Luca Rizzatello (1983) ha pubblicato Ossidi se piove (Valentina Editrice, 2007); Grilli per l’attesa – Una riscrittura di Pinocchio (Valentina Editrice, 2008); mano morta con dita (Valentina Editrice, 2012, incisioni di Nicola Cavallaro,); faria (Dot.com Press, 2016, con Giusi Montali). Dal 2004 al 2015 è stato coordinatore del Premio Letterario Anna Osti. Dal 2009 cura la rassegna Precipitati e composti, e nel 2012 fonda le Edizioni Prufrock spa. Dal 2012 al 2015 ha curato, sul sito Poesia 2.0, la rubrica Tigre contro grammofono, e nel 2016, sul sito Librobreve, la rubrica Domatori di organi. Nel 2014 allestisce con Roberta Durante Wow!els – a new fairy tales experience; dello stesso anno Numbers – tech house e discorsi celebri. Nel 2016 la sonorizzazione per Couplets, con testi di Alessandra Greco. Ha pubblicato, per la NetLabel Ozky e-sound, gli EP Chantom limb (2013) e Opah (2016). Nel 2015, insieme alle case editrici Benway Series e Diaforia, ha fondato Una modesta proposta, una tavola rotonda itinerante per l’editoria e il pensiero pratico. Gestisce il blog vivere senza poesia, e insieme ad Angela Grasso lavora al progetto Ophelia Borghesan.
Luca, parto da fuori pista per rientrare in carreggiata tra un po’: ad oggi esistono milioni di premi e gare per i poeti, ma nessun premio per il mondo editoriale. Certo, sarebbe difficile – forse impossibile – valutare complessivamente il lavoro di un editore, ci sono di mezzo troppe variabili (penso al catalogo, la distribuzione, i materiali ecc) per dare un giudizio. Ma oltre queste difficoltà, mi chiedo, avrebbe senso un premio all’editore?
Una cosa di cui l’editoria di poesia non ha bisogno in questo momento è certo quella di venire sacralizzata o museizzata – è un atteggiamento che peraltro già possiede, indorandosi costantemente, quando invece i numeri, i risultati, parlano chiaro. Se il premio diventa un “dare la medaglia” e cristallizzare un percorso, sarebbe controproducente, al contrario sarebbe utile premiare il lavoro in prospettiva. Inizialmente peraltro bisognerebbe capire cosa distingue un lavoro editoriale da un’autoproduzione, parlo di catalogo, i libri venduti, il numero di recensioni ricevute, le presentazioni ecc, insomma, quale criterio ci dimostra che un progetto editoriale funziona? Da dove parte il lavoro dell’editore, da quando mi arriva il manoscritto in pdf, da prima? Ecco andrebbe premiato l’intero sistema che coinvolge le azioni di un editore.
Certo. La domanda sull’ipotesi di un premio all’editore nasce da una considerazione molto spiccia, ossia che a impaludare questo sottobosco nel qualche ci troviamo ad agire, in qualità di editori o critici, spuntano continuamente casette e casettine, piccoli progetti davvero minori, magari legati a qualche festival, senza una vera e propria identità editoriale, segno che chi li dirige di editoria ne mastica ben poca. Lungi da voler fare un endorsement alle grandi case, ciò che voglio dire è: abbiamo davvero bisogno di una realtà editoriale così gravemente particellare? Questo non nuoce all’intero sistema della poesia? Che senso ha mettere in piedi una casa editrice che pubblichi conoscenze o vincitori di premi (di scarso valore, peraltro, con una giuria non specializzata), che operi all’interno di una prospettiva quasi passiva, vantando al contrario un fantomatico “coraggio”?
