Domani, alle 19.30, Edgardo Franzosini sarà a Belleville. La Scuola (Milano) per dialogare con Giacomo Raccis e Davide Valtolina a proposito di Vite vere immaginate.
Edgardo Franzosini ci ha abituati alle storie di personaggi ossessionati. Maniaci ed eccentrici sono stati il suo pane, in più di venti anni in cui ha praticato in maniera sublime l’arte del racconto biografico. Ossessionato lo era Johann Ernst Biren, Il mangiatore di carta, segretario di un ministro di Carlo XII di Svezia, a metà Settecento, che più di una volta rischiò la morte a causa dei danni prodotti dal suo inspiegabile vizio: a lui Franzosini dedicò il suo primo romanzo (SugarCo 1989), ripubblicato quest’anno da Sellerio. Era ossessionato dalle forme degli animali, dalle loro linee, ma anche dalla loro ignorata “umanità”, Rembrandt Bugatti, rampollo di una famiglia che, grazie al fratello Ettore, avrebbe legato il suo nome alle macchine sportive. Rembrandt, influenzato forse dall’insolito nome, dedicò tutta la sua vita a memorizzare e poi riprodurre in studio le agili e perfette pieghe che segnano i corpi delle bestie osservate per intere giornate negli zoo di Parigi e Anversa: sulla sua enigmatica mania si regge il racconto breve, ma splendido di Questa vita tuttavia mi pesa molto (Adelphi 2015). Appaiono come fanatici utopisti i tanti personaggi che si affollano intorno a quel centro cavo del Novecento che fu il Monte Verità, in Svizzera, a cui Franzosini ha dedicato il suo romanzo più lungo: Sul Monte Verità (Il Saggiatore 2014). Ma si potrebbero citare ancora il Bela Lugosi che diventa vampiro in Bela Lugosi: biografia di una metamorfosi (Tancredi 1984, poi Adelphi 1998), oppure quel Bartleby secentesco che fu Giuseppe Ripamonti, il «ghost writer del Cardinal Federico Borromeo», al centro di Sotto il nome del cardinale (Adelphi 2013).
Franzosini ha ricostruito le vite di questi personaggi in maniera minuziosa, affidandosi alle tracce che di volta in volta la burocrazia, le scritture private e la letteratura – quella scientifica come quella creativa – lasciavano a disposizione. Romanzi, racconti, lettere, documenti, atti notarili, cronache giornalistiche, biglietti di viaggio e testimonianze dirette: sono questi i materiali attraverso i quali ha provato a ricomporre, per intero o di scorcio, le vite di personaggi che, per la loro monomaniacalità, compongono un esercito di eccentrici e disagiati, rappresentanti di un’umanità sui generis, cresciuta misteriosamente schivando alcune delle convenzioni su cui siamo soliti fondare il nostro concetto di “umano”.
Una mania che in molti casi mostra anche il suo lato geniale, se ha permesso a un personaggio come Rembrandt Bugatti di diventare uno degli scultori più interessanti della sua epoca. Ma a quale costo?
A volte il suo viso è come deformato da una smorfia tanta è l’intensità che richiede quel suo sforzo di concentrazione. Se ne sta immobile a decifrare il corpo degli animali con gli occhi di un sonnambulo e la faccia madida di sudore, come se stesse per attraversare un invisibile confine.
È il confine che separa l’uomo da qualcos’altro; qualcosa di indefinito che affiora in queste incredibili ossessioni sulle quali Franzosini sembra riflettere la sua, quella bibliofilia che lo ha portato a leggere «tutto ciò che era umanamente possibile leggere riguardo a Johann Ernst Biren (libri, atti, documenti, memorie, epistolari)» – e infine a dedicargli un libro –, per la sola curiosità suscitata dalla sua apparizione in una digressione di due paginette della Comédie humaine di Balzac. Un’ossessione che naturalmente l’ha portato presto a confrontarsi con i limiti del proprio lavoro di calligrafico architetto, chiamato a costruire dove la storia ha lasciato macerie.
Un tale brusco rientro entro i confini della vicenda del poeta di Angoulême ci lascia, inutile nasconderlo, delusi e insoddisfatti. Non ci consente infatti di sapere cosa ne sia stato di Biren. O, per meglio dire, cosa ne sia stato del suo eccentrico vizio. […] Nemmeno tutti i restanti libri, testi, documenti – rari a dire il vero e non facili da scovare – che si sono occupati di Johann Ernst Biren, e ai quali debbo molte, preziose notizie riguardo alla sua vita, mi hanno permesso di sapere qualcosa di più su questa particolarissima questione.
