Domenica 8 aprile Danilo Soscia, insieme a Fabio Deotto e Chiara Barzini, sarà ospite di CaLibro, il Festival della Lettura di Città di Castello. Nell’incontro Ti ascolto, leggerà pagine dal suo Atlante delle meraviglie accompagnato dalla musica dei Cali-Brass.
Nelle prime righe del risvolto di copertina, l’Atlante delle meraviglie – Sessanta piccoli racconti mondo di Danilo Soscia (minimum fax, collana Nichel) viene definito come la «Wunderkammer, la camera dei prodigi: collezione di oggetti rari e squisiti, meraviglie della tecnica, orrori sublimi della natura e della storia».
Si tratta di un buon termine di paragone per questo libro di racconti lampo, un formato tipico di molti lit-blog presenti attualmente sulla scena del web – e non a caso prime versioni di alcuni di questi racconti apparivano già in Squadernauti –, un formato che in un certo senso cambia le regole del gioco della costruzione narrativa: allontanando nel non detto il rischio di carenza di materia di racconto, riducendo le possibilità di incongruenze interne, strizza l’occhio a suggestioni simboliche impossibili, ricostruzioni ambiziose e tentativi strutturali estremi, rendendo percorribile la strada del catalogo delle bizzarrie senza mancare di appoggiarsi, al contempo, a una tradizione novecentesca in Italia piuttosto solida, che va dalla sperimentazione attorno alla lingua dei Racconti Impossibili di Landolfi alla suggestione scientifica delle più brevi tra le Cosmicomiche di Calvino.
E certo in Soscia non manca l’ambizione immaginativa: attraversando infatti l’Atlante delle meraviglie ci si muove non solo nello spazio e nel tempo (dalla Lesbo del VII secolo avanti Cristo alla Buenos Aires del 2012, dall’Egitto di fine Ottocento alla Francia prima dell’occupazione tedesca), ma – assecondando suggestioni frattali da Le mille e una notte – verso la stessa origine del racconto, in un territorio sospeso tra le tragedie, l’epica classica e le Sacre Scritture.
Un’ambizione, questa, che pur contribuendo in maniera decisiva alla riuscita – anche costitutiva – del libro non può certo bastare da sola: è infatti da cercare altrove il motivo del senso di compiutezza che l’opera di Soscia è in grado di trasmettere a una lettura sequenziale, quando l’esposizione al rischio della frammentarietà è in un contesto del genere ovviamente molto elevata. E questo altrove parte dalla stessa definizione di meraviglia in quanto atto od oggetto esaltato dal fascino dell’eccezionale e dell’inatteso.
Esiste cioè una tensione, nei confronti di questo eccezionale, di questo inatteso, che gli dona due volti: come in natura certi predatori ricorrono al meraviglioso per adescare nelle maglie di un’attrazione fatale la propria vittima, così l’Atlante delle meraviglie è una collezione di trappole a scatto, marchingegni dell’orrore che l’autore registra e traduce in tensione nei confronti dell’assoluto.
L’insieme dei racconti assume così i connotati di un vagito nei confronti delle varie forme che assume l’ideale ultraterreno, un vagito emesso da tutte le creature viventi che assomiglia alla chiusa de Il macello di Circe, il testo numero trentaquattro: «è triste amare senza essere ricambiati».
Per focalizzare meglio – attraverso il testo – questo nucleo tematico vivo, è interessante partire da un estratto dal testo numero diciassette, Morfina:
Dissi, Durante il crollo della Torre di Babele, l’architetto che ne aveva ideato la forma non riusciva a trovare una via di fuga. Lanciarsi nel vuoto era l’unica soluzione. Pensò allora di travestirsi da arcangelo, convinto che Dio lo avrebbe scambiato per un suo soldato, e per questo lo avrebbe accolto tra le schiere celesti. Così egli saltò dalla bifora, fiducioso, ma rovinò a terra, maledicendo il giorno della sua nascita e il Creatore.
In questo che è un racconto nel racconto – e cioè una singolarità, che quindi apre al discorso sulla narrazione stessa – c’è un po’ l’intero movimento della drammaturgia in Atlante delle meraviglie: il mascheramento simbolico per l’aspirazione all’assoluto; la rovina; l’ingiuria contro un Creatore che è solamente supposto.
Che si tratti di simboli ideologici che rovinano al suolo (è il ruolo questo di Gagarin in Fiore d’ikaria, racconto numero ventuno), di convinzioni comode, messe a repentaglio dal passaggio all’età adulta (come nel primo racconto, Vita di Bao Bao allo zoo di Berlino, dove ad esempio il simbolo è lo stesso Bao Bao, un panda nato in cattività, un panda “innocente”), che si tratti di incarnazioni terrene portatrici di metafisica o della sua assenza (è il caso di Hitler in Il dio dei conigli, o del Diavolo che riesce ad essere felice solo quando si affida al caso, in Pachinko, racconto trentasei) o ancora di speculazioni direttamente rivolte all’insoluto quesito sull’esistenza di Dio (racconto ventidue Maiale) è evidente che i criteri di inclusione nel catalogo che l’autore adopera riguardano la possibilità degli argomenti dei racconti di essere occasioni ed emblemi adatti per rappresentare la disperazione dell’inconsistenza nella speranza di un’eternità, icasticamente.
Proprio “icasticità” è una parola chiave per questa raccolta, sia al livello – come detto – della ricerca costante della figura, dell’immagine che risolve con la sua aderenza al significato che porta con sé (una ricerca che porta a risultati notevoli come, d’altra parte, ad alcuni fallimenti – casi in cui la ricerca dell’estremo porta a sfiorare il ridicolo – come nel caso di Lavanderia a gettoni, dove per l’appunto l’onere di rappresentare la tana, la chiesa, il rifugio delle speranze è affidato a una lavanderia a gettoni), sia al livello della lingua.
La lingua di Soscia è infatti composta di frasi ad effetto, brevi come brevi sono i racconti; lingua spesso ermetica, lingua fonda indirizzata alla ricerca dello stupore nel lettore, risulta estremamente efficace le volte in cui la reiterazione di alcune “formule”, la scelta puntuale dell’eclatante, non la porta a precipitare in un sensazionalismo che diventa maniera di se stesso e ne indebolisce le soluzioni, che pure sono molte e interessanti.
Certo questo non intacca la bontà di quanto fatto da Soscia in un libro che, per vastità immaginativa, per ampiezza e sfaccettatura della trattazione tematica, per particolarità di alcune delle soluzioni di trama e di lingua, si può dire un’opera degna di attenzione.