Il Bardo tödöl, libro tibetano dei morti, è un testo appartenente alla tradizione buddhista rivolto ai morituri o ai morti; in esso sono contenute le istruzioni escatologiche con cui l’estinto sarebbe in grado di controllare i fenomeni, del tutto soggettivi, che si verificherebbero al momento della morte e nei successivi stadi ultraterreni.
Per avvicinarsi al testo occorre partire da alcuni presupposti fondamentali inerenti la visione della realtà secondo il buddhismo, primo fra tutti il karma, la legge di causa ed effetto per cui ogni atto (fisico e mentale) produce una conseguenza che fruttificherà inesorabilmente, in questa o nelle prossime esistenze, all’interno di quella che è la ruota del saṃsāra, l’ininterrotto ciclo delle rinascite e delle rimorti. Si badi bene, per i buddhisti tutto ciò avviene senza la necessità di postulare l’esistenza dell’anima: non vi è un’entità metafisica trascendente; tutta la realtà, essere umano incluso, è impermanente, in continua mutazione, un perenne susseguirsi di punti-istante reciprocamente condizionati, che creano l’illusione della continuità. Dunque, come ogni istante della vita è stato condizionato dal precedente ed è condizionante nei confronti del successivo, così anche l’istante della morte “trasferirà” la sua carica karmica determinando una nuova aggregazione psico-fisica, una nuova nascita.
Naturalmente, alla luce del riconoscimento dell’universalità del dolore, il più alto scopo umano è proprio quello di porre fine al perpetuarsi di questo ciclo, con la definitiva uscita dal saṃsāra e l’attingimento dell’ineffabile incondizionato.
Il bardo è esattamente il temporaneo stato di esistenza intermedia in cui, alla morte, viene a essere proiettato, con il suo “cumulo” karmico, il principio cosciente dell’individuo, nel caso non sia stata attinta l’immediata liberazione.
Se non ce l’ha fatta, ecco che comincia ad assumere un nuovo corpo, il corpo sottile, il quale è come una proiezione imponderabile del corpo che il defunto prima di morire rivestiva o un’anticipazione di quello che stava per avere. Esso contiene le propensioni karmiche accumulate […]. Ogni richiamo della vita, ogni senso di ostilità verso i sopravvissuti, il desiderio per i beni lasciati, il rimpianto per la vita debbono vanire in una contemplante serenità. In questa consapevole pace è la difesa dalle lusinghe del karma.
(G. Tucci, Il libro tibetano dei morti)
Per parecchio tempo ho avuto in mente di scrivere una storia ambientata nel bardo. O meglio, solo al termine del racconto si sarebbe inteso che di bardo si trattava. Il mio personaggio avrebbe vissuto delle esperienze, ciascuna caratterizzata da una singola luce colorata (i fenomeni fotici che il Bardo tödöl ben descrive); esperienze apparentemente solide, autentiche, salvo poi mostrarsi, alla fine, nella loro reale natura di proiezioni karmiche. Gli avrei accordato la liberazione? Probabilmente sì, con l’aiuto del coprotagonista che, al suo capezzale di morente inconsapevole, gli avrebbe recitato all’orecchio, per svariati giorni, le istruzioni necessarie a condurlo al vuoto della luce incolore.
Poi, nel 2017 ci ha pensato George Saunders, dando forma al “suo” bardo, con Lincoln nel Bardo.
E chiaramente io ho rinunciato al “mio”.
Nel suo romanzo, ambientato durante la Guerra Civile americana, Saunders ci racconta la storia privata di Abraham Lincoln, il Presidente, colpito dalla tragedia della morte dell’amatissimo figlioletto Willie, e di quelle anime in stallo che, dimoranti all’interno del perimetro cimiteriale e “intrappolate” nel bardo, sono incapaci di procedere oltre a causa dell’obnubilamento e dell’attaccamento alla vita terrena.
Ma partiamo dalle voci narranti di Saunders: quelle testimoniali, da fonti (vere e false) che vengono debitamente citate (le voci di un ormai remoto mondo di qua, che parlarono da vive) e, soprattutto, il coro postumo, le voci degli individui nello stato di esistenza intermedia, che parlano da morte. Sono voci, queste ultime, che si esprimono per rimozioni, eufemismi, nascondimenti: chiamano la propria bara «cassa da malato», la propria tomba «casa di pietra bianca», il proprio cadavere (nei cui pressi vivono la loro condizione liminare) «la forma malata». Perché malati sono davvero: di torpido attaccamento, di assenza di consapevolezza della sopraggiunta condizione di fantasmatiche proiezioni psichiche. «Bisogna dunque che tu sappia di essere nello stato dell’esistenza intermedia», ci dice il bardo tibetano, bisogna non avere paura delle visioni terrifiche che appariranno in questo stato (visioni che Saunders adatta al contesto occidentale: non schiere di deità buddhistiche fiammeggianti, irate e assetate di sangue che irrompono con il rombo di mille tuoni, bensì psicostasie di sapore egizio e flagellazioni infernali), né lasciarsi sedurre da quelle pacifiche e beatifiche (Cristi assisi su sedie d’oro sotto tendoni adamantini, per Saunders).
