L’illustrazione di copertina è di Giovanni Quaglia.
Quando qualcuno viene a conoscenza di cosa mi occupo – ovvero modesta ricerca su tutto ciò che concerne il mondo del crime fiction, o giallo, o chiamatelo come più vi aggrada – anche i più disinteressati sono soliti uscirsene con la domanda: «ma scrivi anche?». La risposta ufficiale è «No, non scrivo perché non sono buono a scrivere, e non ho molta immaginazione». La risposta ufficiosa è «No, non scrivo perché tutto quello che mi sarebbe piaciuto scrivere – e quindi leggere – lo ha già scritto qualcun altro». Qualcun altro è una placida e bonaria signora della media borghesia inglese, nata a Torquay, sulle coste del Devon, come Agatha Mary Clarissa Miller, e divenuta Christie solo a seguito del primo matrimonio.
In un mondo come quello contemporaneo però, dominato dai nuovi media, l’opera della Christie è filtrata e di conseguenza assimilata dal grande pubblico più attraverso il cinema e la televisione che attraverso la letteratura. I tanti adattamenti rivestono così un’utilità straordinaria: non misurano solamente il suo successo come autrice, ma permettono di capire le modalità con cui può essere finalmente valorizzata oppure nuovamente fraintesa. Infatti, nonostante la Christie sia stata, senza ombra di dubbio, la più geniale e influente figura della storia di questo genere letterario, su di lei continua a pesare un giudizio pesantemente distorto, soprattutto, come si vedrà, in Italia. Se da una parte c’è il rischio di continuare a guardare alla sua opera dall’angolazione sbagliata, confermando pregiudizi ed equivoci, dall’altra si ha l’opportunità di restituire all’autrice la sua enorme complessità. Con questo intervento vorrei, innanzitutto, mostrare alcuni aspetti interessanti ma spesso sottovalutati del corpus della Christie, esaminando successivamente il modo in cui tali elementi emergono, o vengono al contrario celati, all’interno degli adattamenti cinematografici e televisivi.
Come accennato, agli occhi del pubblico e della critica italiana, ma non solo, la Christie non smette di apparire come una brillante artigiana, una macchina sforna–enigmi buona a tenere compagnia durante qualche lungo viaggio in treno. Da una parte la responsabilità va individuata nelle scadenti traduzioni, mediocri da un punto di vista letterario, ma anche piene di tagli e manipolazioni, che circolano ancora oggi: si pensi alla traduzione di Tito Sarego di Lord Edgware Dies (1933), in italiano Se morisse mio marito, dove appaiono riferimenti alle stigmate della razza ebraica (siamo in pieno clima leggi razziali) del tutto assenti in originale; oppure al celebre Evil Under the Sun (1947), mai più ritradotto dopo la prima mutilata versione intitolata Corpi al sole e firmata da Alberto Tedeschi nel lontano 1947. Dall’altra, non bisogna dimenticare che gran parte di coloro che si sono occupati a livello accademico di giallo in Italia, da Alberto del Monte a Giuseppe Petronio, da Loris Rambelli a Renzo Cremante, sono storici della letteratura italiana che hanno affrontato i testi spesso in traduzione, oppure hanno analizzato il genere mediante un approccio esclusivamente storico che non ha mai portato alla luce le reali complessità testuali che caratterizzano gli autori più interessanti. Di conseguenza, i critici ne hanno sempre parlato, per superficialità più che per incompetenza, con malcelato disinteresse, come se la Christie fosse il testimone di un fenomeno sociologicamente di rilievo ma letterariamente di scarso valore. Nell’immaginario collettivo i suoi sono dei complicati ma ripetitivi e formulaici indovinelli in forma romanzesca, incruenti e in ultima istanza consolatori, popolati da vecchie zitelle che parlano pomposamente come Maggie Smith in Downton Abbey e dove la giustizia invariabilmente trionfa, riportando l’ordine costituito. Non è un caso che Claudio Savonuzzi, in una delle tante, agghiaccianti, prefazioni approntate ai romanzi pubblicati da Mondadori, paragonava le sue opere al gioco delle tre carte, il cui successo risiedeva «nella solida invariabilità delle regole, nella interminabile stabilità dei suoi elementi». Non sorprende dunque che in Italia – dove, come noto, si fatica ad accettare tutto ciò che è profondamente popolare e smaccatamente di successo – la Christie continui ad essere un’autrice profondamente incompresa. Il romanzo Odore di chiuso (2011) di Marco Malvaldi, per esempio, concepito e presentato come un giallo alla Agatha Christie, con la sua casa di campagna, il ristretto numero di sospettati e il delitto della camera chiusa, non è altro che una vuota parodia di un modello incompreso, lenta e priva di immaginazione, dove a trionfare, incontrastata, è solamente la noia.
