È innegabile che ciascun individuo non è esente, in ogni momento, dall’avere la mente ingombra di pensieri necessari, indotti o autonomi. La mancanza di capacità critica reale colloca ormai l’individuo in un territorio divenuto campo di battaglia a causa di continui scontri tra media e comunicatori, i quali tendono a neutralizzare tale capacità a vantaggio di un modo di pensare uniformato. Dunque per certuni si manifesta la necessità di coltivare un silenzio interiore che li porti a mettere ordine nella mente in una maniera naturale. Ma come può avvenire ciò nell’attuale società del rumore, dell’opinione fattasi urlo, della velocità dettata da una tecnologia sempre più aggressiva?
Mariangela Guatteri (Reggio Emilia, 1963), artista che, fin dai primi anni Ottanta, sperimenta materiali e tecnologie realizzando lavori visivi e sonori, video e installazioni ambientali, conduce la sua ricerca verso le tecnologie e i linguaggi artificiali dell’informatica, le modalità relazionali degli ipertesti e della Rete, gli oggetti ipermediali, gli spazi sonori, virtuali e collaborativi del Web. Opera altresì attraverso la combinazione di diversi linguaggi quali quello visivo e quello poetico, come nel caso del recente volume Tecniche di liberazione (Tielleci, 2017) in cui suggerisce un’esperienza che non è soltanto visuale o narrativa, ma un vero e proprio esperimento che va alla ricerca di nuove strade di interpretazione che pongono quale fondamento dell’indagine la necessità di mantenere un vigile sistema critico.
La disciplina dello yoga, che Guatteri pratica da oltre un ventennio considerandola «propedeutica all’attività scrittoria», la fotografia e la parola sono i tre linguaggi che sceglie per porre in atto il suo intento.
Cosa ha a che fare la parola tecniche con la parola liberazione? Nella società in cui viviamo, il grado di liberazione che pensiamo di possedere è in realtà prossimo allo zero. I livelli di condizionamento del pensiero sono molto elevati, passano attraverso linguaggi ipersfruttati, proprio come la parola e l’immagine. Come è possibile allora utilizzarli per attuare una tecnica di liberazione? Perché essi pure vanno liberati. Non può dunque esserci liberazione dell’individuo senza passare attraverso la liberazione delle parole e delle immagini.
È d’obbligo qui interrogarsi sul senso che diamo oggi ai linguaggi. L’uomo li utilizza scegliendo quello che gli si confà maggiormente. Dimentichiamo però spesso che la percezione umana è vissuta da più sensi contemporaneamente e quindi l’attenzione di fronte a un oggetto può definirsi totale. L’indagine condotta da Mariangela Guatteri va nella direzione contraria, utilizza tre livelli sensoriali: il corpo (tatto), la parola (suono), la fotografia (vista). Un aspetto fondamentale e innovativo di queste “tecniche” è proprio l’introduzione dell’elemento del corpo. Nella relazione parola/immagine ciò avviene mediante la pratica yoga che permette di attraversare tutti i sensi. Parola e fotografia sono una emanazione del concetto di presenza che non significa soltanto essere in un dato punto con il proprio corpo o con la propria mente, quanto avere la giusta percezione dei processi che portano ad una evoluzione che interessa la totalità dell’individuo tendendo alla sua rivelazione.
In questo senso la liberazione è da intendersi come da uno sguardo predefinito: osservo un’immagine in quanto tale, non perché debba esprimere o evocare qualcosa. Siamo davanti al tentativo di togliere tutto ciò che si frappone tra il nostro sguardo e l’immagine, per poter accedere a questo stato occorre un allenamento. Tale parola nell’opinione più comune appartiene prioritariamente alla sfera del corpo. Ci si allena in una disciplina sportiva, ma anche nello studio. Per quale motivo? Apparentemente per resistere. Ciò che Mariangela Guatteri mostra nella sua opera è esattamente il contrario: ci si allena per arrendersi. Il che non equivale a soccombere, bensì a creare paradossalmente un atto di resistenza di tutt’altra natura.
Nel suo noto Abecedario Gilles Deleuze afferma: «L’uomo imprigiona continuamente la vita, continuamente la uccide. L’artista libera la vita […] Liberare la vita dalle prigioni dell’uomo, questo è resistere». La liberazione cui Deleuze fa riferimento è dalle pratiche comuni che costringono l’individuo a restare chiuso in gabbie che egli stesso si è costruito attorno. Scopriamo così che il senso del resistere non è riferito a qualcosa o qualcuno che sta al di fuori di noi, piuttosto a qualcosa che è al nostro interno e che è formato da espressioni diverse, dove la compresenza dei linguaggi è inevitabile.
