A coloro che vogliano avvicinare l’ultima fatica di Ermanno Cavazzoni, La galassia dei dementi (La nave di Teseo 2018), fiduciosi nelle proprie capacità di orientamento e sicuri di scovare un sentiero privilegiato che, senza intoppi, li conduca fino alla fine della lettura, potrebbe capitare, complice magari una minima disattenzione, di trovarsi da un momento all’altro smarriti nel viluppo di storie che animano questo universo. Accettare il rischio di perdersi, correndo dietro alle innumerevoli suggestioni narrative del libro, è l’unico modo “giusto” di affrontare il viaggio, la traccia di un “Voi siete qui” cui tenersi saldamente aggrappati. Nondimeno, vorrei approntare in queste righe una minima guida ad uso del lettore, allo scopo di fornire alcune coordinate per avventurarsi nei meandri di questo imponente crocevia di comiche divagazioni fantascientifiche che è La galassia dei dementi, opera grazie alla quale Cavazzoni è stato selezionato nella cinquina di finalisti della 56esima edizione del Premio Campiello. Le storie dei personaggi ricoprono un arco temporale ben preciso, ossia i mesi di luglio e agosto dell’anno 6.177…d.C.?

No, non più almeno, dal momento che nel libro il conteggio degli anni viene effettuato a partire dall’invenzione della ruota – d. r. sta appunto per dopo la ruota –, a indicare come l’avanzamento tecnologico sia arrivato a coincidere con il flusso della temporalità. Dunque, l’immaginaria forbice temporale che separerebbe il nostro mondo attuale dalla versione della futuristica Terra sui generis evocata da Cavazzoni, corrisponderebbe a circa 400 anni; alcune spie testuali invitano ad un ipotetico confronto in questo senso: ad esempio nel libro veniamo a sapere che la battaglia di Filippi si sarebbe svolta nel 3719 d. r., fatto che collocherebbe l’anno corrente a 5.779 anni di distanza dal novello anno zero. Il futuro immaginato da Cavazzoni si colloca in un certo senso “dopo” il futuro, in quanto la fase propulsiva della produzione tecnologica è stata arrestata un secolo prima da una devastante invasione aliena:

 C’era stata l’ondata aliena, cento anni prima, 6077 d. r., dopo la ruota; ogni cosa sporgente dal suolo, città, paeselli, singole costruzioni, era stata abbattuta con onde disgregatrici di natura sconosciuta, e con una insistenza, una meticolosità incomprensibile. Che cosa volevano? da dove venivano? da quale sistema solare? Nessuno aveva capito. Mentalità diverse, inconcepibili, piovute dallo spazio. Era stata la Grande Devastazione, solo rovine sulla superficie del globo, gli oceani rimescolati e bollenti.

È dunque un desolato ricordo di futuro a fare da sfondo alle vicende dei personaggi del libro, ambientate in una geografia dai connotati al contempo guasti e favolosi, sotto la quale, come un lucido apposto su una mappa, si intravedono i paesaggi della pianura veneto-emiliana, offerti al riconoscimento del lettore proprio perché trasfigurati dall’immaginazione. Dopo la Grande Devastazione, gli esseri umani, obesi e impigriti, investono le loro blande esistenze nel collezionismo di oggettistica priva di valore e delegando ai robot, la maggior “popolazione” della galassia, il soddisfacimento di ogni bisogno ai quali essi non sono più in grado di provvedere. Ciascuno dei modelli di androidi plasmato dalla fantasia dell’autore deve il proprio nome al prototipo da cui deriva, e nella cui onomastica è inscritto quasi sempre un indizio mitico-leggendario, che rimanda alla principale funzione per la quale queste macchine vengono programmate: attività erotiche, belliche, sforzanti, didattico-erudite e chi più ne ha più ne metta, fino ad arrivare a droidi la cui unica mansione consiste nel servire il caffè e nel monitorare il dosaggio dello zucchero. A completare il repertorio di demenza presentato nel libro contribuiscono varie specie di alieni, animali mutageni ed altri esseri geneticamente modificati: in questo bestiario di fauna transgenica una preferenza non casuale è concessa agli insetti, esempio perfetto di mente aliena all’umana comprensione e proprio per questo “demente”.
S’è detto dei luoghi e degli abitanti, qualcosa della fauna locale: ma che tempo fa nella galassia? Per lo più, tira un gran vento, il vento delle storie, un senso di bonaccia che ad ogni folata devia e scombina progetti e itinerari. La galassia dei dementi è una struttura che valorizza questi colpi d’aria, come un aquilone, o, meglio ancora, come un veicolo antigravitazionale, il mezzo di trasporto più diffuso nella Galassia, il più adatto all’intrapresa di questa trasvolata nella fantasia di Cavazzoni: «La scoperta è stata semplice: un veicolo galleggia a una certa distanza in proporzione inversa a quanto pesa e in proporzione diretta alla massa di materia anti, come fosse un palloncino pieno di elio». Buon viaggio, allora, e attenti alla testa.