Quarantanove sono i giorni simbolici di durata del bardo tibetano, sette volte sette, passati i quali, se ancora non ci è riuscito di giungere alla liberazione, verremo nuovamente avvinghiati dai lacci dell’esistenza mondana. I defunti di Saunders, invece, trascorrono anni, decenni nel loro bardo cimiteriale: non sanno, a meno che non penetrino nel corpo di un vivente, quanto è cambiato il mondo di là: «Era stato inventato un congegno per comunicare a distanza […], lo avevo visto, lo avevo usato; udivo, nella mia mente, il rumore che faceva quando era in funzione». E se accade il “miracolo” che un vivo inconsolabile, un padre, si rechi di notte alla tomba del figlioletto, ne estragga il povero corpo e lo culli, eccoli allora assembrarsi traboccanti di gioia, perché qualcuno del «mondo di prima» non si è limitato a recarsi «da quelle parti, con i suoi sigari, le corone, le lacrime, il crespo, le pesanti carrozze, i cavalli neri che scalpitano al cancello, le sue chiacchiere, il suo disagio, le frasi a mezza bocca», ma ha avuto il coraggio di toccare, con amore e tenerezza, la «forma malata», come se essa «fosse ancora…».
Venite in mio aiuto, prendetemi con la vostra compassione.
Ecco cosa è esortato a dire il morituro\morto del bardo tibetano alle proprie divinità tutelari, e chi lo esorta è il vivente che, con la recitazione del testo, gli fa da guida nel guado del tormentoso fiume del saṃsāra.
Ma gli spiriti tutelari arrivano anche nel bardo di Saunders. Giungono simili a bellissime sirene, temutissimi per il loro potere di materializzazione nelle forme più disparate e tentatrici: figure amate, parenti, affascinanti creature… Questi angeli paralizzano le anime in pena del bardo coi loro «attacchi personalizzati», coi loro canti «stupendi, colmi di nostalgia, speranza, incoraggiamento, pazienza, profonda immedesimazione», si moltiplicano, come Kṛṣṇa danzante con le pastorelle: una, dieci repliche di madre che t’invocano a seguirla, che ti incitano ad abbandonare quell’esistenza intermedia per trovare finalmente la pace, che ti ripetono, come un mantra di liberazione, che non sei che «un’onda che si è abbattuta sulla spiaggia», al fine di donarti la consapevolezza, la somma conoscenza discriminatrice, cosa che tu rifiuti perché ancora speri in una guarigione dalla morte e in un ritorno di là, tra i vivi, nella vita che era tua e che vorresti, vorresti sopra ogni cosa, restituita. Sei destinato all’altrove (e al suo mistero), ma per farlo devi riconoscere le illusioni del bardo.
Ritornerai comunque alla vita mondana, non quella che già avesti, ma una nuova, plasmata dal tuo karma, ti dice invece il testo tibetano, ritornerai ancora e ancora se non riconosci l’illusorietà stessa del bardo.
Non mi restava altro che andare. Anche se le cose del mondo erano ancora con me. Come, per esempio: un branco di bambini che arrancano sotto una spruzzata obliqua di neve decembrina; un cerino spartito amichevolmente sotto un lampione storto da una collisione: l’orologio ghiacciato di un campanile visitato dagli uccelli; l’acqua fresca da una brocca di alluminio; asciugare la camicia bagnata dopo un temporale di giugno […]. Niente di tutto questo era reale; niente era reale. Tutto era reale; straordinariamente reale, infinitamente caro.
In Saunders, chi cede alle seduzioni degli angeli, o grazie alla sopraggiunta consapevolezza, abbandona infine il bardo fenomenizzandosi in «materialuceradiante», gli abiti indossati che svolazzano per un po’ e poi piovono a terra («Come un uomo si sbarazza dei vecchi abiti\e ne prende altri nuovi,\così colui che possiede un corpo\si sbarazza dei corpi vecchi e si unisce ad altri nuovi», ci dice la Bhagavad-gītā). Non si sa quale destino lo attenda, se ancora qualcosa lo attende. È il tathāgata, il “così andato”.
Ma alla conoscenza illuminatrice si può, si dovrebbe giungere già da vivi: «Per quanto grande possa essere il tuo peccato e per quanto cattiva la proiezione del tuo karma, non è possibile che tu non sia liberato», così il bardo tibetano. Lincoln, di fronte al cadavere del figlio, contemplandolo (e si ricordi che la contemplazione del cadavere fa parte delle pratiche meditative orientali), si apre a una nuova consapevolezza:
È venuto dal nulla, ha preso forma, è stato amato, è sempre stato destinato a tornare nel nulla […]. L’ho scambiato per qualcosa di durevole e ora devo pagare. Io non sono stabile, Mary non è stabile, neanche i palazzi e i monumenti di qui sono stabili, neanche la città è stabile, neanche il mondo è stabile. Tutto cambia, tutto sta cambiando, in ogni istante.