Allora, qual è alla fine il vero senso della libertà? Possiamo affermare che esso non esiste se non in relazione al senso di liberazione. In realtà non è tanto il concetto astratto di libertà che l’individuo dovrebbe allenarsi a perseguire, quanto quello di liberazione. Osservando le immagini contenute nel libro di Mariangela Guatteri è possibile vedere le fotografie con un occhio disgiunto da quello che legge le parole. Qui l’autrice non esegue una banale operazione di associazione tra immagini e testo, ci mostra viceversa due livelli che viaggiano su binari paralleli, essi non si incrociano ma l’equilibrio che si manifesta nel loro scorrere ravvicinato rappresenta proprio una di queste tecniche di liberazione cui l’autrice allude. I due elementi sono indipendenti eppure li percepiamo come fossero un Unico.
Procedendo attraverso parole e immagini, l’autrice affronta entità che emergono dalla memoria, il corpo si allena, attraverso la pratica dello yoga, a riconoscerle. Sono elementi primordiali, abbandonati, che a tratti appaiono irrazionali ma che sono, invece, radicati nel profondo molto più di quanto si pensi. Essi cercano uno sbocco che l’individuo non sempre riesce o vuole concedergli costringendoli a precipitare senza forma. Tali entità appaiono come «folgorazioni», l’autrice le paragona a scosse elettriche. Esse mirano al centro mentre l’individuo tende a rimanere all’esterno. Guardando le immagini notiamo che esse offrono una chiave per entrare in questo meccanismo, l’apparire e lo scomparire di tali entità crea giustappunto una resistenza: «La resistenza al messaggio di rinuncia». Rinunciare, afferma l’autrice, non è perdere ma piuttosto arrendersi allo svelamento rappresentato dall’oggetto osservato. Un esempio quasi empirico di questa pratica fu realizzato da Franco Vimercati con il lavoro fotografico Il ciclo della zuppiera (1983-1992) in cui l’autore attese lo svelamento dell’oggetto in una ripetizione di scatti durata dieci anni.
Pratichiamo l’ascolto e l’osservazione mediante associazioni prodotte da oggetti, tale esperienza altera la forma originaria dell’ascolto come dell’osservazione. Non si può stabilire la purezza del proprio pensiero poiché ci si affida all’oggetto: l’oggetto pensa per noi. La parola, l’immagine, provocano in noi una alterazione che pesca il proprio significato nella memoria, nelle emozioni. Ciò produce conseguentemente uno stato fisico che non sempre siamo in grado di governare o anche solo di comprendere: non ne conosciamo la forma. Si tratta di stati precisi, reali che proiettano nell’individuo un senso di disagio. Tale disagio può essere percepito sia negativamente sia positivamente; in realtà positività e negatività, elementi opposti, convivono al nostro interno ma la nostra razionalità sovente tende a separarli conferendo all’uno o all’altro, a seconda dei casi, carattere di assoluto: l’equilibrio è in realtà nella compresenza di entrambi. Alcune immagini che vediamo oltre sono statiche, tese a rappresentare una posizione non affidata al caso. Esse suggeriscono «un’altra modalità di esistenza», chiarisce l’autrice, una modalità che viaggia concentrandosi «sulla cosa» eludendo gli automatismi. Per questo il corpo che si allena attraverso la pratica dello yoga sviluppa una resistenza che è liberazione
Se ad esempio osserviamo il cielo o se dall’alto guardiamo verso il basso come ci sentiamo? Ci si relaziona a qualcosa di noto senza comprendere che nulla è realmente noto se non nella misura in cui è vissuto (vale a dire attraverso l’esperienza). Parallelamente consideriamo punti fermi o punti d’arrivo momenti scaturenti da modalità di azione legate non all’indagine bensì al preconcetto. Non siamo in grado di penetrare ciò che si presenta dinanzi a noi e tale penetrazione può avvenire soltanto nel momento in cui smettiamo di dare una definizione all’oggetto/soggetto e ci arrendiamo al suo esistere. Dunque così come i tronchi scuri degli alberi restano immobili nella neve invernale, allo stesso modo il corpo può trovare, attraverso la pratica di relazione con l’oggetto/soggetto, la capacità di restare nella sua posizione che, in estrema ratio, significa coerenza.
L’apparente immobilità del paesaggio/corpo è resa viva dall’attraversamento, una condizione dinamica contraria che non rifiuta quella di immobilità. «Un modo di essere nuovo e paradossale», scrive l’autrice, che ci induce infine a vedere le cose come sono e ciò avviene in corrispondenza del vuoto creato quando «la memoria smette di funzionare». È questa una chiara tecnica di liberazione che ci permette di osservare l’ordine delle cose anche ove questo non appare.
Infine non c’è approssimazione nell’immagine così come nella parola, entrambe assumono un significato preciso a seconda del contesto in cui sono calate. Esse posseggono forza, ma perché questa si riveli entrambe devono essere libere dalle convenzioni: allora, azioni concrete corrisponderanno a pensieri concreti. La parola e l’immagine diventeranno «Frutti particolari. Visibili, invisibili» e il corpo, questo involucro mortale che pure è parte dell’«infinito universo», come affermava Giordano Bruno, potrà riflettere improvvisi bagliori.