La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, uscito in aprile per il Mulino, è una ricerca sullo stato dell’arte letteraria nel suo complesso, concepita in primo luogo nel senso di una profonda cesura rispetto alla tradizione novecentesca. Nella prima parte, delinea una storia delle forme e delle figure retoriche più caratteristiche della prosa e del verso odierni; nella seconda, disegna una mappa di tematiche, poetiche e fenomeni editoriali ritenuti rappresentativi dello stesso paesaggio. Ne parliamo con il suo autore, Gianluigi Simonetti.
La letteratura circostante è un libro ambizioso. Niente affatto un catalogo del presente, si presenta come tentativo di mettere in opera costrutti critici validi per l’interpretazione del campo letterario nel suo complesso. Concetti come “velocità”, “realismo dell’irrealtà”, “mito delle origini/nevrosi della fine”, “abbreviazione merceologica”, si pongono audacemente come strumenti di validità generale. Quando chiami in causa «alcuni giudizi e pregiudizi della critica militante, di solito troppo impegnata a dire “mi piace” o “non mi piace” per farsi domande più articolate e radicali sul senso della letteratura che si scrive oggi» (p. 10), è a una certa mancanza di ambizione che fai riferimento? La percezione diffusa di una letteratura “ultracontemporanea” troppo vasta, multiforme, smembrata, caotica per essere addomesticata criticamente, è più il riflesso di certi pregiudizi che di un’effettiva illeggibilità della situazione?
La letteratura circostante non è un catalogo, anche perché effettivamente il tonnellaggio della produzione letteraria contemporanea è tale da essere incatalogabile; ma anche perché volevo andare oltre il semplice schedario, e più profondamente oltre un luogo comune della critica di oggi: l’idea che una situazione estremamente confusa, troppo frammentaria o troppo ricca sia impossibile da analizzare. Credevo e credo nella possibilità di individuare delle dominanti formali, delle tendenze di fondo, interrogando opere esemplari appartenenti non solo a generi diversi (narrativa e poesia), ma anche a diversi livelli dell’espressione letteraria: il consumo puro e semplice, il nobile intrattenimento, la letteratura di più forte ambizione e scoperta. Pensavo poi fosse utile verificare la trasversalità di queste dominanti, il modo in cui dialogano o si contrappongono, leggendo senza pregiudizi e sconfinando tutte le volte che serve. Negli ultimi anni sono apparsi diversi bei saggi sull’ultracontemporaneo italiano, tanto sul versante accademico quanto nell’ambito della critica militante; però la critica accademica tende a specializzarsi molto, a selezionare parecchio la sua materia; quella militante batte a tappeto più o meno tutto quello che esce, ma non sempre osa porsi domande sufficientemente radicali, e – sempre più spesso – si risolve in un’acclamazione o (più raramente) in una stroncatura. Io volevo fare un lavoro che avesse due lati: una storia delle forme letterarie degli ultimi trent’anni, una descrizione il più possibile completa della varietà delle scritture che abbiamo intorno. Di quel paesaggio volevo evidenziare gli strati, la genesi, la composizione geologica; identificare i buoni e i cattivi mi interessava e mi interessa meno. Anche se penso che poi, tra le righe, si capisca abbastanza chiaramente cosa mi convince e cosa no, perché non ho fatto molto per nasconderlo.
Mi pare che con La letteratura circostante tu abbia voluto riempire un vuoto critico, percepibile anche nel confronto con la bibliografia, che, pur nella sua vastità, non pare fornire molti punti d’appoggio preconfezionati e già pronti per l’uso alle tue argomentazioni. È corretta questa impressione? Quali sono, in ogni caso, i tuoi punti di partenza?
Per quanto riguarda la tua impressione, beh, dipende. Come dicevo, di interventi interessanti, sulla letteratura circostante, ne sono usciti diversi: li ho letti e usati tutte le volte che mi sono state utili per approfondire singoli aspetti di un’analisi testuale. Quello che mancava, a mio parere, era uno studio che provasse a parlare di tutto, e a mettere tutto in collegamento, partendo dall’analisi formale, cioè dal funzionamento concreto delle forme. Chi è partito dallo stile ha dovuto circoscrivere il discorso (e il campione); chi ha puntato su sintesi vaste o grandi formule spesso si è affidato a saperi extraletterari: la filosofia, la sociologia, la psicanalisi, eccetera. Il mio punto di partenza volevo che fossero le opere letterarie: come sono fatte, cosa dicono esplicitamente e soprattutto cosa dicono senza volerlo. Da lì provare a dedurre delle categorie nuove.
