Ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij[1] Dmitrj, uno dei fratelli, si reca a trovare Grotskin, un contadino con cui deve concludere in fretta un affare. Solo che al suo arrivo lo trova ubriaco fradicio. Prova allora ad aspettare che gli passi la sbornia, ma dopo molte ore di attesa si addormenta, commettendo un grave errore: al suo risveglio, infatti, il contadino ha consumato un’altra bottiglia di vodka ed è di nuovo fuori di sé. Dmitrji allora decide di lasciar perdere: «Insomma, quest’uomo è ubriaco, ubriaco fradicio e continuerà a bere per un’altra settimana, che resto a fare qui?».
Questo passo mi è tornato in mente mentre leggevo L’alcol e la nostalgia di Mathias énard (E/O 2017, trad. di Yasmina Melaouah). Ma cosa c’entrano i Karamazov con questo romanzo? C’entrano, perché questo tragicomico episodio poteva benissimo esserne in esergo, ma, di certo anche per ragioni di brevità, l’autore gli ha preferito la seguente citazione, da Cechov:
Esagerate, caro signore. O meglio, vi sbagliate. Per quanto possiate cercare, non troverete niente. La famosa anima russa non esiste. Le uniche cose tangibili sono l’alcool, la nostalgia e la passione per le corse dei cavalli. Nient’altro, ve lo assicuro[2].
Di cavalli nel libro si trova scarsa o nessuna traccia, mentre alcool e nostalgia sono elementi costituenti di questo romanzo, che è la storia di un viaggio nella Russia e nella sua cultura. Un viaggio fittizio, ispirato però da uno reale che, ci viene detto in un’altra pagina di premesse, «è stato reso possibile da Cultures France, nel quadro dell’anno Francia-Russia». Nella stessa pagina si precisa anche che ciò che teniamo tra le mani è «l’adattamento più o meno fedele di una fiction radiofonica di 100 minuti scritta sulla Transiberiana fra Mosca e Novosirbirsk».
Da radiodramma a romanzo quindi, il risultato mantiene una certa ritmicità del periodare ed è costituito per la maggior parte da un immenso, delirante, febbrile monologo del protagonista Mathias, rivolto al suo compagno e amico Vladimir. Monologo, perché Vladimir non è proprio quel che si dice un ottimo conversatore: epiteto che non si addice ad un mucchio di ceneri dentro un’urna, che Mathias sta riportando da Mosca al villaggio natale di Vladimir in Siberia. Questo strano viaggio rituale diventa l’occasione per rievocare, tra memorie e allucinazioni, il triangolo amoroso tra i due amici e Jeanne, prima fidanzata di Mathias a Parigi, poi innamorata di Vladimir a Mosca, ago della bilancia tra due maschi che se la contendevano.
A Mosca infatti Jeanne e Vladimir, entrambi dottorandi, avevano iniziato una relazione coinvolgendo anche Mathias, giovane scrittore affamato di vita e di esperienze forti, ricercate nel consumo di droghe. Ora che Vladimir è morto, però, il meccanismo si è bloccato: il trio di amici/amanti si è disperso (Mathias è tornato a Parigi, Jeanne è rimasta a Mosca) e la forza che desideravano tanto sentire non la cercano più nella droga, ma nell’alcol e soprattutto nella nostalgia:
“Questo caffè fa veramente schifo ma è caldo, forte, e non ho nient’altro da fare, nient’altro da fare, un bicchiere di plastica in mano e tutta la Russia sotto gli occhi, nel bozzolo traballante del Bajkal Express che mi porta verso Novosirbirsk. Con il caffè mi torna nelle narici l’odore dell’oppio, ho una mezza compressa di Rohypnol in valigia, ma me la tengo in caso girasse proprio male, adesso preferisco abbandonarmi alla droga leggera del ricordo, cullato dal viaggio di questo treno che danza come un orso sulle rotaie […]”
Ma in cosa consiste la nostalgia per Mathias? Il suo viaggio fino all’estremo della nazione è del tutto simbolico, non viaggia per riportare Vladimir a casa, ma per aiutare se stesso a realizzare la mancanza dell’amico e di tutto ciò che rappresentava. Vladimir e Mathias erano amici, avevano vissuto un intenso momento insieme e adesso tutto questo non c’è più, non (solo) per la morte del primo, ma perché quello che manca è la situazione caratterizzata dall’irruenza della giovinezza, dall’abuso di stupefacenti e dal ménage à trois. Alla fine del viaggio però scopriremo che quella raccontata dal protagonista è solo una possibile versione dei fatti e un colpo di scena permetterà di rileggere la storia dei tre amanti da un altro punto di vista.
Il triangolo amoroso non è l’unico macro-tema del testo. Troviamo raccontato anche un altro incontro-scontro, che non riguarda le singole persone, la dimensione intima e sentimentale dei rapporti, ma quella pubblica, quella delle tradizioni culturali: l’alcol e la nostalgia diventano ingredienti della cultura russa stessa. Mathias attraversa la nazione non solo nello spazio, ma anche nel tempo e ad ogni fermata dedica un ricordo, che può essere personale, ma anche riferito alla letteratura o alla storia russa:
Lungo la strada incontravamo sempre degli scrittori, l’ultimo appartamento di Dostoevskij, quello di Anna Achmatova, la casa di Nabokov vicino a Sant’Isacco o l’Hotel Angleterre dove era morto Esenin, e le tracce di questi geni mi immalinconivano un po’, tutto era bianco, sommerso dalla neve, difficile credere che in primavera ci fossero insetti e vita nei parchi, farfalle per Nabokov l’amante dei coleotteri e barche sulla Neva e innamorati sul ponte di legno.