Vorrei cominciare con una domanda che riguarda il laboratorio di questo libro, che già al colpo d’occhio spicca per mole tra le altre tue opere: quando hai iniziato a sentire il bisogno di scrivere La galassia dei dementi e quale tipo di sforzo ha richiesto rispetto ai tuoi lavori precedenti?

Anche il primo libro che ho fatto (Il poema dei lunatici, Bollati Boringhieri 1987) è un libro sulle tre-quattrocento pagine. Ci sono libri più brevi e libri più lunghi, per loro natura. Questo è venuto particolarmente lungo, non per una volontà preliminare, ma perché la struttura stessa del libro mi ha portato a questo. Mi spiego meglio: ho guardato su un mio taccuino e le prime righe sono del 2011, ne avevo scritto un po’, poi ho piantato lì perché avevo pubblicato alcuni pezzetti sul «Sole 24 ore», facendo un errore enorme: pubblicare una cosa solo abbozzata, è sempre un errore, perché ti scappa di mano, senti che se n’è andata, si è resa indipendente e non è più tua, infatti per qualche anno non ci ho più messo mano. In seguito queste parti già pubblicate le ho molto cambiate, sono diventate irriconoscibili e così ho potuto continuare a lavorarci. In pratica negli ultimi cinque anni mi ci sono dedicato, soprattutto negli ultimi due ci ho lavorato più intensamente, era come una moglie segreta che mi aspettava a casa, una moglie ancora amata da cui tornavo, ed era bellissimo ritrovarla in attesa e conviverci e trepidare assieme. Ci ho lavorato molto in montagna, in una casa sulle Dolomiti, anche a Bologna, e pure nella casa di campagna che ho a Quattro Castella. Tornando alla struttura, questo libro è fatto di tanti fili, come spesso si fa nella narrativa, si pensi solo ai poemi cavallereschi, o a Guerra e pace, libri fatti di tante storie intrecciate. In Guerra e pace sono storie di famiglie e di grandi personaggi; nei poemi cavallereschi sono le vicende di singoli cavalieri, ognuno dei quali traccia un percorso che incrocia o si scontra con altri percorsi. E così faccio anch’io: nel libro tante vicende si intersecano, vanno in parallelo, cozzano, generando altri personaggi e altre storie che bisogna portare a compimento, così tutto cresce, si complica e, come dire, si gonfia. È come agitare l’acqua del bucato con il detersivo dentro: la schiuma cresce e più ci metti detersivo più cresce la schiuma. E così il libro è cresciuto, non potevo abbandonare i personaggi che si erano fatti avanti, poveretti, ed ero io stesso curioso di sapere le loro avventure laterali e il loro destino, non avevo cuore di trascurarli.

I lunatici, gli idioti, i giganti, gli scrittori inutili, gli eremiti del deserto…nei tuoi libri hai sempre cercato di narrare i personaggi in maniera etnografica, di trattarli un po’come se fossero delle popolazioni dotate di caratteristiche particolari: in un universo popolato da forme di vita e di intelligenza così diverse, cosa accomuna i personaggi della Galassia sotto il vessillo della demenza? Come si identifica un demente?

Dai difetti. I difetti sono gli argomenti principali della letteratura, credo. Un personaggio tutto perfetto non ha interesse, a meno che la sua estrema perfezione non sia il suo difetto, come certe persone azzimate e perfettissime che diventano delle macchiette; è l’imperfezione che alimenta tutto, e genera anche nel mondo reale la storia umana. Se penso alla letteratura, direi che riguarda soprattutto anomalie, errori, disubbidienze, vizi, manie, disastri; i personaggi insopportabili e storti sono i più fecondi. La fantascienza quasi sempre tratta di intelligenze perfette: gli alieni sono spesso degli esseri superintelligenti, così come gli scienziati che vi si oppongono; in questo mio libro invece gli esseri umani del futuro sono tutti degradati a grossi lombrichi inattivi; i droidi, cioè i robot d’aspetto umano, pure loro funzionano male, come i nostri computer di adesso, pieni di buchi, di testardaggini, di guai, di procedure maniacali, di virus latenti…  le maledizioni che ho tirato al computer! più che a qualunque macchina da scrivere o qualunque telefono. Le forme più avanzate di intelligenza artificiale sono quelle che ci fanno più bestemmiare, credo. E nel futuro penso che sarà così anche con i droidi avanzatissimi, schiavi intelligenti ma ossessivi, monomaniaci, in un certo senso dementi. Per gli alieni altrettanto: mi piace immaginare che il difetto sia un fenomeno comune all’intero universo, e quindi anche gli alieni che verranno, se mai verranno, avranno i loro problemi, se non altro problemi di comunicazione con noi, per cui equivoci e fraintendimenti saranno la norma. Dopotutto non ci intendiamo neanche con le persone che ci sono più vicine: si pensi al rapporto tra gli Stati, oppure si ascolti un dibattito in televisione tra politici, è tutto un fraintendimento, ognuno va dritto per la sua strada e semplicemente parlano in parallelo come tra sordi. Parlare e comunicare con gli alieni sarà ancor più pieno di equivoci e di demenza: loro lo penseranno di noi, e noi di loro.