Il presidente viene letteralmente “attraversato” da alcune di queste anime, che possono introdursi nei viventi, accedere alla loro interiorità e, in qualche misura, condizionarne pensiero e volontà:
Era incredibile. Proprio incredibile lì dentro. Venite anche voi, Bevins! chiamai. Non ve lo potete perdere (…). Quell’uomo sapeva un po’ di prateria. Fu come entrare in un fienile estivo a notte fonda. Vasto. Ventoso. Nuovo. Triste (…) Cercava di “vedere” il viso di suo figlio. Cercava di “udire” la sua risata (…) Lì, dentro quel gentiluomo, Mr Bevins mi prese la mano. E cominciammo a persuadere il gentiluomo. A cercare di persuaderlo.
E proprio durante uno di questi “attraversamenti”, le anime partecipano della natura compassionevole di Lincoln: «La sua mente si era appena volta alla sofferenza; al fatto che il mondo era pieno di sofferenza» (il sarvaṃ duḥkham di buddhisti e indù), «tutti tribolavano sotto il peso di qualche sofferenza; tutti soffrivano; qualunque strada si prendesse al mondo, bisognava sempre ricordare che tutti soffrivano […], perciò bisognava alleviare il peso di coloro con cui si veniva in contatto […]; al cuore di ognuno c’era la sofferenza; la nostra inevitabile fine, le tante perdite che dovevamo subire nel cammino verso la fine. Dovevamo provare a vederci in questo modo gli uni con gli altri […]. In quell’istante la sua compassione si estese a tutti, superando accidentalmente, con la sua logica implacabile, ogni barriera».
La compassione, suprema tra le virtù. Grazie a essa, alcuni saggi illuminati del buddhismo ritardano il loro ingresso nel nirvāṇa al fine di soccorrere tutte le creature ancora invischiate nell’illusione.
Come non pensare alla storia dei cinque semi di papavero?
C’era una volta una giovane donna, moglie di un ricco signore, la quale, in seguito alla morte del figlio, si ammalò di cuore. Portando in braccio il suo bimbo morto, andava di casa in casa e implorava la gente di guarirlo.
Essi non potevano fare nulla per lei, ma finalmente il discepolo di un saggio le consigliò d’incontrare il suo maestro, che abitava nelle vicinanze. Così la donna portò a costui il figlio morto.
Il saggiò la guardò compassionevolmente e disse: Per poter guarire il bambino, ho bisogno di alcuni semi di papavero. Vai e chiedine cinque in una casa in cui la morte non sia mai entrata.
La donna, allora, in preda al suo profondo dolore, andò in cerca di una dimora ove la morte non fosse mai entrata, ma invano. Abitazione dopo abitazione, sentiva solo storie di perdita e di sofferenza. Alla fine fu costretta a ritornare dal saggio. Alla sua quieta presenza, la mente le s’illuminò e comprese il significato delle sue parole. Portò via il corpo e lo seppellì nella terra, poi tornò e divenne una conoscitrice della verità.
Anche Saunders ci conduce qui: all’accettazione dell’universalità e dell’ineluttabilità della morte, e all’apertura alla compassione universale. Ma a differenza del bardo tibetano, che è un manuale sapienziale a uso del singolo individuo, il racconto di Saunders, nello splendido epilogo, riallaccia le piccole, umanissime storie dei personaggi alla grande Storia (e poteva essere altrimenti, con Abraham Lincoln come protagonista?), ai dilemmi che essa pone a chi abbia a gestire il potere:
Eppure. Era in lotta. Sebbene anche i suoi avversari fossero esseri umani limitati, sofferenti, doveva… Annientarli. Doveva (dovevamo, noi e lui) fare tutto il possibile, alla luce dei molti soldati che giacevano, morti e feriti, nei campi aperti, per tutto il paese, i busti violati dalle erbacce, gli occhi strappati dagli uccelli o dissolti, i denti orribilmente scoperti, le lettere fradice di pioggia/sangue/incrostate di neve sparse intorno a loro, per garantirci, mentre seguivamo l’arduo cammino già intrapreso da un pezzo, di non sbagliare, di non sbagliare ancora (avevamo già sbagliato così tanto) e di non rovinarne altri, coi nostri sbagli, altri di quei ragazzi, ognuno dei quali era caro a qualcuno (…) Dovevamo arrivare al sommo bene, portare questa cosa a rapidissima conclusione (…).
L’ultima anima a penetrare nel presidente è quella di Thomas Havens, lo schiavo:
Signore, se siete così potente come credo, così bendisposto con noi come sembrate, sforzatevi di fare qualcosa per noi (…) Siamo pronti, signore; siamo arrabbiati, siamo capaci, abbiamo dentro un concentrato di speranze che può essere mortale o benedetto: liberateci, signore, lasciateci provare, lasciateci dar prova di quel che sappiamo fare.
Insieme, l’uno dentro l’altro, li vediamo cavalcare, con lentezza, al termine della notte.