Pubblichiamo oggi la quarta di cinque interviste ai finalisti del Premio Narrativa Bergamo 2018, che verrà assegnato nell’Auditorium di Piazza Libertà, a Bergamo, sabato 28 aprile 2018. Michele Mari è stato il quarto finalista che ha presentato il suo libro, Leggenda privata, al pubblico del Premio. L’abbiamo incontrato nella hall dell’Hotel dei Mille di Bergamo e gli abbiamo rivolto qualche domanda per entrare nel cuore della sua scrittura e delle scelte che l’hanno portato a questo libro.
Proprio perché questo è il mio libro più autobiografico, un libro che intanto estende l’autobiografia anche ai miei genitori, che negli altri miei libri sono rimasti sempre un po’ defilati, per non dire quasi assenti, tolti due o tre racconti, e proprio perché sapevo di dover affrontare temi molto privati, molto scabrosi, ho voluto trattarli nel modo più letterario e appunto leggendario possibile: la leggenda è ciò che mi ha consentito di tematizzare questi ricordi privati. Con “leggenda” intanto devo distinguere la mia leggenda, cioè quanto io ho messo di fantastico nel ricordare le cose, nel ricostruirmele a mo’ di romanzo, quindi quasi trasferendole in una dimensione virtuale, da quanto di leggendario invece mi preesisteva, quanto di leggendario io ho ereditato già venendo al mondo da parte dei miei genitori. Per quanto riguarda mio padre, tutta la storia familiare, delle sue origini umili, di suo padre, cioè mio nonno Gino, che a dodici anni rimase orfano e come in un film neorealista salì su un treno-merci e arrivò a Milano con a carico il fratellino di cinque, fece il barbiere, il garzone, sposò una mondina del novarese, quindi dal nulla riuscì poi a far studiare i figli con una determinazione, anche un fanatismo degno di un personaggio di Jack London. Mio padre, pur non essendo uno scrittore, affabulava molto, ricamava molto in questa direzione. Da parte di mia madre, un altro tipo di leggenda, quella che riguardava il suo rifiuto eroico dell’educazione borghese cattolica, quindi il suo essere quasi fuggita di casa, il suo essere stata ripudiata perché si è iscritta a Brera contro la volontà dei genitori, ha fatto la bohémienne, si è messa poi insieme ad un uomo socialmente impresentabile come mio padre; e poi tutta la mitologia della montagna: mia madre effettivamente era una gazzella, saltava sulle rocce come un camoscio e per questo ha avuto l’onore di accompagnare persino Walter Bonatti e Dino Buzzati, il quale come affabulatore di esperienze mistiche e solitarie, come può esserlo una scalata in montagna, non era fonte da poco. Quindi io avevo questi due mondi, tra di loro abbastanza incompatibili, tutti e due alonati di leggenda, molto epici, e io in mezzo che fin da bambino, quasi prefigurando il mio destino di scrittore, non ho potuto fare altro che costruirmene una su misura di leggenda, per me e solo per me. Quindi alla fine, dovendo fare un po’ il bilancio della mia giovinezza includendo anche il mio rapporto con i genitori, l’ossimoro Leggenda privata mi è sembrato perfetto come titolo.
Le figure del padre e della madre, oltre a quella dell’io che racconta, Michele o Michelino, sono i tre poli intorno ai quali si costruisce il racconto; però a mediare in questi rapporti ci sono una serie di oggetti, che diventano poi feticci a tutti gli effetti, adesso mi viene in mente il Mottarello, ma ce ne sono tanti altri: mi sembra che ci sia nella rievocazione di questi oggetti e del loro valore simbolico una dimensione nostalgica. Che peso ha, o ha avuto, la nostalgia nel ricostruire questa storia, nel raccontarla?
Più che di nostalgia, nel senso vulgato del termine, come vagheggiamento di un’età dell’oro, di una mitica età perduta dove tutto era bello e dorato, io parlerei di prigionia nel passato, di dipendenza dal passato, come per una crescita bloccata, come se lo stesso tempo avesse smesso di fluire e si fosse rappreso, solidificato. Io spesso nei miei libri rappresento il tempo in termini spaziali, di paesaggio, come se il tempo, i ricordi, le situazioni si fossero reificati, plastificati, bloccati in una specie di modellino, di plastico nel quale ogni volta che torno tutto è identico perché ciò che è cristallizzato per definizione non cambia. Quindi, più che di nostalgia, io parlerei proprio di una sorta di dipendenza da un passato che di fatto non è passato, ma continua ad avvolgermi e irretirmi tutt’ora. Tanto è vero che io quando scrivo, almeno per quanto sta nella mia percezione, sono sempre sintonico con l’età di cui scrivo: se io scrivo di me ragazzino a scuola, di me a cui viene negato per indiscutibile veto paterno il bacino della buonanotte perché è ora che mi faccia uomo e quindi che mi sbrighi a crescere, ecco io nel momento in cui lo scrivo, per quanto possa essere smaliziato come scrittore, avendo già scritto tanti altri libri, di fatto però, sotto, sono ancora quel bambino lì, sono morbosamente complice.