Rimanendo sulla questione dell’imperfezione, questo libro risalta in pieno i due significati della parola errore, da intendere sì come sbaglio, ma anche come erranza, ossia un tipo di traiettoria o un insieme di traiettorie. Giorgio Manganelli, ad esempio, insisteva molto su questo punto. I personaggi della Galassia sono a loro modo dei viaggiatori, tengono dietro a dei miraggi, che sono appunto illusori, ma al contempo rappresentano il motore del loro vagabondare. Che rapporto c’è tra viaggio e narrazione in questo libro?

Sì, è giustissimo, l’errare e lo sbagliarsi sono alla base di tutto quello che succede: errare significa andare verso qualcosa che non si sa dov’è, quindi implica un continuo allontanamento da quello che sarebbe il percorso giusto se uno sapesse qual è, o avesse un programma come nei viaggi turistici organizzati. In questo errare si incontra l’avventura, cioè il caso, che rende possibili gli incontri inaspettati. Ognuno va dietro al suo ideale punto d’arrivo, che può essere appunto la Libera Terra dei Robot, a cui tanti robot cercano di arrivare, anche se la convinzione che questa terra ci sia è un’informazione messa da qualcuno nei loro cervelli artificiali; nessuno sa davvero dove si trovi, anzi alla fine si rivela essere una sorta di trappola. Oppure l’errare di uno dei personaggi principali, lo Xenofon, è la ricerca del suo antico istruttore, e alla fine lo trova, sì, il suo istruttore, ma completamente cambiato, degenerato, irriconoscibile, una sorpresa. Spero siano sempre leggermente comiche queste avventure, non riesco a fare diversamente, mi diverto anch’io ad avviare situazioni ridicole, ad abbassare la materia fantascientifica, altrimenti non mi metterei neanche a scrivere.

Il lavoro che fai rispetto al genere fantascientifico, o science fiction, mi sembra, più che una parodia, un rendere buffi alcuni modi e cliché del genere, anche se in realtà tu poi utilizzi in maniera molto precisa il lessico scientifico e questa precisione si estende ad esempio anche ai nomi dei luoghi della Galassia, che sono nomi di luoghi realmente esistenti, ma trattati in maniera che richiamino nel lettore una suggestione da favola. Dunque la dimensione di esattezza si rovescia spesso nel suo contrario, una sorta di “favola dell’esattezza”. Sembrerebbe dunque un doppio gioco quello che porti avanti nel libro: rendere “esatta” la favola da una parte, dall’altra trasformare l’esattezza in una favola.

La tua domanda coglie un aspetto a cui tengo molto: i nomi propri. I nomi propri nella letteratura sono cose davvero molto importanti perché sono il DNA di un personaggio o di un luogo: nella grande letteratura i nomi restano memorabili e costituiscono già la promessa di un carattere, di un tipo di personaggio, di un destino. Non sopporto quei libri, purtroppo frequenti di adesso, dove i personaggi hanno nomi assolutamente intercambiabili: Giorgio, Giovanni, Paolo…  qualunque altro andrebbe bene, sarebbe sempre la stessa cosa. Questo è stato un processo che si è accentuato nel Novecento, di voler mettere i nomi dell’elenco del telefono, anche se forse l’elenco del telefono è enormemente più fantasioso. Per quanto riguarda i nomi dei luoghi sono tutti nomi reali. Ho usato le mappe militari della zona emiliano-veneta, e della zona del delta del Po, mappe meravigliose, che riportano i nomi minimi, assieme al rettangolino delle singole case sparse nella campagna, nomi che solo i localissimi abitanti conoscono; sono a volte nomi incredibili, sembrano inventati tanto sono carichi di rimandi allusivi a una loro vicenda o a vicende fantasticabili: Ca’ della Fame, Fossone dei Ferri, Po Morto, Valli Bianchine, Case Matte… tutti registrati sulle carte militari, li trovo pieni di fascino e di arcane narrazioni sepolte; se uno li dovesse inventare non sarebbe capace di trovare tanta espansione fantastica. Per quanto riguarda la finzione scientifica, la mia, più che fantascienza, sarebbe fanta-nescienza, proprio perché di scienza non ce n’è tanta nel libro, c’è solo un’illusione di scienza. Tutte le precisazioni chimiche, fisiche e meccaniche che metto, sono direi sempre esatte, anzi iperprecise, il che mi permette di far stridere per contrasto i registri della lingua, cosa che mi dà sempre soddisfazione: il registro scientifico, elevato e indubitabile, messo a contrasto con fatti stupidi e comportamenti dementi, provoca sempre, almeno in me, un sorriso.

