Pubblichiamo oggi la terza di cinque interviste ai finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2018, che verrà assegnato nell’Auditorium di Piazza Libertà, a Bergamo, sabato 28 aprile 2018. Gianni Biondillo è stato il terzo finalista che ha presentato il suo libro, Come sugli alberi le foglie, al pubblico del Premio. L’abbiamo incontrato nella hall dell’Hotel dei Mille di Bergamo e gli abbiamo rivolto qualche domanda per entrare nel cuore della sua scrittura e delle scelte che l’hanno portato a questo libro.
Gianni Biondillo, Come sugli alberi le foglie è uscito nell’Ottobre del 2016, data che segna il centenario dall’anno in cui si chiude questo romanzo, che è un testo sulla Grande Guerra, ma soprattutto sui primi quindici anni della storia italiana nel Novecento, raccontato attraverso gli occhi di molti personaggi illustri. La scelta dell’argomento – la guerra e gli avvenimenti contestuali – è stata una scelta dettata dalla ricorrenza o da altro?
Il protagonista di questo romanzo è Antonio Sant’Elia, grande genio dell’architettura del Novecento, che muore sul campo il 10 Ottobre 1916 senza aver sostanzialmente costruito niente, eppure, in ogni storia dell’architettura che si rispetti i suoi disegni campeggiano, perché hanno in qualche modo influenzato l’immaginario collettivo, anche di chi non sa dell’esistenza di Antonio Sant’Elia. Eppure tutte le idee di queste città del futuro – da Ridley Scott fino ad Hunger Games – passano per i suoi disegni. Per me, architetto di formazione, dagli anni del Politecnico, Sant’Elia era una sorta di personaggio mitologico. Poi certo, nella ricorrenza del centenario ho sentito l’esigenza di raccontarne la storia. Pensavo sostanzialmente di scrivere una biografia di un personaggio ritenuto minore e invece mi sono ritrovato tra le mani la storia di una generazione.
Questo è per l’appunto un romanzo a tante voci. Le trincee della prima guerra mondiale diventano una sorta di cronotopo dove s’intrecciano e si fondono i percorsi di personaggi noti e arcinoti della nostra letteratura. Assieme a Sant’Elia, come dicevi, vengono citate le vicende dei futuristi, Gadda, Lussu e altri. Cosa ha significato confrontarsi con un tema – quello della Grande Guerra – che in Italia sembra mancare di una sorta di riferimento letterario? Se sulla seconda guerra abbiamo un repertorio di livello e sterminato, per quel che riguarda la prima, i nomi e gli autori si contano sulla dita di una mano.
C’è stato un momento in cui si è scritto della prima guerra mondiale, ma grava sull’argomento una sorta di cappa ideologica che blocca il nostro sguardo, perché quei morti sono stati strumentalizzati dal fascismo, che li ha fatti diventare i loro morti, i loro eroi. E così, ogni volta che si affronta l’argomento, esce fuori uno spirito patriottardo che fa un po’ saltare in nervi. Eppure c’è moltissimo dentro a quell’evento. Noi giriamo per le strade delle città e c’è tutta una toponomastica inerente: Podgora, Montenero e altri nomi che oramai non hanno più significato. Eppure sono luoghi in cui sono morte migliaia di persone, ragazzi da tutta Italia e non solo. Questa guerra che sembra lontanissima da noi è in realtà molto più vicina di quanto immaginiamo. Tutto il peggio che vi è accaduto si è poi ripetuto; la Grande Guerra è stato un po’ il laboratorio delle nefandezze del Novecento. E pensa alle implicazioni contemporanee: persino i profughi che scappano oggi dalla Siria sono figli di quei confini nazionali disegnati in quell’epoca. Rileggere oggi quella guerra, anche cercando una giusta distanza, togliendosi gli occhiali ideologici che in qualche modo ne hanno bloccato l’osservazione, credo sia doveroso per poter capire chi siamo noi oggi, perché comunque, nel bene o nel male, quei morti hanno creato questa Italia e dobbiamo loro profondo rispetto.
Una domanda sullo stile. Ti diverti a creare voci diverse e stili diversi in questo libro, a seconda delle vicende che vengono tratteggiate. C’è un capitolo dedicato a Cesare Battisti costruito per brevi frammenti, un passaggio su Gadda, ha un tentativo di riprodurne lo stile e così via. Da dove è nata questa idea?
Tutto quello che uno scrittore ha a disposizione è la scrittura. Oltre la ricerca storica c’è infatti il tentativo di cogliere un proprio punto di vista sulla vicenda per poterla raccontare da scrittore, con la sola arma della scrittura. Ho lavorato su molti materiali dell’epoca, diari, lettere oltre che sui testi prettamente letterari o storici. In questa consultazione sono arrivato a un punto tale di fanatismo che ho fatto molto spesso parlare i personaggi tra loro estrapolando vere e proprie frasi dalle corrispondenze e incrociandole come in un collage, nel tentativo di riproporre quei nomi fuori dalle immagini da antologia scolastica. Ho voluto provare a renderne un’immagine reale e pulsante, anche attraverso episodi minimi o bizzarri. Il fatto è che questi si incontravano davvero, Stravinskij a casa di Marinetti c’è stato sul serio, insomma, c’è stato un momento in cui, come una sorta di calamita, Milano ha attratto tutte le migliori menti della sua generazione, che è andata spavalda e illusa in bicicletta verso la morte.
Un’ultima domanda. Quale caratteristica di questo romanzo potrebbe convincere i lettori a farti vincere il Premio Bergamo?
Sono in una bellissima cinquina con bravi scrittori, tre dei quali amici carissimi e altri che rispetto profondamente. Chiunque vinca – e non è piaggeria. Se dovessi individuare però una peculiarità, direi che ho fatto scendere dal piedistallo tutti questi nomi, ho restituito una storia di ragazzi. Questa è una storia di ventenni, giovanissimi, e ho cercato di contestualizzare questi nomi fuori dai pregiudizi letterari.