È un po’ come l’acqua della fontana, la vedi zampillare, ma è sempre la stessa che torna da sotto. È un meccanismo noto questo. Perché poi, magari, questi editori partecipano ad altri premi del giro e vincono, rientrando delle spese e riuscendo a pubblicare altri vincitori. Per quel che riguarda il resto, a mio avviso ci sono due “totem” che sono stati innalzati un po’ a coprire altre criticità e questioni vive del fare editoria. Parlo del ritornello della “poesia onesta” della poesia “leale” e dell’onestà tout-court di chi decide di fare il poeta o l’editore, come se fosse appunto il concetto di onestà nella scrittura il valore che stabilisca un metro qualitativo. Io credo al principio della verità finzionale; devo creare qualcosa, sia come autore che come editore che sia finto al punto da sembrare vero, creando qualcosa di nuovo, assolutamente contro un’idea di identificazione. Non amo qualcosa in cui mi rispecchio, non amo rivedermi in te, perché a quel punto basto già. Sono onestissimi anche il caldaista, il calzolaio o il bidello, ma la loro onestà non è meno nobile di quella del poeta o dell’editore.
C’è però anche un’altra prospettiva sull’onestà, quando questa si volge in coerenza. Per quel che mi riguarda ci si può serenamente appigliare a un principio di onestà del proprio lavoro quando semplicemente si fa ciò che si dice di voler fare. Ma questo discorso in fin dei conti si lega al tuo nella misura in cui molti autori attuano un doppiopesismo a seconda delle convenienze e delle situazioni. È capitato di vedere trionfante la logica dell’apparire dovunque e comunque, anche sottomettendo ad essa principi ideologici sbandierati in ogni dove.
Ma su questo sono d’accordo. Ciò di cui parlo è quell’idea, perlopiù legata al marketing, dell’essere “della gente”, “dal basso”, l’onestà come “anti-professionismo”. È invalsa questa visione per la quale un professionista, quale che sia, avendo rodato i propri strumenti attraverso l’esperienza, ha prodotto in sé una sofisticazione tale per cui non è più in grado di descrivere il contemporaneo o la realtà. Falsissimo. È la versione letteraria del populismo il cui elemento centrale è l’idea del riconoscimento. Ma se ragionassimo così Don Chisciotte non lo leggerebbe nessuno o Madame Bovary solo le adultere. Bisogna dire invece che esiste un professionismo in tutte le cose, che è dato dall’esperienza, dall’accettare i propri limiti, ben oltre la coperta dell’onestà posticcia. Altrimenti arriva il giorno in cui uno ti punta il dito accusandoti di “quella volta che…”. E allora che facciamo? Piantiamo lì tutto solo per non accettare un contraddittorio? Vogliamo prevedere che esista una complessità o vogliamo rimanere al tribunale degli hashtag? Non possiamo confondere le cose.
L’osservazione che mi viene da fare, a riguardo di ciò, è come gli autori che si comportano in questo modo rifiutino poi in un certo modo la critica, riducendola sempre, anche quando fatta bene, a un insieme di vincoli che ingabbiano il “fuoco” della poesia, che di gabbie non ne vuole. Questo però diventa un bello schermo che difende bene dalle critiche anche testi scadenti o oggettivamente poco riusciti. La dialettica di chi pone l’urgenza della poesia di fronte al tecnicismo della critica farà risultare a prima vista sempre inadeguata quest’ultima, apparentemente intenta a vagliare aspetti poco genuini o poco “veri” del testo. Ma andrebbe sempre sottolineato che la critica non mette in discussione l’urgenza umana che sta dietro lo scrivente, ma la risultante effettiva di quell’urgenza; la realizzazione concreta, testuale, di quel pensiero, che potrebbe nella sua formalizzazione essere più o meno riuscita.
