Con questo romanzo Biondillo dipinge infatti un’Italia buffonesca e incoerente, che necessita di un “nemico” per ritrovare la propria stabilità e non cessa di essere un animale dal ventre mutevole, labile nelle sue decisioni («I nostri nemici sono a Roma» dirà dalle trincee un socialista), ma soprattutto che per l’incompetenza e la spacconeria dei suoi dirigenti, manda al rogo i suoi frutti più belli. Tra questi campeggia il protagonista, a cui è affidata la voce della ragione e a cui è dedicato il libro: Antonio Sant’Elia, l’architetto futurista, caduto nel 1916 nella trincea di Quota 85, Monfalcone.
L’autore ripercorre, secondo i crismi del romanzo di formazione, la vicenda del giovane architetto di provincia inurbato a Milano e del cursus honorum che lo porterà ad un riconoscimento e a un’integrazione da parte dell’intellighenzia milanese. Sant’Elia, descritto con ammirazione per le sue doti visionarie in campo architettonico e ossessionato dalla progettazione della “città del futuro”, è però un personaggio fuori dal coro (l’unico nel libro, forse, insieme alla parentesi di Cesare Battisti): resterà un outsider all’interno del gruppo futurista, mantenendo posizioni fortemente critiche verso la figura di Marinetti, sarà tra i pochi ad avere una visione realista dell’interventismo («Una guerra è una guerra. Aveva compiuto da neppure un mese ventisette anni, porca puttana!») e, più in generale, grazie alla sua indipendenza di pensiero, rimarrà depositario di una solida critica ai tempi e alle loro sconsideratezze.
Come sugli alberi le foglie, è un romanzo costruito attorno a due nuclei temporalmente sfasati: c’è Milano – la “vera capitale d’Italia” – sfondo delle vicende di Sant’Elia e dei futuristi e c’è la guerra, con le trincee del 1915-1916. I due filoni narrativi procedono in parallelo, ricollegandosi solo nel finale, dove la linea “milanese”, sfociata nelle manifestazioni interventiste, termina con le vicende che, tornando all’esordio del libro, danno l’abbrivio alla linea bellica – la quale, senza sorprese, si chiude con la morte del protagonista. Il libro, anche attraverso tale strutturazione – molte sequenze si basano sull’alternanza tra accadimenti passati e presenti –, intende denunciare gli orrori della guerra ed evidenziare come certe ideologie possano troppo spesso risultare fascinose se non mediate dall’esperienza. Marinetti, D’Annunzio, gli interventisti in generale, sono figli di una società del benessere che ha totalmente espunto la violenza della morte e vi ha costruito intorno una mitologia fatta di coraggio e nobiltà. È chiaro quindi come la sovrapposizione delle linee narrative (con quella milanese che inneggia alla guerra e quella in trincea che ne mostra le nefandezze) abbia l’obiettivo di suscitare un forte straniamento nel lettore.
Più in generale, l’immagine stessa della realtà che ci restituisce il romanzo è quella di un mondo in disgregazione e non tanto a causa dei rinnovati orrori della guerra, quanto a causa della intrinseca – ma non palese – fragilità delle idee con cui quel mondo era stato costruito («Il futurismo nasceva per una caduta da un’automobile e finiva con una caduta da cavallo»). Sotto questo profilo credo che possano essere chiaramente intese delle analogie tra la storia narrata e il nostro presente e proprio qui, a mio avviso, può essere rintracciato il punto di maggior valore del libro.