Un altro dei temi di questo libro che vorrei mettere a fuoco riguarda appunto la difettosità del linguaggio, sia della comunicazione che del raccontare storie: tu immagini da una parte un’umanità che numericamente è inferiore rispetto alle nuove forme di intelligenza che popolano la Galassia, ma che al contempo è la matrice di queste intelligenze o presunte tali, che si portano dietro tutta una serie di errori per così dire “congeniti”. Ad esempio, questo continuo e umanissimo ripetere storie per sentito dire viene trasmesso anche ad alcuni robot, che in teoria sarebbero appositamente programmati per essere efficienti e precisi nel riportarle, ma che tuttavia, qualora vengano chiamati a farlo, spesso incappano in errori e scivoloni dagli effetti comici.

Questa è una cosa che mi piace, che mi deriva dalle esperienze che ho (e che credo tutti abbiano) con i computer, che sono la nostra forma di intelligenza artificiale quotidiana, dove capitano spesso interferenze: l’errore è sempre un’interferenza, qualunque errore; un bambino alle scuole elementari se sbaglia una parola è perché la parlata locale e dialettale interferisce con l’italiano standard. Oppure si può sbagliare perché la componente emotiva interferisce col discorso logico. E così se penso ai pacchetti di nozioni che le menti artificiali dei robot hanno in memoria, ecco che possono esserci cose non pertinenti che interferiscono con un programma, facendolo deragliare. Più aumenterà la capacità di una macchina di contenere informazioni, più sarà probabile l’errore o l’interferenza. E l’interferenza è la demenza, il fatto che la mente non procede linearmente seguendo un’unica direzione, ma viene sollecitata e tirata a destra e sinistra da altre informazioni, per cui anche le macchine artificiali prodotte dall’uomo quale rimedio alle proprie insufficienze, a loro volta producono altri tipi di errore, dovuti all’eccesso di informazioni. Ma qui adesso stiamo parlando in maniera un po’ troppo seria di cose che nel libro vengano trattate molto più avventurosamente.

Vorrei farti un’ultima domanda, che tocca un tema che so esserti caro: una delle forme di demenza che i personaggi della Galassia sembrano importare dalla riserva di insensatezze umane, nonostante la serie di cataclismi e disastri che si è abbattuto sul pianeta Terra, è quel tarlo utopico e burocratico che spesso affligge i tuoi personaggi. Sto pensando in questo senso all’Augusto Frassineti di Misteri dei ministeri: nel libro è un continuo creare repubbliche, attribuirsi cariche, proclamarsi a capo di qualcosa… questa mi sembra un’altra forma della difettosità di cui ti occupi e che costituisce uno dei territori più fertili per l’assurdo e la comicità.

Certo! questo libro è una mia passione: Misteri dei ministeri di Frassineti è un capolavoro, purtroppo dimenticato. Questo fatto di darsi titoli è tipico della nostra umanità, probabilmente dal paleolitico in avanti, o anche prima, dall’australopiteco del pliocene superiore, forse c’era già tra le scimmie antropomorfe. Attribuirsi un titolo o una posizione gerarchica è poi tutta un’illusione perché se questa attribuzione non si basa su un consenso generale è una specie di fantasia che uno ha di se stesso, un immaginarsi altolocato. Si veda il compiacimento, la soddisfazione che alcuni individui hanno anche oggi nel ritenersi discendenti da una famiglia aristocratica, nel vantare un quarto di nobiltà in famiglia: queste sono tutte cose assolutamente insensate e prive di effetto, sono solo una consolazione per chi è nessuno, e vuole illudersi di appartenere a qualcosa di grande e imperituro. Mi piace correre dietro a simili fantasie, tipiche dell’umanità di oggi e di sempre, quindi anche del futuro, darsi un titolo o una posizione di comando, anche se non c’è nessuno su cui comandare. In questo la burocrazia e la burocratizzazione sono la forma moderna che ha sostituito i titoli di nobiltà: ai titoli ereditari sono subentrati quelli di nomina istituzionale. L’inconsistenza di tali nomine, anzi di tali manie, nel libro della Galassia è accentuata dal fatto che gli apparati burocratici veri e propri non esistono più; tutto è svaporato, restano le velleità, diventate ormai solo ridicole; lo sono peraltro già anche oggi.


 

La galassia dei dementiErmanno Cavazzoni, La galassia dei dementi, La nave di Teseo, 2018, 670 pp., € 24