Proseguono gli incontri alla Biblioteca Tiraboschi con i finalisti del Premio Bergamo. Dopo Alessandra Sarchi, Davide Orecchio e Gianni Biondillo, oggi, alle ore 18, è il turno di Michele Mari, con il suo Leggenda privata.
Qui il calendario completo degli incontri.
L’anno appena trascorso sarà ricordato come uno dei più prolifici sui diversi fronti dell’attività di Michele Mari, il quale, oltre alla sontuosa edizione ampliata de I demoni e la pasta sfoglia (il Saggiatore), ha pubblicato Sogni (Humboldt Books), opera a quattro mani frutto della collaborazione con l’artista Gianfranco Baruchello, la traduzione di La macchina del tempo (Einaudi) di H. G. Wells e la sua ultima prova narrativa, Leggenda privata (Einaudi), libro complesso ed affascinante, che porta ad un ulteriore livello di raffinatezza il gioco autografico dell’autore. All’interno della cornice il personaggio-scrittore è vessato dalle richieste di ben due Accademie di mostri, distribuite tra la mitica casa di Nasca e la sua cantina: oggetto della pretesa è nientemeno che l’auto-bio-grafia dello scrittore stesso. Dentro la finzione viene trasportata una metafora che fuori dal libro si adatta a dare forma all’ispirazione di uno scrittore che non ha mai nascosto di trascrivere i sussurri dei demoni al suo orecchio, e qui il paradosso è solo apparente, perché il demone altro non può dettare che le proprie pretese:
Nacqui d’inverno, al nostro discontento. Fui cupo e spinoso, poi come un buon cactus produssi dei fiori, cibandoli delle mie polpe. I miei libri, quei fiori; il mio stile di vita, le spine; la bio-vita, la polpa; il mondo, il deserto, ove tallotta uno scorpio, un crotalo, un formicaleone; oppure il sitibondo che ti amputa e scortica per succhiarti la fibra: «Ma prendi i miei fiori» gli dici col pensiero, «alliétati di quella fragranza»: macché, vuole attingere al bio, colui, né più né meno degli Accademici; e tu resti poi monco, fiorito ma monco, e ludibrio alla famiglia dei cactus e degli alberi tutti.
Quel «Nacqui d’inverno», incipit ossessivamente ritornante, è l’epicentro intorno al quale si organizzano gli aneddoti con cui lo scrittore tenta di soddisfare la richiesta degli Accademici. Mari ritrova gran parte della topica di quella “sanguinsa infanzia” che lo ha consacrato come uno degli scrittori più significativi dei suoi anni, offrendo anche un punto di vista aggiornato sulle vicende raccontate, spesso anticipate altrove. Questo scivolamento posizionale è ottenuto tramite il collocamento del mondo infantile nella catena di storie familiari che, a partire dalle vicende dei nonni e passando per quelle dei genitori, condurrà alla nascita del personaggio-scrittore. L’unica via per allargare la finestra della memoria anche a ciò che in senso stretto non può essere ricordato è di ordinare il materiale narrativo nella prospettiva di quello che sarebbe accaduto, ossia come presagio funesto di quell’«amplesso fatale» che un giorno unì quei due universi che rispondono al nome di Enzo, padre il cui carattere si colloca «all’intersezione di Mosè con John Huston», e di Iela, madre-ultracorpo, per il resto perfettamente discontinui l’uno all’altro. L’infanzia cosciente del narratore, il quale, prima di incarnarsi, sarà esistito come disegno ipotetico o candidato aborto, dovrà sovrapporsi almeno per un segmento a tutte le vite che hanno preceduto e preparato la sua. Solo in questo modo sarà possibile conservare memoria di quei volti, visitarli e, nel ricordare, dare luogo a ulteriori ferite. Nella sterminata disponibilità del possibile ogni evento si allinea con altri a configurare la trama di un destino, e uno scrittore come Mari sa perfettamente che la logica del destino è intrinsecamente narrativa: le cose dovevano andare in questo modo perché sono andate in questo modo.
