Il nome di Aldo Busi torna ad affacciarsi sugli scaffali delle librerie con l’uscita di Le consapevolezze ultime, agile volumetto che ripercorre i fatti d’una cena d’alto bordo cui l’autore in persona dice di aver presenziato, invitato per vie traverse e sistemato tra industriali, toghe e primi cittadini corrotti.
Un invito che ha il sapore di un harakiri. E tuttavia è la voce narrante, che è quella schietta e tagliente di Busi, a spiegare fin da subito che «mica hanno invitato me scrittore, gliene frega un’ostia benedetta a questi qui, mica leggono me». Percepisce fin da subito e con lucidità d’essere stato accolto al simposio come personaggio e giullare, per dare un pizzico d’imprevedibilità alla serata («guardano la televisione dal divano in questo preciso istante e su youtube i video degli spezzoni televisivi delle mie liti più piccanti che si sono persi il secolo scorso, è da lì che mi hanno consustanziato e polverizzato nella loro ipofisi»). Una posizione solo in apparenza scomoda che, di portata in portata, il protagonista saprà sfruttare a dovere.
Le consapevolezze ultime costruisce e alimenta un curioso campionario di personaggi abietti e grotteschi. Il narratore sposta il fuoco di figura in figura, riservando al personaggio Busi il lusso di attaccare e irridere: c’è il sindaco con la sorella nubile che «è una donna d’altri tempi, non lavora, non ha studiato, legge solo dalla parrucchiera, non sa niente, twitta continuamente con aria di assorta intellettualità, le piacciono molto la Mussolini, la Santanchè, la Meloni e Barbara d’Urso», c’è il giudice corrotto («e non preoccupatevi», dice alla donna di casa che teme l’incriminazione del compagno per il disastro ambientale che stanno attuando le sue industrie, «rassicuri suo marito, una settimana, due al massimo, ci penso io, una falla, un vulnus si trova sempre»), c’è l’industriale Egidio, «prestigiatore di rifiuti tossici fatti sparire», raccolto nella sua tremenda «espressione svuotata di pathos tipica dei caimani che si spostano sott’acqua inavvertiti dei malcapitati che stanno a riva a far da imminente pastone». Al centro dell’orrore è posta una coppia dal peso narrativo più evidente, lo ieratico tandem dei proprietari di casa, Donna Teresa e Guglielmo Inossi, campioni di menzogna e vuotezza che riflettono in controluce ogni altro presenziante.
L’evento principale, il resoconto della cena, è preceduto però da un monologo del narratore, che a lungo s’interroga sul fascino degli “uomini che non parlano”. Non è mai riuscito, in giovinezza, a evitare il fascino di chi tiene la lingua a freno e ha «lo sguardo intenso di chi vuol far capire qualcosa senza dire cosa illudendoti». È qui da segnare un punto di svolta, perché «gli uomini che non parlano sono diventati tutti opachi, violacei, rugosi, bitorzoluti o con quella pelle così lucida e tesa che sembra creparsi alla minima espressione non abituale», compreso il Giacomino che in Seminario sulla gioventù, primo romanzo di Busi, aveva tanto ossessionato il giovane Barbino. È questa difatti la prima “consapevolezza ultima” di Aldo Busi, classe 1948: passati i quarant’anni la fascinazione è caduta e raggiunto il valico dei settanta è tempo ormai di voltarsi e prendere coscienza d’un abbaglio. Non si tratta solo d’un frivolo appunto, però: è questa la cronaca della caduta d’una maschera, d’una esorcizzazione. È una sorta di prova generale del metodo scientifico con cui il narratore alla cena darà il meglio di sé.
