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Non mancano nel panorama critico italiano letture convincenti e articolate dell’opera romanzesca di Elena Ferrante, che toccano tangenzialmente anche alcuni temi qui toccati. Meno affrontata, probabilmente è un’altra questione: in che modo questo innegabile risentimento riguarda l’immagine stessa, tutta testuale, dell’autrice? È noto che Elena Ferrante ha costruito sin dal suo esordio nel 1992 con L’amore molesto la sua immagine pubblica imperniandola su una presenza-assenza particolarmente rumorosa: non è dato sapere se il suo sia uno pseudonimo né a chi rimandi, non ci sono immagini né dati certi per verificare la sua identità. Per colmare, o meglio, alimentare queste mancanze, nel 2003 è comparso un testo anomalo nella bibliografia dell’autrice, La frantumaglia. Concepito come antologia di lettere, interviste e dichiarazioni di poetica, lungi dall’essere un semplice strumento per decifrare l’opera La frantumaglia presenta l’idea dell’autrice come opera. Ferrante stessa precisa nella lettera all’editrice di e/o Sandra Ozzola che apre la seconda edizione del testo (ne è poi arrivata in tempi recenti una terza): «Col tempo mi sono molto affezionata alla Frantumaglia, oggi lo sento come un libro pieno, con una sua coerenza che quando lo mettesti insieme non mi era chiara» (FR, 168). Anzi, il libro permette di cogliere in purezza, meglio che nei romanzi, quanto consustanziale sia alla stessa scelta di scrittura in Ferrante un risentimento difficile da sottovalutare. Prendiamo l’incipit della lettera che apre la prima edizione del testo, indirizzata a Sandra Ozzola e Sandro Ferri:
Cara Sandra,
mi hai chiesto, durante l’ultimo gradevole incontro con te e con tuo marito, cosa intendo fare per la promozione dell’Amore molesto (è bene che mi abitui a chiamare il libro con il suo titolo definitivo). Hai posto la domanda in modo ironico, accompagnandola con uno dei tuoi sguardi vivi di divertimento. Sul momento non ho avuto il coraggio di risponderti, mi sembrava di essere stata già abbastanza chiara con Sandro, lui si era detto assolutamente d’accordo con le mie scelte, speravo che non si tornasse sull’argomento nemmeno per scherzare. (FR, 11)
Vale la pena, anzitutto, porre l’accento sulla rammemorazione dell’«ultimo gradevole incontro» fra scrittrice ed editori, circostanziato in modo curioso: in una lettera privata e scritta, si presume, per essere letta da persone che hanno già comunicazioni pregresse fra loro, che ci stanno a fare tutte queste precisazioni delle circostanze su titolo del libro, modo in cui è posta la domanda, puntate precedenti? Non si dicono un po’ troppe cose che generalmente, nelle lettere, dovrebbero ricadere nel non-detto e vengono invece segnalate con una certa puntigliosità? L’impressione, impossibile da confermare, è che Ferrante voglia in questo passaggio, come nelle successive lettere antologizzate, dare un contesto al pubblico dei lettori escluso per forza di cose dalla corrispondenza privata, tratteggiando a nostro beneficio uno scorcio delle “puntate precedenti” delle discussioni con gli editori. Due aspetti già presenti qui torneranno in molte lettere della Frantumaglia: il tono privato ma carico di echi pubblici –Ferrante sin da questa lettera parla agli editori perché il pubblico intenda – e la serietà monolitica, del tutto priva di ironia, del discorso (caratteristica anche dei romanzi). Subito dopo, nella missiva, Ferrante per la prima volta pronuncia la sua dichiarazione d’intenti che resterà fissa alla base delle sue scelte nei venticinque anni successivi: «Io credo che i libri non abbiano alcun bisogno degli autori, una volta che siano stati scritti» (FR, 11). Da qui nasce la contraddittorietà di estremo interesse di questo lato della sua scrittura.