In Leggenda privata come nei migliori libri di Mari, la necessità delle tematiche coesiste con la libertà della maniera, che in diversi momenti offre al lettore dei picchi di virulenza espressiva degni di Rondini sul filo (Mondadori 1999), in particolare nei passaggi in cui la straordinaria immaginazione associativo-oppositiva dell’opera reimpasta elementi precedentemente evocati in collage di brutale e raffinata eleganza; uno dei vettori lungo il quale questo procedimento viene realizzato è il continuo gioco onomastico-identitario che coinvolge le figure della storia, carte continuamente mischiate e distribuite in diverse sequenze sul tavolo della sorte. L’intensità dello stile irradia anche i minimi accorgimenti tipografici e li porta alla massima eccitazione, basti pensare ai fulminanti effetti di montaggio prodotti da un uso quasi cruento delle parentesi. La logica della serie fornisce ulteriore coesione poetica al libro ed esplicita un disegno che governa anche la successione degli spunti narrativi:
Le Bergonzi, le signorine Lanza, la dama di San Vincenzo, la Dirce, la Velia, la Serva, la Vecchia, la Madre, mia sorella, la Donatella-Ivana-Loretta fanno una serie. La focaccina, il Mottarello, il gingerino-crodino, il pancotto (due versioni), l’uovo, il bollito (basta avvertire), la carrozza e la puttanesca ne fanno un’altra. I Mari (dalla parte della cinghia) un’altra ancora. Buzzati, Bonatti, Jannacci, Ovidio il bidello una quarta. La quinta: Quello che Gorgoglia, Quello che Biascica, Quello che Ansima, Quello con l’Enfisema, il Mucògeno, Quella con il Velo, la Sagoma, la Vecchia (che andrà dunque scorporata dalla prima serie), i Ciechi. Proseguo: […]
Una delle più visibili novità di Leggenda privata nella produzione di Mari è costituita dall’inserimento di fotografie all’interno della partitura del libro, anche se non è certo la prima volta che nelle sue opere le parole si trovano a dialogare con le immagini: ricordiamo le illustrazioni realizzate dall’autore stesso per Filologia dell’anfibio (Bompiani 1995), le magnifiche tavole di Velasco Vitali, che si fondono con i testi di Milano fantasma (EDT 2008), fino alle recentissime collaborazioni con Gianfranco Baruchello per Sogni e con il fotografo Francesco Pernigo per Asterusher (Corraini 2015). Rispetto a quest’ultima «autobiografia per feticci», che presenta una selezione di scatti effettuati nelle case di Mari secondo un criterio di abitabilità, Leggenda privata, autobiografia “per mostri” (a questi dopotutto andrà consegnata), dispone una serie di fotografie anaerobiche e completamente inabitabili, perché ingombrate dalla tematizzazione maniacale del rapporto di tre elementi: il Padre, la Madre, il Figlio. Queste foto, a partire da quella riprodotta sulla sovracoperta del libro, non rappresentano soltanto il fuoco incrociato di ferite che è la storia della famiglia, ma sono quel fuoco. La tentazione iconica per cui alcune immagini sono talmente cariche di aura da essere per sé letteratura e come tali non bisognevoli di ulteriori chiose verbali, attraversa, dopo Asterusher, anche questo libro.
La scelta di incorporare queste fotografie significa da una parte portare ad un nuovo grado la feticizzazione letteraria della vita, sottraendo volti e sguardi all’odioso imperativo del πάντα ῥεῖ. Se c’è una lezione da trarre da quel magnifico racconto che è I palloni del signor Kurz, il primo della raccolta Euridice aveva un cane (Bompiani 1993), è che per sottrarre le cose alla polvere dell’oblio bisogna contenderle alla vita, museificarle. D’altra parte queste immagini esemplificano uno dei paradossi fondamentali che rendono l’artificio di Leggenda privata così intrigante: se, rispetto alle prove narrative precedenti, la nudità-polpa è il tratto per cui il nuovo libro da consegnare ai mostri dovrà distinguersi, essa potrà essere trasportata nella pagina solamente se selezionata, lavorata e disposta tramite i mezzi della menzogna letteraria. Più o meno è la stessa differenza che intercorre tra l’essere nudi e il mostrarsi nudi:
Corazzati, incocleati, ammantati di prestigi e maniere, veri solo nella menzogna, siamo stati convocati all’ultima rappresentazione, insieme a tutti i nostri fantasmi e ai nostri feticci: perché questo sono i nostri ricordi, feticci essi stessi, croci gialle che non si staccano dalle valigie, gelati che si chiamano Elbino e Ponzello e che non ci fan gola, ma certo sono laggiù.
Quando si condivide un ricordo d’infanzia, non si aspira a raccontare il mondo che, tra le altre cose, è stato il mio, il mondo di quando ero piccolo, ma il mondo in quanto mio: il possessivo è parte della definizione e ha in sé la sua incontrovertibile verità (perché nessuno può smentirci nel ricordare le cose in un certo modo), ma anche la sua dose di mistificazione, soprattutto in letteratura:
Oh Accademici, nacqui d’inverno: non vi sembra che mi stia sforzando seriamente? C’è il romanzo, c’è la mia vita. Non c’è Milano, d’accordo, non c’è Roma, non c’è Varazze, non c’è Città della Pieve: non ci sono i miei compagni di classe, i miei professori; non ci sono le donne effettive, non ci sono i miei figli; non il mio cane, non i campi da calcio, non il poker, gli scacchi; non c’è nemmeno il cinema, non c’è! […] In compenso, avete la casa in cui si è reificata la mia infanzia, l’adolescenza, il sesso mancato e dunque il sesso più vero, la lettura e la scrittura, la misantropia e la nevrosi, l’arresto del tempo, il ripiegamento: la solitudine.
L’artificialità della polpa è particolarmente visibile sull’asse della selezione del materiale aneddotico, che quasi mai si avventura al di fuori di quel perimetro magico costituito dall’infanzia e dagli eventi che la preparano. A cosa alludano i puntini di sospensione che separano le diverse sezioni del libro è lasciato al lettore, ma un’ipotesi è che suggeriscano tutto ciò su cui si è voluto tacere. Sul fondamentale paradosso verità-finzione Mari ha modo di giocare con una certa vivacità di effetti, orchestrando un ampio spettro di registri che comprendono la parodia e l’ironia, l’hilarotragoedia, passando anche da momenti di amara comicità. In Leggenda privata la bio-vita, la polpa real-autobiografica, è, ancora una volta, al servizio dei fiori, e rappresenta ciò di cui lo stile si nutre. Il demone ghigna, gli incubi si fanno o si hanno? Nella vita si hanno, in linguistica non saprei, ma nella finzione, quasi sempre, si fanno.
L’immagine di copertina è un particolare di The House of Edward Gorey, un’illustrazione di Dan McCarthy, www.danmccarthy.org