In questa maniera Mathias riesce a raccontare uno spaccato di questo paese, che, come tutte le nazioni che hanno fatto la Storia, si estende più nelle sue rappresentazioni che nella reale porzione di territorio occupato.
Racconti della rivoluzione si mescolano quindi a rievocazioni delle scorribande del trio alla ricerca di stupefacenti, ricordi autobiografici e memoria collettiva della nazione si intrecciano, mostrandoci i deliri di un uomo perso nel suo immaginario, che mescola passato e presente, pubblico e privato:
Trovavo straordinario che tu potessi conoscere i Beatles, e mi hai risposto semplicemente: guarda che noi non eravamo neanche nati quando i Beatles si sono sciolti. E Jeanne a momenti non era neanche nata prima che ammazzassero Lennon, ho aggiunto ridendo. A Jeanne non piaceva sentirsi ricordare che era la più giovane, mi ha guardato malissimo e tu ti sei messo a ridere. C’era una brutalità famelica a Mosca, eppure il sistema sovietico era già morto da un pezzo, la Federazione Russa entrava nell’adolescenza, oggi è una donna fatta, che ha visto di tutto, guerra compresa.
Non si può negare che questo modo di raccontare sia esaltante, ma allo stesso tempo può suscitare alcune perplessità.
Si potrebbe obiettare infatti per questo libro, come già era stato fatto per altri dello stesso autore, che a voler comprimere in un volumetto un’intera tradizione e secoli di storia, si rischia di cadere in stereotipi o clichè, ma il punto che a mio parere indebolisce questo romanzo è invece la rappresentazione fumosa e indistinta della relazione tra Jeanne, Mathias, Vladimir. Si capisce che questi tre personaggi rappresentano altrettante visioni del mondo, ma l’ampiezza del libro non è tale da permettere di dispiegare allo stesso tempo l’intreccio sentimentale e quello culturale. L’autore sembra esserne consapevole e mostra fin dall’inizio i vizi che i personaggi hanno nella percezione l’uno dell’altro: «Ti ricordi Vlado quando Jeanne ci ha presentati ti chiamavo principe Andrej perché mi ricordavi Bolkonskij con quella tua aria insieme nobile e fragile […]». Ciononostante, il tentativo di tenere insieme entrambi i filoni non conduce ad un ottimo risultato, lasciando spesso prevalere l’aneddotica storica a discapito della relazione sentimentale.
Gli stessi episodi amorosi tra i personaggi sono davvero intensi, con momenti di vero pathos e commozione, ma mai ben definiti, e questo alla lunga può stancare il lettore, già sballottato tra passato e presente, fra realtà esperita e realtà ricostruita.
La prosa di Énard caratterizza fortemente l’atmosfera, come già si è notato per i precedenti Zona e Bussola, con una punteggiatura dall’arsenale limitato, ma usata frequentemente, creando frasi lunghissime che possono contenere al loro interno attimi di esistenza e decenni di Storia allo stesso tempo. Lo stile si mette quindi al servizio della narrazione, ne diventa parte integrante, perché una vicenda così non poteva essere raccontata altrimenti. I passaggi del pensiero del protagonista sono infatti logici, in quanto dipendono da collegamenti evidenti, e allo stesso tempo divergenti, perché quasi mai riesce a portare a termine un ragionamento senza fare qualche divagazione. Per questo lo stile è di certo un punto di forza, perché riproduce ostinatamente e fedelmente lo stato di perpetua malinconia del protagonista (che ricorda la pratica della sbornia prolungata, zapoj, in russo). Il libro punta tutto su questo stato e non offre, una volta terminata la lettura, molto altro da custodire. Della girandola di immagini evocate resta poco più di un’impressione generale, non una risultante precisa. Lo stesso tipo di impressione generale che può derivare dal tentativo di riassumere in un testo il carattere di una nazione, tendente allo stereotipo ma affascinante; lo stesso risultato di un lungo discorso tenuto da un ubriaco, molto trasporto e poca logica; lo stesso equivalente in definitiva della nostalgia, attraente proprio perché non realistica.
Il modo migliore per definire in poche parole questo effetto, una maestria sintattica che poggia del tutto sull’emotività, potrebbe essere quello contenuto nella frase che lo stesso autore scrive parlando della Russia. Perché questa è una scrittura forte e sicura di sé, pronta anche a non compiacere il lettore, ma che di certo non lascia indifferenti:
Ho detto a Jeanne vieni partiamo, andiamo in vacanza tu e io, per passare un po’ di tempo insieme prima che tu te ne vada. Non ne aveva molta voglia, Lisbona non l’attraeva in modo particolare, diceva «faresti meglio a tenerti i soldi per venirmi a trovare in Russia». Io non sapevo se avevo molta voglia di andare in Russia. Vedrai che ti piacerà, diceva, non so se mi è piaciuta. Di certo mi ha scombussolato, questo sì, tanto che mi ritrovo su un treno che fila con calma verso il nulla.
[1] Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Libro VIII, cap II Ljagàvyj.
[2] Anton Cechov, La posta di Tver’.