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La resa per Francesco Filia è prossima all’abbandono, al lasciarsi andare e di conseguenza – per contrasto – è vicinissima alla comprensione; ragione e distacco non possono far altro che tenersi per mano. Ci si può meravigliare davanti a un incontro, a un amore, a un paio d’occhi, ma il sorprendersi è sempre condizionato dal contesto che ci circonda. La resa sta in una linea visionaria disegnata, con il gesso con cui si giocava a campana, a mezz’aria. In quella sospensione si siede Francesco Filia e da quel tavolo vista tufo e vista mare racconta con la semplicità del letale quasi ogni cosa. Da lettori abbiamo imparato che ci si innamora anche vivendo sotto il regime spietato di un qualunque dittatore, e che anche durante le più aspre battaglie si scrivono poesie appassionate. Ma il racconto non sarà mai staccato dal tempo in cui accade, le parabole d’amore e perdita nasceranno e si consumeranno in maniera diversa rispetto a un periodo quieto e di pace.
Francesco Filia ci ha abituati, nel tempo, di libro in libro, al fatto che tutto si veda meglio quando si cambia la prospettiva, se ci si assume il rischio di osservare da lontano, di guardare l’opposto delle cose, e poi di mettersi dentro lo svolgimento della battaglia. Il poeta scrive ma lo fa per strada e lo fa in camera da letto, lo sfondo è la forza del pensiero, non potrebbero esserlo l’asfalto, una parete, una manganellata, una goccia di sangue, un soffitto crepato, un corrimano arrugginito. Una donna, una vita, un amore. Se c’è un orizzonte non ci può essere imposto. Se c’è un confine sta lì solo per essere attraversato. Le parole di Filia, di resa e d’attacco, sono un’eccezionale “variante di valico” in metrica, realizzata meglio e in meno tempo.
Dobbiamo consegnare le parole della resa.
È l’ultimo compito rimastoci, nessun
testamento, ma un relitto di carta
lasciato marcire nell’acqua buia
di queste ore. Vederlo sprofondar
l’inchiostro diluirsi, slabbrarsi le parole
macchia informe sul bianco del tempo.
Il libro, uscito per CartaCanta edizioni a ottobre 2017 è diviso in cinque parti: “Parole per la resa”; “Diario di una vacanza”; “L’ordine”; “Memorie del vuoto”; “L’inizio rimasto”. Ebbene se leggessimo solo i titoli in sequenza come se fossero le tracce di un album fatto di sole parole potremmo già intravedere il flusso portante della storia. Le parole per la resa che aprono, e annunciano tutto ciò che deve predisporre all’abbandono e alla presa/perdita totale di coscienza: «l’ultimo compito rimastoci». Diario di una vacanza – fatto di testi che si parlano come davanti allo specchio, una serie dal titolo L’azzurro cupo di questa stanza e un’altra che si chiama L’immenso che ci travolge – è una lunga parte del libro, il luogo in cui tutto nasce e si consuma, dove l’immenso entra tra le lenzuola e le paure, tra il riconoscersi e perdersi; qui Filia è bravissimo a trovare la misura per dire l’indicibile, l’attimo in cui tutto si consuma, l’attimo che tutti abbiamo desiderato, con versi come questi: «L’ultima estiva gioia, agosto accampato negli sguardi | è già capo di quest’inverno, dove il terrore | si fa cristallo, gelo di una forma. Riappari | nei miei giorni vuoti, in un vuoto di memoria | nella mancanza di un inizio […]».
Oppure nello specchio precedente: «È qui che ogni cosa è stata viva, vera»; qui sta la bravura, qui sta il controllo, qui sta l’orizzonte che nessuno può imporre, ma che si ricompone come un giorno di Fata Morgana. L’ordine è un momento di passaggio prima che tutto si faccia ricordo o che ritorni, l’ordine serve a far sì che le cose rimangano, è uno scaffale dell’anima, dove si ritrovano anche i padri e i figli, la ricerca non è mai fine a se stessa, e l’amore non è mai un amore soltanto. Le memorie del vuoto sono forse la resa definitiva, è nel ricordo che si consuma l’abbandono totale e si costruisce la geografia della commozione, di cui ognuno conserva da qualche parte una mappa.
Ricominciamo da questa sottrazione
di gesti, da una carezza accennata,
dall’odore di resina, dalla lontananza
di due visi che si sfiorano. L’ombra
che ci separa è la giustizia richiesta
la sentenza che ci rende veri, finiti
fissati in una goccia d’ambra.
L’inizio rimasto è molto più di un indizio, è una prova dell’accaduto, è un’indagine su quel che accadrà. La poesia è evocazione ed è testimonianza ma poi è bellezza, senza avere paura di scriverlo: «Ora non abbandonare questa mano | che è terrestre».
Francesco Filia, che ha fatto della pietra la sua filosofia quando ha raccontato Napoli, come in La neve (Fara, 2012) o in La zona rossa (Il Laboratorio, 2015), e la città era il modo di mostrare il mondo in ogni suo limite o possibilità, in questo libro restringe il campo, che significa alzare il livello di difficoltà, e osare entrando in un registro intimo, un terreno più minato di una manifestazione in Piazza del Plebiscito contro il G8, gli occhi di una donna o il rapporto padre e figlio sono più difficili da dire del fumo di un lacrimogeno.
Immagine: Willem de Kooning, Excavation, 1950.