Tuttavia Come sugli alberi le foglie si espone a due punti di criticità. Il primo di questi è ravvisabile fin dal titolo, celeberrima citazione ungarettiana. Nel raccontare il fallimento ideologico di un’intera generazione attraverso il conflitto mondiale, l’autore si sofferma eccessivamente sulla classe intellettuale che di quella guerra è stata senz’altro la più grande vittima, ma non la sola. Tale aspetto narrativo pone infatti gravi limiti ad una certa autenticità – prima ancora che al realismo stesso. È vero che tra le righe del testo compaiono qua e là uomini da tutte le regioni, con il loro portato di tradizione e dialetto, nel tentativo di dipingere una nazione incompleta e frammentata, composta da uomini che non sanno che farsene del patriottismo posticcio o della retorica interventista, ma è altrettanto vero che la guerra descritta da Biondillo è una guerra di artisti, poeti, pittori, grandi uomini insomma i quali, come in un film di Hollywood, si presentano a costellare la vicenda di Sant’Elia. Nel testo sono infatti frequentissimi i camei dei “famosi”, da Ungaretti stesso, evocato in absentia, a Carlo Emilio Gadda, Giorgio Morandi, o ancora Mussolini e D’Annunzio. L’Italia sembra zeppa di figure ingombranti e straordinarie, nel bene e nel male, eppure, nonostante ciò, non appare in grado di far fronte ai propri errori.
Al di là di questa considerazione, emergono nitidamente i limiti di una simile operazione nel momento in cui queste mirabili figure non vengono affatto proposte in una prospettiva originale, anzi, ogniqualvolta uno di essi compare sulla scena non fa che evocare o essere evocato da un dettaglio o un aspetto che rimanda immediatamente alla sua forma figurale estratta dai libri di scuola. Nel momento in cui un compagno di Sant’Elia legge le poesie di un certo poeta appartenente a un altro battaglione, sappiamo già di chi stiamo parlando e ciò che la comparsa del personaggio apporta alla narrazione non è né più né meno che una citazione raffinata, ma che non apre alcuna prospettiva efficace su Ungaretti rispetto all’immagine che già conosciamo. Andando oltre le singole figure, poi, anche la percezione generale delle vicende artistiche e personali di Sant’Elia e i suoi risulta a tratti un po’ stereotipata – il genio di provincia, la piccola casa d’artista cosparsa di fogli sul pavimento, i momenti solipsistici nelle notti milanesi, la bagarre futurista e così via.
Solamente in una prospettiva fallimentare (che è comunque l’anima del libro) e nello straniamento, alcuni personaggi ritrovano una certa profondità prospettica: è in D’Annunzio che infilandosi in macchina riceve lo scappellotto di un goliarda e si spaventa a morte, in Cadorna che pago della sua educazione militare vaneggia l’efficacia delle sue “spallate”, in Boccioni ammazzato da un cavallo. Ecco, è in questa dimensione della sconfitta che il testo assume un andamento più efficace rispetto ai clichés presenti in altri luoghi.
Infine, tra questa carrellata di figure bizzarre, Sant’Elia spicca per contrasto. All’interno di un clima che assume sempre di più i contorni di un furor irrefrenabile e contagioso, l’architetto ricopre una posizione divergente, sostenendo la sua estraneità alla temperie: il suo sogno, la sua fisionomia è quella di un costruttore, ben distante dai coevi proclami di distruzione, con il paradosso, però, di aver costruito ben poco. Il conflitto tra Sant’Elia e l’interventismo, incarnato da Marinetti, è un contrasto tra ragione e follia, dove però è proprio la prima a soccombere sotto l’irrefrenabile impulso della violenza.
L’amara analisi dei fatti è consegnata alla voce di Carlo Carrà che dialogando con Sant’Elia riguardo al fondatore del futurismo spiega: «- Non l’hai ancora capito? – dice Carrà […] – La verità, quella che nessuno vuole dire è che ognuno di noi per ragioni più disparate, per interesse, per amicizia, per quello che ti pare, ognuno di noi in tutti questi anni ha dato retta a un pazzo. […] Filippo è l’unico sincero di tutti noi. Mi fa quasi tenerezza… a modo suo è un puro. Lui la guerra l’ha sempre voluta. E non per fare carriera, o per fare soldi, o per chissà quale ragione. La vuole perché non può farne a meno. […] Non ha niente contro gli austriaci o contro i tedeschi… oggi sono loro, domani chissà chi…».
La morte del protagonista consacra quindi il fallimento dell’ideologia e il trionfo della realtà sull’ideologia.
Gianni Biondillo, Come sugli alberi le foglie, Parma 2016, 352 pp. 18,50€