In occasione della mostra Supervision a BACO-Base Arte Contemporanea Odierna, curata da Mauro Zanchi e Sara Benaglia, abbiamo intervistato Irene Fenara, che presenta una selezione di immagini provenienti da videocamere di sorveglianza, salvate dal flusso continuo che le cancella ogni 24 ore, sottolineando il contrasto tra un’attività fortemente funzionale e un’estetica altrettanto potente. L’estetica della sorveglianza, della supervisione e del controllo si concretizzano grazie ai dispositivi che ne inquadrano la visione amplificata.
Lo spazio espositivo di BACO diventa il luogo di un errore di percezione, tramite un’installazione ambientale, il cielo fuori dalle finestre si tinge di rosa come nel difetto di registrazione di alcune videocamere a circuito chiuso. Il rapporto tra osservatore e osservato è segnato dall’ingresso in un mondo di post-privacy attraverso l’utilizzo e la diffusione di dati protetti, estrapolati dal contesto di provenienza. La condivisione di dati protetti, estratti tramite un hack, in uno spazio in cui sono in molti a osservare pochi, rende il fruitore implicato, e quindi complice, di un processo di normalizzazione della sorveglianza.
Prima di iniziare l’intervista, per non creare malintesi con chi leggerà, ti chiederei di definire cosa è per te “immagine” e cosa “fotografia”.
Diversi studi di cultura visuale fanno una distinzione interessante per quel che riguarda il termine immagine. Nella lingua inglese, infatti, il termine ha due varianti che sono image e picture, dove la prima è l’immagine e la seconda è l’immagine su un supporto mediale. Intraducibile in italiano in cui i due termini sono accomunati sotto la stessa parola, immagine appunto, che non prevede una declinazione oggettuale. L’immagine è quindi un’idea immateriale che si manifesta mentalmente o virtualmente, ed è trasferibile in differenti mezzi e separabile dalla sua materialità, qualunque essa sia. Forse, per me fare fotografia è dare un supporto alle immagini con cui lavoro. Renderle corpo, renderle oggetto, renderle concrete.
Osservando parte della tua opera pare che vi sia un dichiarato tentativo di annullare ciò che di solito viene utilizzato per fare fotografia. Anche nello spazio di BACO hai allestito stampe di immagini non realizzate da macchine fotografiche, bensì momenti particolari scelti dal flusso di ripresa di telecamere di sorveglianza.
Quello che m’interessa principalmente è indagare l’atto di visione, nella sua complessità, per questo mi sembra limitativo parlare solamente di immagini fotografiche nel senso comune. Più che un tentativo di annullare ciò che solitamente viene utilizzato per fare fotografia il mio è un tentativo di allargarne i confini, prendendo in considerazione le più disparate tecnologie visuali. L’acquisizione di immagini è una funzione che mi interessa esplorare perché ormai appartiene a qualsiasi tipo di apparecchio, elettrodomestico, macchina ecc. è una funzione che hanno anche i frigoriferi. Una recente pubblicità recita: “Guarda dentro al frigo dal tuo Smartphone. Le tre fotocamere interne consentono di controllare ovunque e in qualsiasi momento cosa c’è dentro al frigorifero”. Oggi l’esperienza umana è costantemente visualizzabile in immagini, anche mentre fai la spesa, o stai guidando la tua macchina, o cammini per strada o fai una visita medica.
Ci puoi definire cosa intendi per il concetto di strumento miope?
La cecità è innata nei dispositivi di acquisizione immagini perché producono una visione senza sguardo. Uno strumento miope è uno strumento che non viene utilizzato nel modo per cui era stato pensato e progettato, è uno strumento sempre al limite dell’errore. Mi interessa riuscire ad arrivare ai confini che certe tecniche lasciano percorrere. Lo strumento miope è quello che va contro al suo script, cioè all’ovvia funzione di base che un sistema di visione può compiere aggiunto a tutto ciò che il dispositivo vieta fortemente, ciò che può o non può fare. Nel caso dello scanner, quando ho iniziato a fare le scansioni ambientali ho notato che lo strumento non riusciva a distinguere forme e colori oltre i due centimetri di altezza proprio perché è una macchina che è stata progettata per riprodurre immagini piane, da qui il termine miope, che porta l’attenzione su una disabilità che può favorire la nascita di situazioni interessanti.
Cosa possono rivelare gli strumenti tecnologici solitamente estranei all’arte? Visioni anche molto differenti?
Mi ha sempre interessato la moltitudine e la difformità delle visioni, mi ha sempre molto colpito il modo in cui cerchiamo di riprodurre un’immagine che abbiamo già visto e che si è formata nella nostra testa, per esempio quando viaggiamo, facciamo sempre tutti la stessa fotografia interiorizzata dentro di noi dei posti che andiamo a visitare e che riconosciamo dalle fotografie che abbiamo già visto. Ecco, forse, gli strumenti tecnologici meno usuali possono aiutarci a dissuadere questo nostro atteggiamento umano.