In realtà, quello della Christie è un universo letterario cinico, amaro, per nulla rassicurante e, in ultima istanza, profondamente equivoco. Nei suoi testi, l’autrice manipola i personaggi, le trame, le stesse convenzioni dei generi letterari, e soprattutto il suo pubblico, costantemente costretto a interpretare, a partecipare attivamente alla produzione di un significato che il testo non fornisce mai in maniera univoca. Si pensi a quel magistrale esempio di meta-fiction che è The Murder of Roger Ackroyd (1926), votato nel 2013 come il più mirabile crime novel di tutti i tempi dagli oltre 600 membri della Crime Writers’ Association (CWA). Il romanzo, narrato in prima persona da uno dei personaggi, che racconta la storia di un delitto commesso in un piccolo e sonnacchioso villaggio inglese, ha scomodato letterati, studiosi e teorici della letteratura come Tzvetan Todorov, Gérard Genette, Roland Barthes e Georges Perec – che prima di morire stava proprio ultimando un saggio su questo testo, del quale sono però apparsi estratti sulla rivista Littérature – ed è stato al centro di Qui a tué Roger Ackroyd (1998), brillante studio del critico francese Pierre Bayard. Questo volume scandaglia i meandri del romanzo christiano, lo mette a nudo analizzandone nel dettaglio il suo significato ultimo, sino a disseppellirne un altro, ben più profondo, il cui disvelamento è però completamente lasciato nelle mani del lettore. È difficile sapere con certezza se la Christie, moglie di un archeologo e grande appassionata di scavi, abbia, come sostiene Bayard, consapevolmente instillato nei suoi testi il seme del dubbio. Quello che è certo è che, nella maggior parte delle sue storie, la Christie moltiplica i significati e le possibili conclusioni sino a suggerire un secondo, terzo o quarto livello di lettura, contribuendo così a decostruire dall’interno il paradigma del romanzo giallo – l’assolutezza della soluzione finale e il trionfo della giustizia – minando di conseguenza la sua stessa leggibilità. Ciò accade anche e soprattutto nei romanzi senza personaggio fisso, in cui la veridicità della spiegazione finale è messa maggiormente in discussione dalla mancanza di figure rassicuranti come Poirot o Miss Marple. Un testo come Towards Zero (1944) è emblematico, concepito come una dettagliata ma appassionante analisi di un gruppo di personaggi senza apparenti legami che in ultima istanza si trova coinvolto in un delitto che ognuno, per motivi diversi, potrebbe aver commesso. La scoperta di un colpevole non ricostituisce l’ordine sociale e morale, né tantomeno contribuisce a dissipare i dubbi sulla sua reale autenticità.
Il successo della Christie è ancora oggi straordinario, tanto che i suoi romanzi, i suoi racconti e i suoi testi teatrali continuano a esercitare un fascino irresistibile, costantemente ristampati e riprodotti, trasformati in film, serie televisive, e graphic novel. La scrittrice inglese ha sempre goduto dell’attenzione di registi e sceneggiatori: sono circa quaranta i film usciti dal 1928 a oggi, a cui vanno sommati i trenta film per la televisione e le serie interamente dedicate a Miss Marple e Poirot. In passato, però, si è guardato all’opera della Christie in maniera colpevolmente superficiale e fondamentalmente acritica: i pur divertenti film con Peter Ustinov nei panni di Poirot per esempio – Death on the Nile (1978) e Evil Under the Sun (1982) – sono macchiettistici e si limitano a enfatizzare il lato umoristico delle storie, mentre la celebre serie televisiva Poirot (1990–2013) con David Suchet è una sorta di operazione nostalgica in puro stile British. Al contrario, i prodotti più recenti riescono a portare alla luce e approfondire quelle tensioni e quelle ansie che si celano sordidamente all’interno dei testi. Un caso emblematico è rappresentato dall’ultima trasposizione cinematografica di Murder on the Orient Express (2017), uno dei più decantati romanzi della scrittrice inglese, che inscena uno spettacolare delitto all’interno di uno scompartimento del celebre treno, bloccato dalla neve in territorio jugoslavo mentre è diretto a Calais. Kenneth Branagh, nelle vesti sia di regista sia di attore, è stato capace di rinnovare in chiave contemporanea la figura di Poirot e di affrontare e sviscerare tematiche raramente associate alla Christie – la solitudine dell’eroe, l’amore represso, la frustrazione della verità – che invece permeano l’intero romanzo, un autentico dramma umano troppo spesso scambiato per un semplice esercizio di tecnica poliziesca. Non si può dire lo stesso di Crooked House (2017) che, pur sceneggiato da Julian Fellowes e interpretato da un cast notevole, tra cui spicca Glenn Close, appare solo una pallida e inefficace imitazione del romanzo pubblicato nel 1949, un impietoso ritratto di una famiglia dell’alta società che lentamente si sfalda quando il capofamiglia viene ucciso in circostanze misteriose, rivelando il suo lato più crudo e violento. Il regista tenta di vivacizzare, americanizzare e rendere più glamour il testo, ambientandolo a fine anni Cinquanta e accentuando le eccentricità dei personaggi, ma non riesce a trasmettere, se non in maniera caricaturale, quel cupo clima di odio reciproco che domina le pagine, e anche il finale, uno dei più sconvolgenti e disturbanti mai ideati dalla Christie, colpisce meno nel segno.