Si sa pochissimo di questo mese – forse furono tre settimane – che Rimbaud trascorse a Milano, ospite di una «vedova molto civile», come la definì Paul Verlaine tracciando una breve biografia dell’amico-amato nel 1888. La «caritatevole signora milanese» – queste sono invece parole di Ernest Delahaye, a lungo corrispondente di Rimbaud – dovette ospitarlo nella sua casa come faceva con tanti altri viaggiatori di passaggio a Milano. Rimbaud vi era arrivato dalla Svizzera a piedi – come sempre nei suoi lunghi spostamenti per la Francia e l’Europa – e da lì sarebbe ripartito per andare in Liguria e poi rientrare a casa. Vi era arrivato con pochi soldi, ma con i propri biglietti da visita su cui, di volta in volta, segnava il recapito d’occasione: ne resta uno con l’indicazione «39. Piazza del Duomo / terzo piano. Milano». Questo è tutto quel che si sa di quel breve soggiorno nell’avventurosa vita di Arthur Rimbaud; impossibile sapere perché si fermò a Milano e non altrove, come si trovò, cosa fece e chi frequentò.
Tutto è circondato dal dubbio e dall’incertezza, e bisogna seriamente riconoscere che, per chi vuole affrontare l’argomento, sono ammesse solo illazioni, congetture ipotesi.
Franzosini non sceglie a caso il proprio soggetto: Rimbaud è il poeta per eccellenza, colui che dall’adolescenza ha fatto voto per una vita poetica, per provare a essere ciò che le sue parole dicevano, e vicecersa. Ma è anche colui che, da un giorno all’altro, esaurite quelle che credeva essere le possibilità della poesia, ha deciso di abbandonare definitivamente la letteratura, di allontanarsene, geograficamente e spiritualmente. Rimbaud ha dimostrato così che uscire dal letterario significa entrare in un campo che le parole faticano a mappare, quello di un’esistenza raminga, che lo ha portato nei più impensabili posti dell’Asia e dell’Africa; un’esistenza guidata da pulsioni e desideri volubili e non più affidati alle parole scritte – se non a quelle delle scarne lettere ai famigliari, in cui poco o nulla veniva rivelato della vita concreta.
In questo campo si muovono allora altre parole, le parole di Edgardo Franzosini, parole che non possono ambire a un’adesione piena alla realtà, e che quindi provano ad aggirarla; continuamente. Rimbaud e la vedova si definisce come un esemplare trattato sull’elusione. Corre sottile, lungo tutti gli undici capitoli che compongono il libro – romanzo in forma di saggio? saggio narrativo? ricostruzione documentaria, con tanto di note? – una linea narrativa, che si articola attraverso quattro-cinque snodi che potrebbero permettere all’autore di far luce su quel frammento della vita di Rimbaud. Ma ogni volta che il tema viene posto sul campo, subito l’attenzione viene spostata altrove, dando seguito a una spontanea tendenza di chi scrive alla digressione. Ne deriva un andamento divagante, che procede sospinto dai tanti rimandi che la ricerca offre allo scrittore, capace così di collegare il soggiorno milanese di Rimbaud, con le sue potenziali esperienze, alle tante avventure della sua vita. Accade con le poche donne che, insieme alla vedova milanese, entrano nel pantheon femminile del poeta e che consentono quindi di spaziare tra la sua adolescenza e l’età adulta, quando Rimbaud sarà ormai in Africa; accade con le frequentazioni mondane che avrebbe potuto avere a Milano, ipotizzabili sulla scorta di quelle cercate nella altre città abitate dal poeta, a Londra come a Parigi.
E per quei minimi dettagli che affiorano dalla ricerca e che non è possibile mettere “in serie” – per così spiegarli – non resta altro che affidarli all’immaginazione. Un’immaginazione che proietta il senso della consuetudine in ogni singola emergenza: così, un particolare diventa il segno di una costante, di un’abitudine della vita del poeta, tale da caratterizzare presumibilmente anche quella speciale esperienza milanese. Per questa strada, però, ogni particolare diventa la proiezione di una potenziale passione del poeta, o meglio – come si dice a un certo punto a proposito del gusto che Rimbaud provava per il calore del sole sulla pelle – «una forma di ossessione», che consente così di ricongiungere il poeta di Charleville alla schiera dei personaggi che affollano la camera segreta dello scrittore.
Edgardo Franzosini è un abile illusionista. Riesce a farci intravedere qualcosa anche dove non c’è nulla, e al tempo stesso ci dà l’impressione che rimanga sempre un margine irriducibile di mistero tra quello che è stato e quanto la parola letteraria è riuscita a testimoniare. Utilizzando un banale brandello della vita di Rimbaud e praticando una chirurgica ironia sul corpo debole delle nostre consuetudini percettive, Franzosini ci svela il potere dell’interpretazione letteraria dandoci l’impressione di lavorare solamente con quanto la realtà testimonia direttamente. Mentre tenta di ricomporre quello scarto che resta tra la vita e la sua narrazione – lo scandalo del tempo che scorre e non lascia tracce dietro di sé –, Franzosini celebra il trionfo della letteratura, disciplina imperfetta, che grazie agli interrogativi e ai dubbi che solleva confrontandosi con la materialità della vita, impedisce alle parole di catturare definitivamente un’immagine e di trasformarla in una finta verità.