Nell’Introduzione, mostri come la produzione odierna che si rifà a quella che chiami “letteratura di una volta”, sia sempre più prodotto di nicchia e «sempre meno socialmente intesa come strumento di esplorazione e accertamento» (p. 32). La marea delle narrazioni di consumo caratterizzate da (cito): epigonismo, superficialità, infantilismo, approssimazione formale e stilistica, genericità, sudditanza verso i media audiovisivi, serialità, non ha solo sommerso il campo, ma ha stravolto il concetto di letteratura su su fino alla fruizione di élite, con quella forma intermedia tra alto e basso che è il midcult. Prendendo le mosse da questa diagnosi, molti studiosi tiferebbero per la letteratura “alta”, alcuni per una valorizzazione di quella “bassa”, ma tu hai scelto una strada diversa: accogliere in pieno, come oggetto di studio, una produzione che giudichi senza sconti sgradevole. Scrivi: «Sentiamo il dovere di tener conto della mediocrità e della bruttezza non solo perché costituiscono una parte molto consistente, anzi largamente maggioritaria, di ogni panorama letterario; ma anche perché proprio la letteratura triviale o d’intrattenimento sembra poter dire, oggi, qualcosa di specifico su quel che ci siamo abituati a chiedere all’arte e alla cultura» (p. 10) Noto una punta di masochismo e ti chiedo: in un quadro simile la ricerca letteraria di nicchia può proseguire un suo percorso comunque autonomo, o è fatalmente costretta a occuparsi ossessivamente della bruttezza circostante? Esiste ancora un’autonomia della letteratura?
La letteratura circostante mi sembra sempre meno autonoma – nel senso che mi sembra sempre meno fiduciosa nella propria autosufficienza, nella propria capacità di dire quel che ha da dire (e che nessun’altra forma di conoscenza può dire nello stesso modo) con i propri specifici mezzi linguistici, senza appoggiarsi ad altri linguaggi e ad altri saperi. Questo è tra l’altro uno dei tratti comuni alla narrativa e alla poesia cui alludevo prima: mi pare che entrambe, contaminandosi (o ricontaminandosi) con altre arti, specialmente arti di massa, stiano cercando di sfuggire alla propria ombra – o meglio all’ombra che proiettano dalla modernità, tra Otto e Novecento soprattutto.
Tra le conseguenze di questa perdita di fiducia si sente anche, da parte di chi scrive, almeno ogni tanto, una piccola crisi di autostima; esagerando un poco la definirei una sostanziale accettazione della propria eventuale mediocrità. Ovviamente di letteratura mediocre ce n’è sempre stata, come ci sono sempre e stati e ci sono ancora capolavori, ma oggi mi pare che sia proprio la produzione più mediocre e media a occupare il centro della scena (sociale). Non è sempre stato così. La letteratura di cui si parla di più – nei giornali, in televisione, in rete e nei salotti – sempre più spesso è proprio questa roba qui; perciò trovo curioso che così pochi interpreti sentano il bisogno di occuparsene. Molti preferiscono non vederla, la letteratura brutta o mediocre, per una questione di buon gusto; altri forse non la riconoscono come mediocre, la scambiano per letteratura buona o ottima. E questo naturalmente vale anche per tanti lettori.
Come mai questo fenomeno? Credo per motivi diversi: per un arroccamento difensivo nelle vecchie certezze della cultura umanistica, per un possesso sempre meno solido di alcuni strumenti di lettura, per una dilagante insensibilità alle sfumature della lingua letteraria, per una più spiccata sensibilità ad altri aspetti della fiction… Ma soprattutto, io credo, per una consapevolezza diffusa, anche se inconscia: non ci meritiamo più – né come autori né come pubblico – un’arte veramente densa, complessa e sconvolgente. Esposti come siamo alla comunicazione di massa, ci stiamo abituando tutti a un’arte che non ci impegni troppo il cervello, scorrevole e senza troppi spigoli. Tra questi tutti ci metto dentro anche molti lettori forti, e di sicuro mi ci metto dentro anch’io. In questo senso sospetto che «la letteratura triviale o d’intrattenimento sembra poter dire, oggi, qualcosa di specifico su quel che ci siamo abituati a chiedere all’arte e alla cultura».