Per me va anche posto un discrimine generazionale. Penso che la mia generazione, quella nata negli anni Ottanta, sia una generazione mediamente non degna di nota per quello che ha prodotto. A oggi, e a mio parere, nessun libro scritto da un’autrice o un autore della mia generazione risulta essere significativo, o, per meglio dire, ha prodotto una discontinuità rispetto a quello che già c’era. Credo che siamo una generazione mediamente composta da persone con poco talento, e con una disciplina non sufficiente dal punto di vista autoriale, che ha prodotto come compensazione il fatto di essere particolarmente portata per quella che è la dimensione del portaborse, del passacarte, del cane da compagnia; che è comunque una vocazione, lo dico senza retorica. È ovvio che se ti rendi conto che la tua attitudine è quella e può portare a qualcosa di buono, il ciclo di autoconservazione fa il resto. Ma anche così non ha prodotto risultati. Anche libri che sembrano ben risolti, ben congegnati, non producono discontinuità. Scrivere non vuole dire sapere tante cose, oppure avere un cuore grande. Per me le due caratteristiche per la riuscita di un libro sono immaginazione e disciplina. E anche io mi includo in questo discorso. Uno dei motivi per cui chiudo la casa editrice è che voglio in qualche modo sbarazzarmi di me stesso, in quanto nego al punto i risultati di questa generazione che voglio cominciare a farlo da me. Per lasciare spazio alla generazione a cui appartieni tu, che ha capito molto meglio della mia – perché gli è stato sbattuto in faccia con più violenza – che il miraggio del gettone di presenza non è più praticabile e che non c’è nessuno fuori là che vi venga a salvare. Tutto quello che farete sarà solo in relazione al sistema che riuscirete a istituire.
Quindi fai per l’editoria lo stesso discorso fatto per gli autori?
Noi siamo qui a parlare di editoria, ma l’editoria di poesia è un falso mito. Oggi, quelle che non sono riconducibili a forme di auto-pubblicazione sono pubblicazioni in cui c’è un editore che, per mille ragioni, non è in grado di garantire buone condizioni all’autore che sta curando. E qui le ragioni sono miliardi, strutturali. Quali sono gli spazi commerciali o distributivi per poterlo fare? Capisci che se noi intendiamo l’editoria come stampare dei libri e farli arrivare con degli scatoloni a casa, allora possiamo dire che l’editoria di poesia esiste già; se invece intendiamo una filiera complessiva, che parte dallo scouting e passa per la promozione e un numero di presentazioni capillare per costruire il percorso di un autore, allora è diverso. La vita di un buon libro passa attraverso le spinte che gli si danno, ma non solo per quel che riguarda l’editore, ma per tutto il sistema che vi è costruito attorno. Pensa alla critica anche; oggi se c’è una recensione – e questo immagino sia un discorso che ti è caro – è quasi sempre positiva. Non sarebbe utile, per costruire il percorso di un’autrice o un autore, che una penna di rilievo critichi e contesti in senso edificante per metterli in condizione, attraverso un confronto, di strutturare i propri testi con più solidità?
Il problema è affrontare i testi per quello che sono, abbandonando entusiasmi o antipatie riferite a gusti o autori e questo tocca molta critica oggi. Si deve cogliere l’intenzione che muove il libro e raffrontarla, come dicevo prima, con il suo risultato formale. L’autore cosa voleva dire? È riuscito a farlo, in che modo? Ora, va poi detto che paradossalmente per molti è più semplice misurarsi con le criticità presenti negli autori affermati piuttosto che con quelle di esordienti o poeti giovani alla seconda, terza pubblicazione. Questo, ovviamente, per una questione di rapporti: raramente un Cucchi o un De Angelis si risentirebbero per una stroncatura fatta su un blog; al contrario, l’autore esordiente, che, sempre per il discorso del gettone di presenza, pende dalle pagine dei siti, qualora vedesse affiorare una buona stroncatura scatenerebbe tutta la propria frustrazione, a torto. Certo, poi va considerato anche un altro punto, cioè quando valga la pena di stroncare un libro, dal momento che mediamente a un critico arrivano numerosi testi, molti dei quali suscitano poco interesse, spesso perché scritti male o privi di un contenuto rilevante. Come comportarsi? Fare considerazioni in privato con l’autore può essere una soluzione, ma cosa fare quando attorno a uno di questi testi si genera attenzione mediatica per qualunque motivazione? Infine c’è da porsi anche il problema della damnatio, quasi in termini morettiani; è meglio stroncare un testo o non parlarne affatto?