La BBC ha recentemente acquistato i diritti per trasformare in mini–serie televisive firmate Sarah Phelps ben nove storie della scrittrice inglese. Il primo è basato sul celebre And Then There Were None (1939), in cui dieci personaggi tra loro sconosciuti si ritrovano intrappolati all’interno dell’unica abitazione di un’isola sperduta, e iniziano piano piano a morire in accordo con le strofe di un’inquietante filastrocca. L’adattamento, andato in onda a fine 2015, è forse il migliore mai riuscito a un testo della Christie, capace di catturarne i significati più profondi – l’ambiguità della giustizia, il pessimismo di fondo, la banalità del male – senza disperdere le qualità narrative del libro, una tesa e claustrofobica incursione nell’incubo, che non di rado sfocia nell’horror e nel fantastico. Il secondo episodio, invece, uscito nel 2016 e ispirato a The Witness for the Prosecution (1925) fallisce nel rendere il carattere esplosivo del racconto, appesantendone l’intreccio con sub–plots che distolgono l’attenzione dalla diabolica protagonista, la moglie di un uomo accusato di omicidio che si trasforma in una efficace testimone dell’accusa per motivi che saranno chiari solo nella spiazzante conclusione. Del tutto inadeguato, in questo caso, il paragone con il celebre film del 1957, diretto da Billy Wilder e interpretato da una scatenata Marlene Dietrich, che esplorando le tematiche dell’inganno e della maschera trasmette la cinica visione del mondo dell’autrice – nel momento in cui la menzogna viene scoperta, essa non serve a ristabilire la verità, ma solo a constatare il suo definitivo occultamento. Nella serata della domenica pasquale, la BBC ha mandato in onda il primo dei tre episodi del nuovo adattamento del romanzo Ordeal by Innocence (1958), un altro spietato ritratto di una famiglia divorata dall’odio e dall’egoismo. Il primo episodio, che ha già mostrato significativi cambiamenti alla storia originale, soprattutto per ciò che riguarda le psicologie dei personaggi, conferma l’abilità della Phelps nella creazione di atmosfere morbose e caratteri credibili, ma rivela ancora una volta la sua difficoltà nel gestire in maniera convincente i tanti plot twist che caratterizzano i testi e che contribuiscono a minare l’idea di giallo come opera letteraria finita, chiusa e circolare.
In conclusione, si può notare che, per quanto gli adattamenti, nel migliore dei casi, siano in grado di riprodurre l’universo per nulla rassicurante e consolatorio dei testi della scrittrice, non riescono quasi mai a comunicare il loro destabilizzante senso di ambiguità. Witness for the Prosecution di Billy Wilder, che lei stessa definì come il migliore adattamento a un suo testo, rappresenta una delle pochissime eccezioni. Nonostante questo, i recenti adattamenti hanno avuto e continuano ad avere il merito di mostrare il lato più duro, violento e, per certi versi, profondamente contemporaneo della Christie. Sarebbe auspicabile che il pubblico, gli scrittori e gli studiosi italiani, considerando anche il successo di questi recenti prodotti, cominciassero a occuparsi della sua opera in maniera finalmente critica, magari smettendo semplicemente di domandarsi i motivi di questo suo incredibile e imperituro successo.