Prima ho detto che in questo romanzo la vicenda autobiografica si compone in maniera articolata, però forse non lineare, essendoci due segni che intervengono a marcare delle discontinuità: da un lato le fotografie, che vengono incluse nel racconto e che contribuiscono a formarlo, dall’altra i tre puntini di sospensione. Perché adottare questi due espedienti, che lavorano evidentemente su due piani diversi? qual è la funzione per cui sono stati pensati?
Gli omissis, le parentesi quadre con i puntini, mi sono serviti molto praticamente per poter saltare in maniera libera da un ricordo all’altro, da un pannello all’altro, da un segmento all’altro senza troppe preoccupazioni di struttura, anacronicamente andando avanti e indietro nel tempo e lungo il segmento della mia vita che va dalla prima infanzia all’adolescenza. In alcuni casi anche stanno ad alludere che su quell’argomento avrei potuto dire di più, magari adducendo ulteriori esempi: se do un esempio solo non è perché sia avvenuto solo quello, ne sono avvenuti altri, ma quello mi sembrava il più significativo e rappresenta tutti gli altri. L’ultimo grado di allusività è che alcune cose siano talmente terribili da non poter essere dette, una sorta di pietoso velo. Credo che solo in due casi io possa confessare che la parentesi quadra ha avuto una funzione pietosa, ma in tutti gli altri casi no, ha avuto un valore meramente sintattico, o meglio antisintattico.
Le fotografie creano degli stacchi, però il loro ruolo è per così dire secondario, in quanto il libro è stato scritto senza fotografie, non pensando ad un’integrazione iconica. Soltanto dopo che io ho fornito all’Einaudi la fotografia di copertina, lasciandomi sfuggire che ne avevo molte di fotografie di questo tipo, di questa drammaticità, li ho incuriositi e mi hanno chiesto di poterle vedere. A quel punto io gliene ho fatto vedere una ventina e loro mi hanno chiesto perché non pensassi di inserirne qualcuna. Effettivamente è un’idea che subito mi ha convinto, anche perché ero reduce da un libro fotografico che è Asterusher (Corraini 2016), uscito l’anno prima, che è un libro in cui io, un po’ autocitandomi dai miei libri, un po’ scrivendo dei pezzettini appositi, commento e integro delle fotografie scattate nella mia casa di Milano e nella casa di campagna, che è questa di Nasca. Forse loro hanno pensato all’integrazione fotografica anche sulla scia di quel libro. Trattandosi però di una collana che non prevede immagini, mi ero autocensurato fin dall’inizio, non l’avevo proprio preso in considerazione. Poi ho sposato subito l’idea e in alcuni casi l’innesto è stato automatico, nel senso che io ho semplicemente creato uno spazio e ho infilato dentro la fotografia; in altri casi ho dovuto ‘sorreggerla’ con una piccola introduzione o con una didascalia.
Un’ultima domanda un po’ più leggera, che facciamo a tutti i finalisti: se dovessi individuare un carattere, un aspetto di questo libro che potrebbe fare colpo sui lettori e sui giurati del premio per farlo vincere, quale potrebbe essere?
Non saprei, dipende credo dall’età media dei lettori. Mi spiego meglio: quando ho fatto degli incontri pubblici, mi è capitato poi di capire dalle domande, oppure di sentirmi dire dopo, magari in privato da parte di qualche mio coetaneo, che alcune cose che a me sembravano uniche e straordinarie, in realtà erano abbastanza comuni e condivise. Per esempio il padre autoritario che vieta il bacino della buonanotte o che dice di non lamentarsi perché suo padre lo menava molto di più, insomma questo tipo di meccanismi per cui, come in Giambattista Vico, più si va indietro e più si è veri uomini, mentre più si va avanti e più si è rammolliti, ecco ho scoperto che è una cosa che molti, soprattutto maschi primogeniti, hanno patito. Altri invece si sono ritrovati per esempio nei marchi, nel Mottarello, nei nomi dei gelati, oppure in certe canzoni che io cito, come quelle di Jannacci o Brigitte Bardot, che mia mamma cantava, una canzone che i ragazzi di oggi non sanno cosa sia. Quelli che hanno sessant’anni Brigitte Bardot la conoscono perché allora era un tormentone. Cose di questo tipo creano come dei lampi, non dico che siano come la madeleine di Proust, ma risucchiano un po’ le persone. Spero che non sia un libro solo per persone attempate.