Io partirei col dire che gli esordienti escono quasi sempre in scia di un padrino e che quindi attaccare un loro testo significa attaccare obliquamente i padrini o le madrine. Questo è un elemento restrittivo per molte persone che scrivono recensioni. Ma proseguendo, in un sistema sano non si è gli unici a scrivere di qualcosa, per cui il lettore o la lettrice in qualche modo devono attrezzarsi per farsi un’opinione su un libro basandosi su più voci e questo non dovremmo dimenticarlo. Non va dimenticato poi che qui rientra di nuovo quel discorso di coerenza che facevi prima, non bisogna infatti confondere la recensione di un libro con un pretesto per parlare di una certa poetica o politica culturale che non si condivide, le recensioni devono rimanere ancorate ai testi. Per quanto riguarda il fatto che sia meglio stroncare o lasciare fuori dai radar un libro credo che la questione riguardi più il critico che l’autore. Il rischio del critico è infatti quello di limitarsi nelle proprie letture sulla base di quello che egli ritiene funzionante, mentre proprio per capire e scegliere cosa funziona bisogna leggere cosa nonfunziona, bisogna conoscere anche ciò da cui prendere le distanze e non dimenticarsi che un ecosistema sano è fatto di una pluralità di voci. Inoltre non va sottovalutata la preparazione di chi scrive recensioni, non è un dato scontato. Oggi, come molti pensano di essere immediatamente bravi nello scrivere poesie, pensano di esserlo altrettanto nello scrivere recensioni. Una volta ho letto un articolo dove il Cantico delle Creature veniva confuso col Cantico dei Cantici. La sciatteria è una cosa da evitare completamente, soprattutto perché stiamo parlando di un servizio che è diretto a un pubblico, a una comunità, ma se questa comunità poi è estremamente ridotta e composta dagli stessi che scrivono testi e si recensiscono da soli in maniera superficiale, inventando feticci ed eroi, non andiamo da nessuna parte.
Credo che la tipologia di comunità parcellizzata in questo modo sia una delle modalità più dilaganti all’interno del mondo poetico. Torniamo però nel tracciato dell’editoria in rapporto a quello che hai appena finito di dire. Qual è nella tua visione il ruolo dell’editore rispetto alla sopracitata comunità?
Ho partecipato l’anno scorso ad un incontro sulla poesia presso l’Università di Bologna dedicato agli studenti che si affacciano a questo mondo. In quella sede ho dibattuto con Davide Rondoni riguardo a un suo discorso, la cui centralità si trovava nella divisone degli scrittori in scrittori-monadi e scrittori appartenenti a una comunità. Ora, in discorsi come questo c’è un problema innanzitutto retorico, monade e comunità sono due termini di diverse temperature, uno freddo e uno caldo, che inducono uno sbilanciamento della tesi, non è un discorso che lascia una scelta neutra. Ma il vero problema è che autori e autrici possono essere monadi, e cosa è che fa comunità? L’editore che porta in giro l’autore, lo mette in una rete di contatti e relazioni! Tu puoi avere il tuo percorso monadico, non è un peccato. Anche perché la mia idea di comunità non dev’essere legata alla comunità delle lettere, altrimenti torniamo al discorso di chi professa di “scrivere per la gente”, ma poi si autonobilita come “poeta”, non funziona così. La comunità è sì centrale, ma non ha nulla a che fare con la poesia, se si considera comunità solo quella dei poetisi esclude tutto il resto. E non ho finito. Credo che dietro a questo aspetto si nasconda poi l’idea che si possa essere autori solo attraverso l’appartenenza a una precisa comunità. Questo, in discorsi come quello da cui sono partito, parlando anche di padrini e madrine, è letteralmente un dentro o fuori. Ripeto, si può essere autori indipendentemente dall’appartenenza a un gruppo; questa logica è da evitare e va detto alle persone che stanno incominciando ad affacciarsi al mondo della poesia.
Certo. E il rischio è che il neofita che si affaccia alla poesia e trova determinati punti di riferimento, perché chiaramente in vista o comunque degni di nota, immagini il suo destino di autore come subordinato al facchinaggio in quello specifico contesto, che vada a porsi alla base di una gerarchia nella quale, stando buono buono e facendo ciò che gli viene detto, potrà risalire verso la “gloria”. La questione, però, si pone più grave nel momento in cui a questo fantomatico neofita manchi un’alternativa o comunque una prospettiva che mostri il panorama in maniera neutra. Manca, rifacendomi al tuo discorso, chi sostenga l’autore fuori dalle suddette comunità, chi gli dica e dimostri che può riuscire concentrandosi sulla sua scrittura e il confronto attorno ai testi, non spostando le sedie o prendendo il gettone per la presenza. Ed è evidente dai discorsi fatti che la figura mancante in questione sia proprio quella di un editore quale hai descritto tu. Tra l’altro si potrebbe notare come questa non-etica di cui hai parlato sia simile a quella che regola il lavoro gratuito al giorno d’oggi: vieni da noi, sentiti parte della comunità, lavora e poi, forse, prima o poi, verrai pagato. È imbarazzante.