Siamo sempre all’Introduzione, ma ne vale la pena, perché è illuminante su più fronti. Scrivi: «fare il punto della situazione […] non significa mettere insieme un canone a cui aggrapparsi nel presente o nel futuro» (p. 10) Il rifiuto di fare gerarchie è solo una mossa metodologica, limitata al discorso sulla letteratura italiana contemporanea, o intendi mettere da parte l’idea di un canone letterario monolitico/piramidale (con in cima l’Iliade o la Bibbia immagino)? Che forma ha, se ne ha una, il canone ai tuoi occhi?
Sono nato circondato da canoni, un po’ in tutti gli ambiti; crescendo li ho visti sfarinarsi quasi tutti. Il crollo delle gerarchie, e dei principi di autorità, mi sembra il dato forse più rilevante della stagione culturale che abbiamo attraversato in questi ultimi cinquant’anni – io ne ho quarantacinque. Personalmente covo un desiderio fortissimo di gerarchie e principi di autorità – nel mio libro le gerarchie ci sono eccome – ma non di canoni. Credo che ognuno di noi dovrebbe mettere un po’ d’ordine nei propri (chiamiamoli così) “consumi culturali”; e credo che dovrebbe farlo a scadenze regolari, leggendo e lavorando, disciplinandosi un minimo. Ma penso anche che dovrebbe costruirsi come lettore a partire da una profonda, severa e personalissima autoanalisi. Non mi piacciono i canoni perché sostituiscono ai guai del caos antigerarchico i guai non meno gravi del conformismo intellettuale.
Colpisce la lucidità disincantata della tua analisi, un’assenza di riguardi nei confronti dell’oggetto di studio, che certo si giustifica come sguardo critico, ma pare eccedere in qualcosa di più emotivo, quasi come se per te la letteratura si meritasse di essere trattata un po’ a pesci in faccia. Parli di «stanchezza della forma» (p. 23) dopo l’abbuffata avanguardistica. Questa tua odierna freddezza è solo un artefatto retorico, oppure la potresti ascrivere a una certa “stanchezza della lettura”?
Qui mi pare che ci prendi in pieno. Dopo aver frequentato intensamente per quasi dodici anni la letteratura circostante mi sono persuaso che non pochi scrittori, anzi direi non pochi artisti contemporanei tendano ad accettare quel lato un po’ cialtrone che cova in tutti noi (non dico sul piano personale, anche perché conosco pochissimi scrittori e comunque non mi permetterei; mi riferisco alla dimensione intellettuale, alla cultura letteraria, alla cultura tout court). I primi a non sapere bene cosa fanno e perché spesso sono proprio loro; e non mi riferisco al fatto (positivo) per cui la forma eccede e deve eccedere la coscienza dell’artista, ma proprio al dominio dei propri strumenti di lavoro. E’ sbagliato leggere i contemporanei con eccessivo timore reverenziale. Al contrario, dovremmo essere più severi e esigenti: con loro e con noi stessi. È un circolo vizioso: noi siamo stanchi di affrontare forme complicate tanto quanto lo sono loro di progettarle e crearle. Ma troppo spesso preferiamo non saperlo, noi e loro, e dare la colpa di tutto al «mercato».
Se avessi letto il tuo libro all’università, ci sarei rimasto male, perché se è vero che i processi descritti erano già abbondantemente in atto nei primi anni Zero, il percorso scolastico era ancora fermamente arenato su Primo Levi, Calvino, massimo un po’ di Pasolini ma solo il cinema. Sotto il banco leggevo Thomas Mann, mica (con tutto il rispetto) Aldo Nove. Molti scrittori miei coetanei si sono formati così, magari ingozzandosi di cultura pop in tutti gli altri campi, ma ignorando quello che accadeva nelle classifiche librarie. Sei professore di italiano all’Aquila, vi insegni immagino gli stessi “ordigni” che hai raccolto qui. Come reagiscono i tuoi studenti? Ci sono fazioni, che so, postromantici versus ipermoderni?
Mah, no, io come lettore ho sempre mescolato i classici con libri contemporanei, di livello variabile, anche se non necessariamente in classifica (anzi direi quasi mai): quel che mi succede intorno mi interessava anche da giovane, da ragazzino addirittura. Invece come professore sono più selettivo. Da sempre insegno sia alla triennale sia alla specialistica; nei corsi di letteratura contemporanea per la triennale mi impongo di spacciare solo classici del Novecento, alla magistrale mi concedo più libertà e apro ogni tanto all’ultracontemporaneo, con tutti i rischi che questo comporta.