Al rifiuto categorico di esporsi in prima persona per promuovere i propri libri e sfuggire, così, al clamore mediatico, si accompagna una massa di interviste, interventi, dichiarazioni e lettere pubblico-private che lievita nel corso dei decenni, fino a diventare un volume di circa quattrocento pagine, nella terza e ultima edizione del 2016. Da un lato, l’elusività di Ferrante è completa, dato che nulla si sa della sua figura reale, esclusi i pochi accenni che lei stessa fornisce nella Frantumaglia (è nata a Napoli, ha vissuto all’estero, ha studiato Lettere Classiche, la madre era una sarta). Dall’altro, è difficile negare che non esiste probabilmente, nella letteratura italiana contemporanea, un autore che abbia prodotto più scritti di poetica e dichiarazioni di lavoro di Elena Ferrante. La sua assenza, lo hanno notato principalmente i detrattori, è particolarmente chiassosa, perché ogni pagina della Frantumaglia non fa che ribadire a chiare lettere che chi scrive non c’è, chi scrive sta sparendo, si chiama fuori, non è a nostra disposizione. Io credo che bisognerebbe provare ad analizzare questa sfuggevolezza aggressiva come un pregio della scrittura: l’incoerenza non è necessariamente un male quando è al servizio di un progetto artistico preciso e meditato a lungo. Quando Ferrante, in occasione del conferimento del premio Procida del 1992 all’Amore molesto, manda una lettera (Le sarte delle madri) da leggere ai giurati e al pubblico, precisa: «Questo brano, vi raccomando, va letto senza enfasi, con voce normale, senza tentare di fare i toni declamatori dei cattivi teatranti. Chi di voi leggerà dovrà sottolineare soltanto, con leggerezza, informi, sarte delle madri, corpo di donna, mistero senza importanza» (FR, 14, corsivi nell’originale). Come s’incastrano le indicazioni stringenti sulle modalità di lettura del brano e, a margine, le interviste scritte su cui Ferrante esercita dunque un forte controllo, con la convinzione che le parole scritte, una volta pubblicate, vanno per il mondo sulle loro gambe senza che l’autore debba più occuparsene? Se proviamo a leggere questa spaccatura fra la scelta di sparire e la continua produzione di autocommenti anche come manifestazione obliqua di risentimento (che possiamo riassumere in una sua tipica formula “Io non sono qui, ma in ogni momento devi sentire la mia presenza su di te”), anche altre sfumature acquistano nuovo significato. A Francesco Erbani, che le scrive dopo l’uscita del film L’amore molesto di Martone per porle delle domande sul romanzo che ne è alla base, Ferrante risponde:
Ha ragione, lei ha agito nell’unico modo giornalisticamente possibile oggi. Ha atteso un evento che giustificasse un articolo, un titolo, su un libro che non le era dispiaciuto. L’evento è arrivato dopo un anno: da quel libro si fa un film, il regista ha un nome non irrilevante, è possibile adesso chiedere un’intervista a questa signora che non ha nemmeno una sua piccolissima fama locale. Infine, con nitidezza, mi ha chiarito garbatamente, forse malinconicamente, che è l’evento-film a rendere oggetto degno di intervista il mio libro. (FR, 41)
La tirata contro Erbani, reo di essere arrivato al libro tramite il film, si chiude con un «Bene, non mi lamento» (FR, 41) di isolato, ma notevole, sapore comico. All’aggressività fa da contraltare la consueta diminuzione di sé nel rifiutare interviste che col passare del tempo si moltiplicheranno («Rassegniamoci ed evitiamo da ora in poi di promettere interviste che di fatto non rilascio. Forse col tempo imparerò, ma col tempo do per scontato che nessuno avrà più voglia di intervistarmi e quindi il problema sarà risolto alla radice», FR, 44). La sparizione serve però anche a creare nei lettori quegli stessi meccanismi di risentimento, quelle fantasie di avvicinamento impossibili da appagare. Quando Ferrante dichiara, in una successiva intervista a Erbani, che «chi ama veramente la letteratura è come una persona di fede. Il credente sa bene che, sul Gesù che davvero per lui conta, all’anagrafe non c’è un bel nulla» (FR, 191-2), si può notare che le dinamiche che Ferrante cerca di istituire fra sé e i lettori tendono ad assomigliare, con intenzione studiata, a quelle che Lila stabilisce con gli altri personaggi dell’Amica geniale, Elena in primis: dinamiche in bilico