Però bisogna spezzare una lancia a favore di alcuni aspetti. Prendi il Premio Rimini. Nella sua idea di base è qualcosa che funziona, finanziato e visibile, è qualcosa di riuscito. Il dispositivo del premio Rimini di per sé è un’operazione totalmente meritoria. Ciò che potrebbe essere il valore aggiunto di esperimenti come questo – ma sono bravi tutti a dire cosa sono i valori aggiunti, ammetto che fuori dal campo tutti siamo commissari tecnici – comunque, il valore aggiunto potrebbe essere un nuovo format di rapporto tra l’editore e un premio: l’editore dispone quale sia la cifra per una pubblicazione come impegno con il premio e prende con sé il vincitore, lavora sul manoscritto finché ce n’è bisogno – anche anni – lo porta con sé alle presentazioni o reading dei suoi autori e via così; torniamo all’idea di creare il percorso dell’autore. Se parliamo di opere prime, sarebbe interesse dell’editore non fare libri pessimi. Bisogna prendere i formati produttivi e ottimizzarli, ma questo oramai spetta a voi che entrate in questo mondo.
Contro il processo di formazione dell’autore, però, lento e faticoso, credo incida l’ansia di apparire subito tipica di molti esordienti, ma in questo caso mi pare ci sia anche una certa insistenza da parte dei più esperti nel voler pubblicare immediatamente, non appena si ritiene un lavoro concluso. Ora, non voglio esagerare, ma l’errore che crea brutti libri e che ci riempie gli occhi e le orecchie di versi mediocri – non dico inutili, ma tiepidi – è proprio quello di non concedersi più tempo per decantare, causa l’apprensione di venire tagliati fuori dal giro o di non riuscire a entrarvi. Ma questa è letteralmente una tara che compete il consumismo, non la poesia. Così, se la risposta di un autore alla domanda sulle tempistiche di lavoro è “il prima possibile”, si induce il processo che fa scadere veramente l’editore in un fantoccio per l’autoproduzione e gli scaffali si riempiono di libri mediocri, sempre però presentati come necessari.
Sai, in un dialogo con un autore bisognerebbe anche cogliere le sue ragioni. Perché questa persona viene da me, cosa vuole realizzare attraverso me? Se vuole solo pubblicare il libretto francamente non vedo ragioni sufficienti per appoggiare il suo lavoro. Una volta colte delle intenzioni valide allora si può ragionare sul margine di crescita dell’autore, capacità che credo stia alla base della figura dell’editore. Se l’editore perde queste facoltà e queste caratteristiche allora diventa un semplice stampatore. Cosa rimane all’editore se non fare da filtro e formazione?
A questo punto ti chiedo però che ruolo ha l’editore nella costruzione del libro?
Facendo il parallelo oggi con la musica si pensa spesso che un libro di poesia debba essere fatto di tutti “singoli”, tutte hit, per me non è affatto così. Un libro è un sistema di masse e di pesi tale per cui ci può essere un testo che non è un “singolo”, ma fa da cerniera con un ruolo diverso. Altrimenti di Caproni leggeremmo, che ne so, quindici poesie. Ecco, nell’ottica del libro come organismo che si va creando credo che l’editore debba avere un ruolo chiave nell’orchestrazione. E ti dirò di più, io queste capacità non le posso chiedere a un autore. Oggi un poeta deve essere autore, editor, promoter, lettore, venditore, ma cosa ci si aspetta da queste persone? Dovrebbero solo concentrarsi sulla scrittura.
