Un rapporto tra padre e figlio che vive di distanze, ritrovamenti, parole non dette e una storia lunga, lunghissima, che si proietta nel mito di un casato antico e riemerso dal buio, dopo secoli di prestigio e viaggi fascinosi in una Venezia e un Oriente leggendari. È questo il centro di gravità dell’ultimo libro di Enrico Palandri, L’inventore di se stesso, dove la vicenda familiare assurge a metafora complessiva, sfaccettata e proteiforme dell’esistenza.
«Mia madre aveva sempre odiato le famiglie: le adunate per i matrimoni, i battesimi e i funerali dove dalla passività della reciproca mal sopportazione spuntavano improvvise e farsesche esibizioni di sentimenti» (p. 5). Così l’avvio del romanzo presenta il tema portante della famiglia e introduce una figura materna che si dilegua quasi subito, schiacciata dalla potenza scenica di Gregorio Licudis, il padre del protagonista-narratore che raggiunge in ospedale il figlio e la nuora che hanno appena avuto un bambino, per chiedere che venga chiamato con il suo nome. Un nome che costituirebbe un tributo necessario a un illustre antenato, appartenente a un casato scomparso che va perdendosi nei secoli addietro e conta una lunga serie di principi, ministri, ammiragli della Serenissima.
«L’indole, il carattere di Gregorio Licudis, la difficile scelta di lasciare la corte di Pietro il Grande e il ruolo in cui serviva nell’aristocrazia pietroburghese per restare a Venezia hanno avuto conseguenze enormi per la Russia, per l’Italia e tutti noi» (p. 17), spiega per la prima volta il padre al protagonista, che rimane interdetto, disorientato. Come del resto reagire a queste parole, pronunciate dal proprio padre, uomo carismatico e intellettuale di professione, dotato di una cultura enorme? Il nome scelto sarà poi un altro (anche per volontà della moglie): ma per il protagonista si apre una vera e propria faglia nella concezione di se stesso, penultimo anello di una catena generazionale che decide di indagare e studiare con acrimonia e passione, lasciandosi accompagnare proprio dalla leggenda degli antenati illustri. Sceglierà la carriera di imprenditore, in contrapposizione a quella intellettuale di Gregorio Licudis, ma la sua vita sarà influenzata da questo basso continuo, che costituirà il tessuto del suo rapporto con il padre: perché il senso di un “noi” andrà a colmare le lacune di una relazione complessa, a tratti spigolosa e progressivamente sempre più ambigua. E non solo: costituirà un continuo riferimento con cui illuminare un presente difficile, segnato anche dalla diffidenza nei confronti di se stesso: verso la fine della narrazione, basta che la domestica del padre lo interpelli con il “tu” al posto del “lei” per scatenare un rovello identitario che mette in scacco le concezioni con cui è solito tracciare la raffigurazione della propria biografia (e di quella della famiglia all’insegna di una «identità imperfetta», p. 107).
«Davvero vivevo di relazioni parentali così funzionali, marito, padre, figlio, fratello, che sarebbe stato possibile dire a qualcun altro di vivere al posto mio e non notare la differenza? Dov’ero? Chi ero? Ero semplicemente il marito di Laura o l’amministratore delegato della ditta della sua famiglia?» (p. 110)
Curiosamente, nel libro di Enrico Palandri il rapporto padre-figlio si legge in modo principale sull’asse tracciato retrospettivamente dal protagonista fino a Gregorio Licudis e non in proiezione futura sui propri figli (e si è vista tuttavia, nelle prime pagine dell’opera, l’importanza della nascita di Pietro ai fini del meccanismo narrativo).
Il romanzo alterna di continuo i piani temporali: il presente del protagonista e il passato di Gregorio Licudis, alla corte di Pietro il Grande e poi “esule” a Venezia. Il gioco prospettico serve a costruire lo sforzo del narratore per definire la proprio identità e a introdurre segmenti meditativi su diversi temi, a partire da quello dell'”esule” all’interno di una geografia larga, che trova il suo perno nella Venezia “storica”, luogo per eccellenza del contatto tra Europa occidentale e orientale. Il motivo storico permette di introdurre nel testo un ventaglio larghissimo di argomenti di tipo sociale e filosofico, indagando per esempio i concetti di libertà, potere e pensiero. Ma proprio qui sta a nostro parere un limite del libro: la tensione centrifuga è molto potente e la sensazione è che si faccia fatica a trattenerla. Ciò si traduce in passaggi che possono apparire sbrigativi tra una sequenza e un’altra, come se l’autore sentisse l’esigenza di sciogliere un concetto ma al tempo stesso non volesse perdere troppo tempo, già incalzato dall’esigenza della successiva rappresentazione.
Questa “fretta” si traduce talvolta anche sul piano stilistico, dove si incontrano passi fin troppo lenti, segnati dall’ostinazione per certe metafore (come il padre/astronauta e la moglie/vino d’annata) e accelerazioni improvvise, che sembrano “tagliare” velocemente un discorso. Ma forse è proprio così che il romanzo di Enrico Palandri si rivela: ansioso di raccontare e impaziente di spiegare, non riesce sempre nell’intento di “mostrare”.
Enrico Palandri, L’inventore di se stesso, Bompiani 2017, pp. 224, €15,00.