La «dominante formale» (p. 41) della narrativa contemporanea per te è la “velocità”. Una reminiscenza immediata, automatica, è la rapidità calviniana. Cos’è successo con Calvino? I narratori anni Ottanta e Novanta erano così veloci che si sono fermati alla prima Lezione perché avevano fretta di scrivere?
Mi sembra che la maggioranza dei narratori cominci a andare davvero veloce negli anni Novanta. Ma le tecniche di cui si servono per accelerare hanno pochissimo a che fare con quelle di cui parlava Calvino. I modelli prevalenti mi sembrano altri; spesso non sono italiani; ancora più spesso non sono nemmeno letterari.
Nel paragrafo La tentazione del meraviglioso ravvisi «un desiderio profondo di evasione nel cuore della letteratura più civile, matura e responsabile» (p. 137). Eppure non hai reputato di dedicare spazio alla narrativa fantastica. Per quale motivo?
Oggi – e per oggi intendo: in questi giorni – la narrativa fantastica sembra diventata di fondamentale importanza nella narrativa italiana contemporanea. Sarà. A me pare che negli ultimi trent’anni il fantastico vero e proprio abbia giocato un ruolo relativamente marginale nella letteratura circostante. Semmai elementi fantastici hanno impollinato spesso scritture di impronta realistica; accenno a questo nel libro (mentre parlo più diffusamente di come ingredienti della narrativa cosiddetta di genere si stiano disseminando in quella che di genere non è).
Siccome nell’Introduzione, scrivendo della crisi della figura autoriale, nomini fra gli altri Scrittura Industriale Collettiva, ti propongo un gioco d’immaginazione fantaletteraria: quando, tra una ventina d’anni, i computer saranno tranquillamente in grado di scrivere da soli un buon romanzo di consumo, stereotipico e avvincente, non sarà forse una liberazione? Non sarà il momento in cui gli scrittori seriali (quelli che non cambieranno mestiere) si dedicheranno a opere più complesse, andando ad agire su livelli non riproducibili da un programma, insomma un ritorno della letteratura forte grazie alla competizione con i computer?
Non mi pare che l’esplosione della tecnologia in tutti i campi della nostra vita abbia determinato, in questi anni, un incremento corrispondente della complessità. Sono molto aumentate le informazioni, quindi il chiasso, ma la complessità – intesa come profondità e densità delle esperienze e delle opere – mi sembra decisamente diminuita. Su un punto però sono d’accordo: anche nella baraonda e nella formattazione più totale ci sarà sempre qualche disadattato che sentirà l’esigenza di dedicarsi a scrivere opere originali e complesse. Non so se uno scrittore seriale, ma certamente uno scrittore.
Nella seconda parte, Le forme circostanti. Un panorama, il tuo sguardo si scompone orizzontalmente e affronta i temi più diversi: la rappresentazione del desiderio, il rapporto con la pubblicità, con il cinema, la storia delle “scritture giovanili”, i libri scritti da personaggi televisivi, l’esotismo lontano del turista e quello vicino della borgata. Scorrendo l’indice, e sapendo che molti capitoli erano usciti in precedenza come articoli indipendenti, mi era sorto inizialmente il dubbio che potesse uscirne un mazzo di fiori diversi, ma con la lettura mostra una sua coerenza, si tiene. Con quale criterio hai selezionato proprio questi temi e non altri?
Due criteri. Uno metodologico: ho alternato l’approccio tematico a quello retorico, quello storico-sociologico (specialmente di storia dell’editoria) a quello linguistico. E poi mi sono concentrato su quelli che mi sembravano alcuni dei fenomeni più interessanti e caratteristici della nostra scena letteraria: il rapporto con le immagini, che ha del morboso; quello col desiderio erotico, che permette di chiarire bene gli scarti tra i diversi livelli dell’espressione letteraria. Ma anche la genesi e l’affermazione di alcune scritture di target (i giovani, i vip), e la contraddizione, forse solo apparente, tra un romanzo sempre più impegnato socialmente e uno sempre più tentato dall’evasione.
Conosco diversi giovani scrittori che una volta o l’altra hanno lavorato da ghost writers per personaggi dello spettacolo. Nella tua interessantissima disamina degli “scrittori televisivi” (pp. 341-58), non fai menzione dell’eventualità che il modo superficiale con cui questi si rappresentano (egocentrico, perbenista, pieno di cliché, ecc.) possa essere a sua volta mediato dai “fantasmi” che in realtà spesso scrivono quei libri. Una rivalsa sotterranea di letterati che si divertono a far confessare involontariamente ai vari Maurizi Costanzo e Antonelle Clerici la loro pochezza estetica e culturale? Ti pare complottista come idea?