Da editore, come ti poni nei confronti dei testi in rapporto ai social o comunque ad una dimensione di divulgazione e lettura su nuovi dispositivi?
Spesso senti dire che un autore su Instagram “funziona”. Credo che nel valutare questo fatto non si possa permettersi di essere tranchant e dire che non va bene. Se noi continuiamo a dire che bisogna rappresentare il contemporaneo, o produrlo, sarebbe in qualche modo poco lungimirante pensare che testi che funzionano in quelli che sono gli strumenti del contemporaneo debbano intendersi in forma deteriore rispetto a quelli che si danno in una dimensione più tradizionalmente libresca. Torniamo però al compito della critica. È la critica infatti che deve capire se, come e perché, un testo funziona o meno. Considerando ad esempio i testi di un’autrice come Eva Laudace, che su Instagram ricevono molti apprezzamenti, se tu mi chiedi quale credibilità o tenuta abbiano, ti direi che secondo me per il formato libresco quegli stessi testi non funzionerebbero altrettanto bene. Ma non posso neanche ignorare il fatto che esistono lettrici e lettori di poesia che non sono quelli della poesia sui libri come noi l’abbiamo intesa fino ad ora, e che probabilmente, al contrario, non leggerebbero mai la poesia che ho fatto con Prufrock spa. Allora il problema, in qualità di editore, è capire che non tutti gli strumenti possono funzionare con tutto e che per parlare del contemporaneo ci sono altre modalità, che è quello che cerco di fare ad esempio attraverso il progetto di Ophelia Borghesan, verificando la resistenza di dispositivi pensati per l’immediatezza cercando però di introdurre elementi con soluzioni stilistico-retoriche piuttosto evolute. Però, certo, chi sono io per dire che le foto della Laudace o quelle di Giovenale, in maniera opposta, non siano le evoluzioni di un linguaggio valido? Dico solo che ognuno, che possiede un sistema produttivo capisca quali sono i mezzi da usare e quelli da non usare. Io non ho dubbi sul fatto che, se c’è un editore che ha capito questo e che oggi può crescere, mantenersi editorialmente è Andrea Cati con Interno Poesia, perché dal punto di vista della comunicazione e del lavoro che fa, da tecnico, ti dico che è l’unico che sta facendo le cose come vanno fatte. Io stesso non riuscirei a comportarmi in questo modo.
Di cosa stiamo parlando precisamente?
Mi riferisco alla costruzione di un’identità, non legata all’autore, ma al contenitore editoriale. Che è in essere, certo, ma cresce bene. Io finora (Marzo 2018 ndr) non avrei pubblicato nessuno dei libri tra quelli pubblicati da Cati, ma è una fortuna direi, perché significa che è un ecosistema editoriale sano, diversificato. Ma quello che sottolineo come positivo è la definizione del contenitore, che ad esempio – e faccio autocritica – io ho faticato a creare, e pensa che la casa editrice è nata nel 2012. Inoltre penso che piano piano gli autori e gli spazi critici si inchineranno al suo lavoro, perché resterà l’unica realtà editoriale di poesia credibile. A mio avviso questo aspetto dovrebbe suscitare, in un’ottica competitiva, la reazione di altre case editrici, che dovrebbero spingere sui loro cataloghi e lavorare più intensamente sulle dinamiche di distribuzione e promozione.
Però, perdonami Luca, ma perché non lo hai fatto tu?
Io mi sono stancato di queste battaglie che porto avanti da più di dieci anni. Prufrock spa, da progetto artistico che era, è diventato una mia estensione; è sostanzialmente accaduto che io e Prufrock spa divenissimo la stessa cosa, ma quello che avevo in mente era una realtà diversa, prismatica, un lavoro fatto di persone. Questa dimensione è diventata soverchiante, ed è finita quell’onda lunga che mi aveva portato nel 2005 a creare questo progetto insieme a Nicola Cavallaro. Non credo comunque di finire al ribasso, anzi, sono in uscita dei libri strepitosi. Ho sempre fatto quello che volevo e credo di averlo fatto meglio che potevo, Non voglio restare solamente per farmi divorare dal narcisismo, è un male anche degli editori.