fra astio e curiosità, che alimentano un piacere del testo congegnato per non estinguersi. Il gioco, va da sé, funziona fino al momento in cui di Elena Ferrante non si sa, o non si vuole sapere, nulla: ma è un patto che viene spontaneo sottoscrivere, e i lettori, per quanto possano avere presenti le colate d’inchiostro che colorano da sempre il silenzio dell’autoproclamata scomparsa Ferrante, sono disposti volentieri ad accordarle l’immagine dell’autrice invisibile. Nella sezione più recente della Frantumaglia, chiamata con una qualche ironia involontaria Lettere (si tratta di un congruo numero di interviste rilasciate per iscritto a giornalisti di tutto il mondo, molte delle quali promesse dall’editore e/o in sede contrattuale agli editori stranieri della tetralogia L’amica geniale), Ferrante mostra di cogliere questo aspetto dell’interazione fra i lettori e la sua figura di autrice:
A mio modo di vedere, ricavare la personalità di chi scrive dalle storie che propone, dai personaggi che mette in scena, dai paesaggi, dagli oggetti, da interviste come questa, sempre e soltanto insomma dalla tonalità della sua scrittura, è nient’altro che un buon modo di leggere. (FR, 227)[1]
Per queste ragioni, sarebbe inutile sottolineare la distanza reale che corre fra autori scomparsi dietro la loro opera lasciandosi dietro poche tracce irridenti, quali ad esempio gli statunitensi William Gaddis e Thomas Pynchon (che è noto solo tramite un paio di foto giovanili, una Introduzione a 1984 di Orwell e un breve doppiaggio nella serie americana I Simpson) e la funzione autoriale che Ferrante assolve da vent’anni. La sparizione di Ferrante dal dibattito pubblico non le impedisce di prendere posizioni pubbliche su questioni di politica e società. Lo indicano i commenti disgustati contro Silvio Berlusconi e il berlusconismo arrogante e maschilista degli ultimi vent’anni[2], le affermazioni sul caso Welby[3], che sono introdotte dall’invito a non esprimere la propria opinione en passant su qualsiasi tema d’attualità, e le frasi a cascata che smentiscono apertamente questo stesso invito[4]. La costruzione dell’autrice, imperniata sull’immagine dell’assenza, è appunto un’immagine che deve però essere sempre presente agli occhi del pubblico, e non deve apparire secondaria e rinunciabile come lo sarebbe la figura biografica di un autore-fantasma qualsiasi. In forma ancora più essenziale, il risentimento che muove la scrittura dell’autrice riemerge in un intervento purtroppo non incluso nella Frantumaglia. In una lettera aperta al quotidiano «Repubblica» Saviano propone la candidatura al premio Strega di Storia della bambina perduta. Qualche giorno dopo, Elena Ferrante risponde dalle pagine dello stesso quotidiano. Inizialmente, ne approfitta per precisare alcune cose:
Condivido totalmente le tue opinioni sullo Strega, ai miei occhi è uno dei tantissimi tavoli del nostro paese che svelano gambe divorate dai tarli. È convinzione diffusa che si tratti di una gara senza nessuna incertezza, i giochi sono fatti sempre più spesso con un anno o due di anticipo, l’unico problema è evitare che qualcuno faccia il furbo[5].
La nota polemica non è però la premessa per rifiutare di sottoporsi al bailamme mediatico. Ferrante, come aveva già fatto con L’amore molesto nel 1992, accetta di partecipare allo Strega, ma alla condizione di non partecipare al tour promozionale in preparazione del premio. Infine, la conclusione è di magistrale risentimento (giustificato, lo preciso, visto che s’incentra sullo strapotere dei grandi gruppi editoriali al premio Strega). Dapprima:
Se infatti una parte non irrilevante di Amici a disagio arriverà a dare il premio al quarto volume dell’Amica, bene, si potrà dire che i libri sono stati una volta tanto sottratti ai giochi già fatti, o che almeno, a partire dall’anno venturo, anche la piccola editoria potrà considerarsi cooptata nella turnazione della grande. […]
Subito dopo:
Se invece l’Amica, secondo la prassi consueta, non entrerà nemmeno in cinquina, benissimo, si potrà dire definitivamente, senza ombra di dubbio, che lo Strega così com’è è irriformabile e che quindi va buttato per aria. In entrambi i casi l’uso del mio libro consisterà nel tenere in piedi per un altro anno un tavolo tarlato, in attesa di vedere se restaurarlo o buttarlo.
