«Stiamo camminando insieme al bosco» dirà Lije in uno dei racconti più rappresentativi di Nelle terre di nessuno (traduzione di Roberto Serrai, minimum fax 2018). Una figura quasi mitologica, da fauno dei boschi, che però apre a un altro tipo di immaginario mitico: quello della provincia americana. Procedere “insieme” al bosco vuol dire legarlo a sé in una comunione osmotica in cui la mortalità potrà solo cedere il passo all’inesorabile processo di trasformazione. Difficile dire, per una raccolta pubblicata nel 1992, quale mutamento possa aver coinvolto o meno i personaggi di Chris Offutt che nella realtà esistono in carne e ossa e compongono da sempre l’immaginario rurale americano. Il Kentucky, terra d’origine dell’autore, si mostra immediatamente con una mappa che apre la raccolta: le strade della cittadina, come i primordi delle civiltà stanziali, seguono l’andamento dei fiumi, mentre i canonici riferimenti topografici lasciano il posto alle collocazioni delle dimore degli abitanti; le case isolate che si diramano nel bianco hanno scavato un posto isolato tra le colline e la boscaglia.
In questa raccolta di racconti il destino dell’uomo è così legato a quello naturale da eliminare qualsiasi altra legge umana. Proprio dove le case sono collegate da strisce di terra tra i boschi, proprio dove sono i cervi a decidere di mostrarsi, l’unione tra ritmi naturali e vita umana si realizza con lo scontro. Uccidere l’uomo prima del puma, uccidere il cane che ha troppa paura di vivere, tutto per proclamare una supremazia temporanea e sperare di tramandarla alle generazioni che verranno. Quando si parla di futuro, però, i personaggi di Offutt nominano gli eredi come parte del passato, perché ormai hanno abbandonato la terra d’origine. Per tale ragione il tempo si accartoccia su se stesso affidando il vivere presente a un istinto quasi primordiale.
«Sulla collina nessuno ha finito le superiori. Da queste parti ti giudicano da come ti comporti, non da quanto ti credono intelligente» solo con l’incipit di Segatura Offutt racchiude un mondo intero e nascosto: dà regole a un isolamento sociale e culturale che sta in chi deve cavarsela con le proprie forze. La conoscenza non è qualcosa da imporre ma diventa tutt’uno con l’esperienza e la tradizione orale. Quello che devi lasciare è il racconto di un nonno che lascia in eredità al nipote i segreti della natura. In Zia Lilith, l’ultima levatrice una radice di moli e dei doni nel bosco quieteranno una promessa del passato.
Offutt usa la semplicità del periodo, la concisione dialogica che poco concede alle metafore e riserva alla natura uno sguardo più attento e riflessivo. Una simile assenza lirica per la sfera umana rivela il lato oscuro dei racconti di Offutt: l’America profonda è ostile e non è difficile collegarla all’attualità di Trump. In una realtà di ignoranza e di istinti la speranza non è una condizione perseguibile se si è costretti a confrontarsi con il cinismo dell’esperienza.
«Non lo vuoi un lavoro?»
«No, signora».
Sospirò e guardò a terra, stropicciandosi gli occhi. Si appoggiò allo stipite della porta. «A volte non so che ci sto a fare qui», disse.
«Non lo sa nessuno», risposi. «Qui quasi tutti aspettano di morire e basta».
I personaggi di Offutt hanno avuto modo di avvicinarsi e accettare la vita rendendo invalicabili i confini del loro mondo. Aggiungono uno sguardo differente a quel gotico americano che scova il riscatto e la rivelazione nella contemplazione. Nei racconti di Flannery O’Connor l’epifania è violenta e solo attraverso essa è possibile arrivare alla redenzione. La ragione di una vita umile, la moralità bigotta di un uomo ossessionato dalla missione umanitaria di rieducare un ragazzo e di non prendersi cura del figlio che soffre per la scomparsa della madre (Gli storpi entreranno per primi) avrà sempre un tragico risvolto. «Non si era mai considerato un grande peccatore, prima d’allora, ma in quel momento capì che la sua depravazione gli era stata nascosta per risparmiargli lo sconforto supremo» è il pensiero del nonno protagonista de Il negro artificiale mentre l’arrivo nella grande città e il perdersi in un quartiere negro, si risolverà nella presa di coscienza dell’inadeguatezza e del risentimento verso la vita.
Nei racconti di Offutt non c’è bisogno di nessuna brusca redenzione e la presenza del divino è accantonata in favore di un sapere appreso a proprie spese: i suoi personaggi non hanno la spinta a lasciare la terra su cui poggiano i piedi e tutto il significato di futuro si restringe all’intervallo tra un respiro e il momento dello sparo.
«Quelle colline coperte di boschi hanno fatto di me ciò che sono» affermerà Offutt in un’intervista con Luca Briasco. Il rapporto con la terra natia è così intimo da superare le contraddizioni di un isolamento deleterio, con la speranza di mantenere qualcosa di puro.
Avvicinandoci alla regione di cui Offutt scrive è interessante notare come la narrativa del sud cambi anche tra due versanti opposti delle stesse montagne. Accanto al Kentucky di Offutt staziona la Virginia Occidentale di Breece Pancake. Nei racconti di Trilobiti si avverte un ritornello continuo: giovani che sognano di andare via dalla propria terra con la consapevolezza di non riuscire ad appartenere a niente che non sia il luogo d’origine. Lo scarto tra Pancake e Offutt si avverte anche nella prosa scelta. Laddove Offutt è breve e fulmineo, Pancake indugia per scavare il fondo di personaggi sognanti in attesa di un futuro di cui vorrebbe essere protagonisti.
Mi alzo. Passerò la notte a casa. Devo chiudere gli occhi nel Michigan, forse anche in Germania o in Cina, non lo so ancora. Cammino, ma non ho paura. Sento che la mia paura si allontana in cerchi concentrici attraverso il tempo, per un milione di anni.
Cercare nei trilobiti è cercare le motivazioni per cui le origini sono più forti dell’oblio del nuovo. I personaggi di Pancake, anche se più dinamici perché bruciati dal desiderio di andare via, sono in fondo consapevoli di essere in una condizione di perenne nomadismo affettivo e geografico. La realtà stanziale di Offutt, invece, è una diretta accettazione dei limiti boschivi dove ogni tentativo di cambiamento è pagato con la violenza.
Kentucky straight è il titolo originale della raccolta e racchiude in sé non solo il carattere artigianale del whisky prodotto col granturco, ma anche il sapore puro, onesto e diretto di chi è in grado di costruire una geografia reale e mitica delle proprie origini.