La transizione tra monologo e inizio del racconto è rude, il passaggio volutamente brusco: si apre un inciso, una parentesi e da qui si sviluppa una specie di incipit ritardato in medias res, che sorprende il lettore e crea un piccolo cortocircuito. All’improvviso lo spazio privato del pensiero di Busi viene invaso da un nugolo di persone che mangiano in silenzio tartine squisite, così gustose da impedire alla bocca di espletare una funzione comunicativa. Ci pensa però l’istrione settantenne (che ha la vis d’un ventenne, sia detto) a prender parola, alzando il calice e spiegando un discorsetto di benvenuto – proprio lui, l’ultimo degli invitati, la pecora nera del gruppo. S’intuisce allora il perché della transizione barbara: la voce si è solo spostata nel tempo e nello spazio, ha deciso di passare al resoconto della cena, ma si mantiene sul registro del monologo. Giova qui ricordare che questa è una caratteristica fondante del modo di fare letteratura dell’autore, che già ai tempi del Seminario aveva le idee ben chiare: «sono sempre io il centro del mio interesse, io quello che sottopongo alla giuria del mio insindacabile giudizio su me stesso». Sono trascorsi trentaquattro anni, il tono s’è fatto più aspro ma il principio rimane lo stesso: il punto di partenza e d’arrivo è sempre e soltanto l’Io.
Un Io che non ha perso nel tempo la capacità di ingoiare storie e vite ingigantendosi, allargandosi a dismisura. Busi non ha mai parlato dalla roccaforte di un Io impenetrabile, tende piuttosto ad abbracciare il mondo assimilandone ogni caratteristica, persino e soprattutto le più grette. Non si libera delle scorie, si fa manifesto delle storture del mondo contemporaneo: un’istanza autolesionista che gli permette di rivendicare estrema vitalità e di assumere un ampissimo respiro. In questo senso si pensi a Sodomie in corpo 11, girandola di esperienze al limite del credibile. È un “io-pianeta” quello busiano (e ciò è evidente persino quando il registro si sposta sul dettato dell’ironia: «i miei amanti inculando me è come prendessero Gea a braccetto»), ambisce alla universalizzazione dell’esperienza umana attraverso il singolo. Gioco che può sembrare solo in apparenza egocentrico e cieco.
Non sono mai riuscito a non dare una forma al mio disgusto, a vomitarlo fuori brutalmente. Lo trattengo, invece, lo macino lo riduco in polvere, da questa polvere ricavo inchiostro e poi letteratura. (da Sodomie in corpo 11)
Il protagonista investe con un fiume di parole i manducanti, che di fronte all’ondata a stento respirano col naso, impegnati come sono a masticare pane bianco e salumi nostrani. Da qui in poi il personaggio Busi, mosso dall’alto e con sorriso sornione e al contempo sofferto dal marionettista Busi, scaglierà la sua invettiva contro gli invitati e il mondo contemporaneo in generale senza pause, tant’è che è lui stesso a chiedere tra le prime battute il permesso per «un raro inciso nel fluire del discorso senza interruzioni dall’inizio alla fine». Deve però adattarsi al chiacchiericcio da tavola e si trova così a destreggiarsi tra «feikniù» sulla mozzarella di bufala che diventa blu, speculazione edilizia, il mondo dei bitcoin, l’inquinamento della terra, il caso Kevin Spacey, chiose bizzarre sul turismo sessuale e molto altro. È come se gli invitati avessero deciso scientemente di muoversi sulla superficie dei problemi dell’oggi, evitando di porsi delle reali domande, di pensare. Il protagonista ne risente e, sempre più solo, per la prima volta non riesce ad allargarsi, tant’è che nel dialogo non mancano dei continui ritorcimenti, dei frequenti «ma, dicevo…» e persino un «ma dove ero partito?».