In effetti mi sono posto il problema (e vi alludo, nel libro, quando accenno alle magagne dell’editoria su commissione). Tra l’altro volendo si potrebbe essere più complottisti ancora e rilevare che la mediazione di scrittori fantasma viene sempre più spesso ventilata anche per opere che non ascriviamo all’ambito poco prestigioso delle scritture di categoria, ma a quelle di nobile intrattenimento, e in qualche caso perfino alla letteratura “in senso forte”. Alla fine ho deciso di fregarmene, per due motivi. Primo, perché non sono in grado di verificare il carattere e l’intensità di questa mediazione (anche se sospetto che sia rilevante); secondo, e soprattutto, perché in realtà non ha importanza. Importa che l’individuo col nome in copertina accetti di legarsi all’opera, la senta in qualche modo sua e le presti il suo vissuto, il cosa – anche se non dovesse considerare rilevante il come questo vissuto è trascritto (un tipo di indifferenza che è interessante di per sé). Nelle scritture di categoria, del resto, è proprio la ‘presenza’ autoriale che conta.
Aggiungo, ma è un dettaglio, che i personaggi televisivi non confessano involontariamente la loro pochezza culturale: al contrario, non fanno che parlare di libri e di cultura. Involontariamente confessano il loro senso di colpa per il lavoro che fanno, che è una cosa diversa.
Un libro recente che ho apprezzato è Leggenda privata di Michele Mari, uscito un anno fa. Non sono un fan incondizionato di Mari, ma questo è uno dei suoi che mi è piaciuto molto. Un romanzo contro la famiglia, straordinariamente convincente, quasi didattico. Progressista in questo senso.
Affacciamoci sul futuro. La mia impressione è che il mondo tardo postmoderno televisivo superficiale ecc. che è stato il riferimento di tanta narrativa italiana dagli anni Novanta, stia scomparendo. Mi sembra che osservatori molto attenti fatichino a rendersene conto, forse perché il suo simulacro continua a funzionare invariato nelle rappresentazioni dei vecchi media fagocitati da internet (come rappresentato per esempio in Diorama di Marco Magurno). L’esplosione della connettività ha trasformato il consumismo in qualcosa di più astratto, meno legato alle merci che alle relazioni. Tu stesso parli di “fine dell’aura delle immagini”. Il nuovo contesto internet è saturo di testualità ibridata e multimediale; la parola scritta, imbarcati interi alfabeti di emoji, si riprende uno spazio che la televisione aveva spodestato. Vedo un lento riacquistare fiducia nel potere persuasivo e immaginifico della scrittura.
Concordo. La rete soppianta – o soppianterà – la televisione, il che ci rende (o renderà) consumatori di immagini meno passivi, perché nella rete c’è più interazione e più scrittura. Ma di che interazione e di che scrittura stiamo parlando? La quantità di cazzate che leggiamo e scriviamo in rete è spaventosa – e mi fermo qui perché questa stessa intervista finirà sotto la rubrica «scrittura in rete».
Mi ha colpito l’osservazione che la tecnica commerciale del “lancio dell’esordiente”, nata quarant’anni fa con Tondelli, perde colpi. Diventa sempre più difficile “lanciare un caso”; non solo: sono gli stessi “giovani scrittori” a non rientrare così facilmente nello stereotipo commerciale a cui eravamo abituati. Penso per esempio a Gli interessi in comune (2008) di Vanni Santoni, che in Feltrinelli dovettero scambiare per narrativa giovanilistica 2.0, mentre ne era totalmente alieno. Questo progressivo tramonto potrebbe essere legato a quanto dicevamo sull’avvento di internet?
Non so, non credo. Mi pare diventato più difficile in generale «lanciare un caso» – non solo un caso di scrittore giovane e esordiente. Da qualche anno a questa parte pare che i bestseller vendano un po’ di meno, un po’ di più i titoli a media diffusione. In compenso gli stereotipi commerciali vanno sempre a gonfie vele, semplicemente si aggiornano alle mode del momento: oggi tira la riscoperta della natura, il racconto della malattia (o della maternità), l’antifascismo novecentesco, la lotta alla camorra, eccetera.
Hai un altro libro in cantiere?
Solo qualche vaga idea. La mia media è di un libro ogni dieci anni; se mi interessa tanto la velocità degli altri forse è perché personalmente sono molto lento.