Lo scanner, a una distanza superiore ai due centimetri, non distingue più né forme né colori e li registra come variazioni di luminosità. Come hai diretto invece le conseguenze di ciò che accade oltre le lenti delle telecamere di sorveglianza? Cosa ti ha interessato del loro sguardo sul mondo sorvegliato?
Stavo cercando nuovi dispositivi della visione che mi potessero portare a vedere in maniere differenti e quello che mi ha subito colpito delle videocamere di sorveglianza era il contrasto tra un’attività fortemente funzionale e un’estetica altrettanto potente. Si tratta di immagini provenienti da videocamere di sorveglianza, principalmente di privati che probabilmente non sanno o non danno peso al fatto che quando viene acquistata una videocamera di sorveglianza abbia codici di sicurezza standard, uguali per ogni marca, che se non vengono cambiati rimangono gli stessi, quindi facilmente accessibili tramite internet da chiunque conosca quel codice. Le videocamere di sorveglianza rientrano nel cosiddetto Internet of Things che comprende tutti quei prodotti che utilizzano il web per accrescere le proprie potenzialità. Il problema dell’Internet of Things è che il rapporto è sempre reversibile, ovvero che se tu puoi osservare, allo stesso modo puoi essere anche osservato, e che tutti i dispositivi che crediamo di utilizzare in realtà sono in grado di utilizzare noi e i nostri dati, evidenziando il carattere bivalente di un dispositivo ottico, la videocamera, spesso e volentieri usato come strumento di controllo.
Di volta in volta scorgo nuove tematiche su cui lavorare, spesso hanno a che fare con il vedere e l’osservazione, in linea appunto con i concetti di videosorveglianza e controllo. Alcuni dei soggetti più ricorrenti sono la religione (l’incredibile quantità di videocamere di sorveglianza sistemate all’interno delle chiese, in posizione perfettamente centrata fa supporre che Dio stia davvero guardando), il bird watching, le macchine al lavoro, le stesse cctv a loro volta riprese e le immagini provenienti da videocamere rotte, o videocamere in cui è stata offuscata la visione. Per quel che riguarda il bird watching, ad esempio, mi ha interessato l’enorme quantità di videocamere puntate su nidi o in luoghi frequentanti dalle specie volatili, probabilmente è una conseguenza dell’enorme riduzione nella popolazione degli uccelli, cambiamento che modifica l’aspetto e il suono del mondo. Monitorare questi luoghi potrebbe essere anch’esso un modo per esorcizzare la sparizione, in questo caso di una specie.
Mi interesserebbe approfondire il tuo gesto del volere salvare immagini dalla sparizione. Come scegli le immagini che reputi interessanti per te, da salvare?
Per quel che riguarda le immagini che raccolgo dalle videocamere di sorveglianza la mia scelta diventa l’unica salvezza prima che esse svaniscano nel flusso che le cancella ogni 24 ore, la mia selezione è determinante per la loro esistenza. Quando l’immagine che sto osservando mi porta a chiedermi del motivo della sua esistenza, allora la salvo. Salvo il file digitale, ma salvo anche l’immagine da un destino certo, dalla sua scomparsa a un giorno di vita. Salvo queste immagini quando è in dubbio la loro ontologia, come se fossero domande a cui, a volte riesco a rispondermi, ma tante altre no. La sparizione dipende però, non dalla sua importanza o inutilità ma dalla sua memoria e persistenza corporea. La funzione di memorizzazione una volta svolta dalla mente e dalla memoria è in parte oggi sostituita dalla fotografia di cui viene quindi a mancare, con l’automazione, quel diritto all’oblio cui in realtà teniamo tanto.
Per esempio, il recente Regolamento generale sulla protezione dei dati che ha riempito le nostre mail per giorni è in realtà molto importante perché dà diritto alla cancellazione dei nostri dati personali in determinati database. La paura di dimenticare ci porta a trovare sempre nuovi modi per accumulare, d’altra parte la paura che potrebbe essere registrato veramente tutto quanto, ci porta a desiderare l’oblio. Inoltre, la smaterializzazione degli oggetti e di ciò che osserviamo che causano sempre più velocemente le tecnologie, porta ad un’inevitabile sparizione dell’uomo in un ipotetico futuro, sostituito in tutto e per tutto nelle più assurde automazioni. Tutta la nuova tecnologia tende all’a-corporale e ritornare concreti è un modo per salvare noi stessi da questo rischio.
Supervision, Irene Fenara
a cura di Sara Benaglia e Mauro Zanchi
BACO-Base Arte Contemporanea Odierna
9.6.2018 – 1.7.2018
Via Arena 9, Città Alta-Bergamo