Le condizioni poste sono chiare: se vinco io, è un premio sano; se lo vince qualcun altro, è tutta una farsa. Non si può negare che sia una posizione cristallina: ci si potrebbe chiedere se sia stata esclusa dalla Frantumaglia per evitare contorcimenti diplomatici, dato che l’ultima edizione del testo è chiusa da un’intervista via mail con Nicola Lagioia, che in quegli stessi giorni si candidava allo Strega col romanzo La ferocia (poi ha vinto). In una mail pubblicata nella Frantumaglia e datata 27 febbraio 2015, cioè tre giorni dopo l’accettazione astiosa dell’invito di Saviano, addirittura Ferrante spendeva parole d’elogio sincero per La ferocia:
Sto leggendo invece La ferocia con grande interesse e partecipazione. Mi pare di trovare in ogni pagina la conferma della grande veritiera passione per la letteratura che ho avvertito subito nelle sue domande e nel modo con cui le ha motivate. Andrò avanti di sicuro con l’intervista, anche solo per la fiducia che mi ispira e per il piacere di dialogare con lei. (FR, 371)
Ma non serve sottolineare incoerenze vere o presunte: tanto più che vincere il premio Strega avrebbe danneggiato la narrazione di “esclusa” e “scomparsa” che gioca un ruolo cruciale nella costruzione dell’immagine dell’autrice. Questo breve pezzo vuole piuttosto essere un invito a rileggere le opere di Elena Ferrante sotto un’altra luce. Vorrebbe fungere da tassello e aiutare a capire, magari, perché Elena Ferrante arrivi con la sua scrittura conflittuale, spigolosa, incurante di tenere il passo del divenire storico (visto come una sequela truffaldina di fallimenti, ritorsioni e inimicizia stratificata), a un livello artistico e al grande successo di pubblico a cui quasi tutte le altre scrittrici contemporanee, con le loro pagine ripulite di ogni crudeltà, costruttive, impegnate, non riescono a giungere dopo tanto peregrinare. Alla luce del risentimento che, s’intendeva suggerire, permea alcune fra le pagine migliori di questa scrittrice, anche un testo finora reputato secondario qual è La frantumaglia getta una nuova luce sulla potenza virtuale dell’autore e sull’interrelazione strettissima fra presentazione pubblica e romanzi. Che Elena Ferrante sia non la migliore, ma la più naturalmente contraddittoria (e reale), la più seduttiva opera di Elena Ferrante?
[1] Altrove: «L’assenza strutturale dell’autore agisce sullo scrivere in un modo che desidero continuare a esplorare», FR, 246.
[2] V. la lettera Sospensione dell’incredulità in FR, 85-9.
[3] «Le devo dire però che esprimermi così, in poche parole schematiche, su un tema delicatissimo [caso Welby e tema del fine vita] mi pare frivolo. L’ho fatto in questa occasione, non lo farò più. Bisogna sicuramente partecipare alla vita pubblica, ma non ricorrendo a formule d’occasione, oggi su un argomento, domani su un altro», FR, 205 (Ferrante risponde qui alle domande dei lettori nel programma Fahrenheit).
[4] «L’Italia è un paese straordinario, ma reso del tutto ordinario dalla confusione permanente tra legalità e illegalità, tra bene comune e interesse privato. Questa confusione, celata dietro protagonismi chiacchieroni di ogni tipo, attraversa di fatto le organizzazioni criminali come i partiti politici, come gli apparati dello stato, come tutte le classi sociali. Ciò rende molto difficile essere un buon italiano, diverso cioè dai modelli costruiti dai giornali e dalle televisioni. Eppure buoni, eccellenti italiani ci sono, in ogni angolo della vita associata, anche se quasi mai si vedono in televisione», FR, 247.
[5] Elena Ferrante, Elena Ferrante: “Accetto la candidatura allo Strega”, in «La Repubblica», 24 febbraio 2015.