Qui si segna in qualche modo un punto di svolta: l’io-pianeta non riesce ad assimilare questo mondo, ne riscontra la natura non solo corrotta ma inedibile. Non riesce a scavare oltre la maschera borghese dei commensali, intuisce l’abisso che nascondono e se ne allontana. Un solo personaggio cerca di forzare le maglie della propria condizione, la stessa Donna Teresa padrona di casa, ma invano: ha fatto la sua scelta, è una donna sprecata, «una cocciuta bambina che invecchia senza aver conosciuto molto di sé». È onnivoro il personaggio-mondo, non ha mai schifato niente, ma non è necrofago. Rifugge la morte, non ne vuol sentire parlare. Gli invitati alla cena sono, nella prospettiva in cui li presenta Busi, già morti, salme infiocchettate, incravattate e profumate.
Il tono è faceto e l’arringa in apparenza sconclusionata, ma a un esame più attento risulta evidente il controllo assoluto del resoconto da parte di chi sta scrivendo: la dissimulazione del racconto, il tentativo di ricreare il flusso libero del dialogo è a suo modo e senza dubbio un espediente retorico. Busi peraltro fa di tutto per smagliare il tessuto della narrazione, apre il respiro dei suoi periodi a una subordinazione forte e complessa, inserisce incisi su incisi (alcune parentesi durano pagine, schiacciano quel che ne sta fuori), stipa all’interno di una frase una quantità di argomenti sconvolgente. Il tutto sfruttando ad ampio raggio le possibilità della lingua, spaziando dall’espressione in dialetto al dettato sostenuto, dall’italiano medio da social network al preziosismo lessicale. Conscio del rischio di dissipazione e perdita del lettore, dissemina nella narrazione elementi ricorrenti che, per la loro banalità o scabrosità, sembrano esser stati sistemati per necessità o per caso: le continue corse in bagno, il riferimento continuo degli invitati alla bontà dello stracotto d’asino sono i più evidenti. Scandiscono il caos voluto e necessario della diegesi, fornendo un appiglio al lettore, che rischierebbe altrimenti di perdersi.
E così ho bell’e sistemato tutti i postumi da indigestione di umani di quella cena senza poi e in alcun senso con nessuno dei presenti e degli evocati, sicché chi si illude che ci sia stata e addirittura ci sia una trama a seguire è meglio che smetta subito di fare il guardone qui: qui, a parte te che guardi, non c’è niente da vedere.
Nelle ultime pagine torna con forza il parallelismo tra lo sfarzo malato della cena lombarda e la situazione d’estremo pericolo e povertà di chi attraversa il mare dall’Africa verso l’Europa, appena accennato in apertura e condensato in una voce che torna dal passato, ricordo d’un disperato annuncio telefonico che ossessiona l’autore, ascoltato in diretta televisiva nel 2013: «stiamo morendo, per favore…». Ma non è possibile un aiuto, non è previsto. I morti-vivi (e si pensi al Joyce di The dead) non possono e non vogliono ascoltare, il loro pensiero non corre oltre le mura di casa. L’uomo, animale più egoista che sociale, tende a pensare solo a se stesso, è un paradigma storico: «la reggia per te, il lager per gli altri». A tenere banco è solo l’urlo straziato che torna e rimbomba, che dovrebbe destare quel che resta della coscienza. Non farà mai in tempo ad assimilare il mondo intero Busi, è la sua consapevolezza ultima più dolorosa, ma ciò non significa nulla: ciò che è assente è presente in negativo, chi è vivo porta sempre con sé una storia.
Ma una voce è una voce e uno sguardo è uno sguardo e un ascolto è un ascolto ovunque, e non esistono deserti, esistono habitat nascosti alle brame umane o in divenire che non sono meno vivi solo perché non li abiti tu o non farai più in tempo a viverci, questa è la realtà e questa è anche la mia consapevolezza ultima, di altre non saprò che farmene.
Se si vuole criticare Busi, tirando le somme, lo si faccia per le sue prese di posizione, ma nulla si dica su qualità e vitalità della sua penna: in questo è senza dubbio un maestro e Le consapevolezze ultime ne è soltanto l’ultima riprova, convincente e scomoda.