamente meno. È la connessione tra tessuti neurali e carne a saltare, ad allontanarsi dalla percezione, a nascondersi nella materia umana spingendo l’io a chiedersi se non sia in corso una trasformazione destinata a riportarla nell’alveo di una Natura matrigna, che crea e distrugge senza rispettare alcun senso di giustizia.

Nasce da qui, da questa riflessione che parte dall’io per arrivare al cosmo, l’asse principale di una trama figurale che intesse l’intero romanzo e che si presenta come la cifra stilistica della scrittura di Sarchi. Nel momento in cui deve confrontarsi con un corpo estraneo, la protagonista deve coniare anche un nuovo immaginario per dirsi e per comprendersi. Un immaginario che riconosce il proprio percorso verso l’immobilità, l’assenza di percezioni, la mutilazione sensoriale nei termini di un ritorno alle origini dell’universo, alle specie primitive che mettevano alla prova i propri sensi per comprenderne limiti e potenzialità, e in particolare a quegli organismi ibridi alla ricerca di una definitiva condizione d’esistenza, per sé e per la propria specie.

«Mentre ero sotto l’acqua potevo confondermi ancora con gli antenati pesci e anfibi che non avevano avuto la necessità di camminare, ma girata la manopola della doccia ritornavo a terra».

Come nel caso del pesce di silicone con cui ama giocare la figlia della protagonista: Tiktaalik è «una creatura preistorica, risalente a 375 milioni d’anni fa», «un animale di passaggio fra i pesci e i primi tetrapodi che camminavano», esemplare di una specie che tentò il salto epocale, l’emancipazione dall’acqua, mettendo alla prova i propri organi e i propri arti. Un vero e proprio correlativo oggettivo, utile per interrogare e comprendere la propria condizione: ««Tiktaalik si era attrezzato per uscire da un luogo dove la sua sopravvivenza era minacciata da troppi predatori. Perché io non potevo fare altrettanto»?. La protagonista trova in quell’animalità primigenia il proprio termine di paragone, anche se in un percorso a ritroso, che dal sensibile porta all’insensibile, dall’organico all’inorganico. Chi racconta fa uso di un repertorio di immagini provenienti dalle origini del mondo naturale per concretizzare una mappatura sensoriale a cui chiede di definire la propria nuova identità.

«Essere un corpo e non raggiungere una forma percettiva compiuta, è così che la materia senza coscienza si agita per averne una? […] Vagare in una specie di vuoto in cui le percezioni si disperdono anziché collidere, e non spaventarsi nemmeno più di questo […]. Non potremmo pensare alla pelle e alla coscienza come alla superficie cui arriva l’intera vita che sta sotto? Ma dove sono finita io, che con la superficie ho perso il contatto? E se è già così terrificante allontanarsi dall’identità corporea funzionante, cosa deve essere sprofondare nel nulla?».

Il trauma apre una voragine di incomprensibilità e sofferenza che proietta verso territori apparentemente estranei al sentire, abissi che riavvicinano il corpo con la materia inerte, restituendolo a un’origine minerale che la coscienza ha dimenticato, ma che la materia sembra portare inscritto. Di fronte a questa consapevolezza che si costruisce giorno dopo giorno, esperienza dopo esperienza, l’io narrante cerca di affidarsi al ragionamento e all’indagine delle percezioni per rendere comprensibile ciò che apparentemente non lo è.

In questo tentativo, è fondamentale la presenza di un altro con cui confrontarsi, su cui proiettarsi. Il corpo centrale del romanzo è occupato dal racconto di un’unica notte in cui la protagonista assiste un’altra donna, compagna di riabilitazione, nuova amica e improvvisamente confidente, durante il suo orario di lavoro come telefonista di una linea erotica. Ogni notte, infatti, Giovanna – o la Donnagatto, come viene subito ribattezzata – parla per ore al telefono con persone che si affidano alla sua voce per trovare conforto emotivo oppure uno stimolo ai loro desideri sensuali: «Inginocchiati e leccami i piedi, prima il destro, poi il sinistro. Soffermati sulla caviglia sinistra».

Niente di più lontano dall’esperienza e dall’orizzonte di attesa di chi ha imparato a osservare la propria condizione di disabilità con uno sguardo sempre rivolto all’indietro, al rimpianto, a ciò che non c’è più e a ciò che non può più. Eppure, in questa esperienza si cela la possibilità di una scoperta decisiva, una rivelazione che permetta di ripensarsi.

«E la sua voce m’impone di chiudere gli occhi, di aggrapparmi a quella melodia che non può essere consumata, si ricrea di continuo nelle trame della fantasia, come Dio si ricrea nelle lodi della preghiera. Come i corpi dei ballerini che cancellano il peso e la gravità, infrangendo le regole che li hanno fatti terrestri».

Vedere come sia possibile dare consistenza a quel che non c’è più rendendolo vivo attraverso le parole, proiettandosi in universi possibili in cui si può essere ciò che si dice, è un’esperienza decisiva sotto diversi aspetti. Da un lato, mostra come sia possibile, per brevi istanti, ottenere una tregua dal dolore, trovare temporanee vie d’uscita dalla coscienza sempre urlante della propria diversità. Dall’altro, di fronte alla triviale ipocrisia di quella farsa, consente alla protagonista di pensarsi differente, superiore rispetto alle illusioni che rischiano di portare la Donnagatto incontro a delusioni ancora più brucianti. Ma è proprio in questo atto di supponenza ed egoismo che si nasconde la possibilità di avvicinarsi alla verità, o almeno a una verità («Alcune frequentazioni si coltivano anche con il fine – inutile negarlo – di sentirsi migliori, per convincersi di stare meglio. E nell’ammetterlo forse mi avvicinerei di più alla verità»). In questa ambiguità è la chiave dell’incontro e dell’interno racconto. Il cronotopo notturno favorisce la rivelazione, accelerandone gli effetti e proiettandoli su quella parte di vita che non mette conto raccontare, perché proseguirà sotto la stella di una comprensione che quell’incontro ha reso possibile.

Come ben sottolinea il titolo, è la voce l’organo che viene potenziato dalla menomazione fisica: una voce che la Donnagatto ha imparato a usare in termini compensativi, coprendo il vuoto aperto dall’incidente, dall’amputazione di una gamba, dalla limitazione della sua vita sentimentale e sessuale; una voce che chi racconta decide invece di trasformare in parole chiare, precise, appuntite anche, fatte per capire e per spiegare ciò che i termini morali del pensare umano non riescono a concepire. Parole in cui rifugiarsi, parole con le quali esorcizzare la propria sorte e ricacciare nell’oblio la tentazione della fine, parole con cui dare una forma alla vita, per ricrearla continuamene e continuamente – tentare di – comprenderla.

«Io mi rifugio nelle parole, ci scavo dentro nicchie, mi faccio aggredire da loro come da fantasmi, ci ricamo reti di sostegno quando precipito, lascio che scandiscano i miei giorni, che siano per me sorte e destino».

Le parole permettono di costruire un racconto che ha un inizio – e uno ben preciso («C’è una prima scena di cui so tutto») –, ma che non può trovare una conclusione, e anzi non deve. Perché l’unica conquista è quella di una consapevolezza che permetta di continuare, e di non finire.


 

SarchiAlessandra Sarchi, La notte ha la mia voce, Einaudi Stile Libero, Torino 2017, 176 pp. 16,50€